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Memorie storiche di Favara di Carmelo Antinoro

GOCCE DI RIFLESSIONI TRATTE DAI DIARI INTIMI DEL BARONE ANTONIO MENDOLA

Il barone Antonio Mendola

 

1

Libro di Carmelo Antinoro "La famiglia Mendola"

 

2

Libro di Carmelo Antinoro "Giustizia e verità nella vita del barone Antonio Mendola - dai suoi diari intimi"

Libro di Carmelo Antinoro "Giustizia e verità nella vita del barone Antonio Mendola - dai suoi diari intimi"

 

 

Nelle mie amarissime vicende c’è il contenuto di un romanzo drammatico e nero, che parrebbe impossibile se non fosse vero, ed a tutto questo dolore si aggiunge la negazione assoluta di uno sfogo. Non mi è concesso confidare i miei guai e le mie ambasce a nessuno, eccetto che a Dio solo. Certi mali non si curano; sono senza rimedio, come il cancro!

barone Antonio Mendola 29 marzo 1899

 

 

I diari intimi del barone Antonio Mendola

 

Da anni sentivo parlare del barone Antonio Mendola e di un suo fantomatico diario: in verità più per certe dicerie che per le sue doti di profondo studioso, universalmente riconosciute in campo ampelografico e agricolo, oltre che di disinteressato benefattore per la sua città di Favara e i suoi abitanti, soprattutto quelli poveri. Quando, nel 1991, cominciai a fare le prime ricerche storiche, tra le prime cose che portai a termine fu la ricostruzione genealogica delle maggiori famiglie di Favara, fra cui quella dei Mendola. Nel frattempo pensavo "chissà se un giorno questo diario verrà fuori, certo sarebbe importante per meglio capire questo personaggio, ma anche la Favara del suo tempo". Le ricerche effettuate negli archivi mi hanno consentito di ricostruire alcune vicissitudini legate alla genealogia, ai possedimenti, alla nobiltà, ma, com'era logico pensare, nulla sulle questioni intime del barone.

Dopo avere pubblicato, nel 2003, un libro sulla famiglia (La famiglia mendola - genealogia, nobiltà, possedimenti, opere ..... dal XVII al XX sec.) di cui riporto la copertina (f. 1), come un fulmine a ciel sereno mi arrivava notizia che i diari (e non il diario che, nel mio immaginario, vedevo come un semplice quaderno) erano stati ritrovati a Montepulciano. cos'era successo? Questi diari giacevano dimenticati del palazzo del cognato Salvatore cafisi e della sorella Momma (Girolama), in piazza Cavour, dirimpetto la chiesa del SS. Rosario, da anni in mezzo alla polvere e alle ragnatele, fino a quando l'erede, l'unico rimasto, decise di vendere ciò che ancora gli rimaneva del palazzo, compreso ciò che al suo interno si trovava. Per un arcano motivo i diari furono rirovati in una libreria antiquaria di Montepulciano. Fortunatamente venne informata l'Amministrazione comunale del tempo che li acquistò, li impacchettò e li rinchiuse in una armadio blindato. Intanto eravamo arrivati al 2006 e il 18 febbraio 2008 ricorreva il centenario della morte del barone. Fu così che presi l'impegno con me stesso, facendo leva sull'Amministrazione, di trascrivere quei diari per potere, alla fine, pubblicare il tutto con un libro in occasione del centenario. Dei quattordici diari scritti dal barone, dal 1 gennaio 1895 al 17 febbraio 1908 (uno per ogni anno), ne mancavano tre (gli anni 1895, 1896, 1898). La trascrizione degli undici volumi, per un complessivo numero di quasi seimila pagine (formato 21x30 cm) mi ha comportato un intenso lavoro di due anni, ma è stata una continua scoperta di fatti, intrighi, tradizioni ed altro legate sia al barone che ad altri personaggi del suo tempo, con ricordi anche giovanili. Da questi diari, che il barone, a ragione, chiamava intimi, scritti in un'età avanzata (da 66 a 80 anni) emerge l'anima di un personaggio tormentata da vicissitudini intime-familiari che lo hanno condotto alla solitudine per il figlio Giuseppe morto a 19 anni di polmonite fulminante, il 20 febbraio1880, studente a Stuttgart (attuale Stoccarda); per la moglie Rosalia che decise di allontanare per i suoi cattivi costumi dopo ventidue anni di convivenza; per la figlia Angela, unica sopravvissuta dei figli, che dopo il matrimonio andò a vivere a Canicattì e non ebbe figli. La svolta per il barone Mendola avvenne dopo la morte del figlio e nella consapevolezza di non avere avuto neanche dei nipoti su cui riversare il suo affetto. Il barone spendeva parte del suo patrimonio in opere di beneficenza, per procurare lavoro, ma viveva in un mondo che non gli apparteneva, a lui ostile e ingrato, per questo preferiva spesso vivere da solo, anzi, come lui spesso diceva, da anacoreta, nella sua villa Piana (in c.da Piana dei peri) assieme ai suoi cani. Nello scrivere i diari il barone spesso si abbandonava in questioni profonde e complesse come i misteri della vita e della morte, il suicidio; ritornava indietro nel tempo, rievocando momenti giovanili, felici, di spensieratezza, per poi, regolarmente, ripiombare nella profonda illusione, a vivere l'amarezza della sua solitudine e dei mali fisici e morali che lo affliggevano. Dopo la morte del figlio cercò la quiete dedicandosi alla beneficenza; cercò la calma e il conforto nella rassegnazione in Dio e nel tempo. Il costante dolore lo fece accostare alla fede cristiana adoperandosi per il bene del suo paese e dei poveri con elargizioni in denaro, offerte di lavoro, l'apertura di istituti e strutture caritatevoli e di soccorso per i meno abbienti, le orfanelle, i diseredati. Purtroppo in queste sue azioni benefiche, non solo rimaneva solo, ma veniva spesso bistrattato anche da chi aveva ricevuto il bene. Si rammaricava della vanità e superbia dei familiari, della cattiveria, maldicenza, ignavia e ignoranza dei suoi compaesani, anche dei giovani che avrebbero dovuto rappresentare il futuro e invece non facevano nulla per migliorare loro stessi e il proprio paese. Agli occhi dei più il barone appariva come un anacronistico, un eccentrico. Più andava avanti con gli anni e più attorno a lui si formava il deserto: gli amici con cui era in contatto epistolare morivano uno dopo l'altro; l'unica figlia che poteva essere il suo sostegno morale preferì rimanere a Canicattì anche dopo la morte del marito; le sue vaste collezioni di viti furono distrutte dalla fillossera; il suo trattato di ampelografia, frutto di tanti anni di sperimentazioni, non poté vedere la luce perché un balordo che era al suo servizio lo fece sparire dopo essere stato licenziato dal suo servizio presso la biblioteca-museo che chiamava loculus popularis sapientiae. Osservando il cielo, la terra e i luoghi che lo avevano visto nascere e crescere si chiedeva se la sua era una malattia o si stava accostando alla follia. Scrivere i diari per il barone è stato cibo per la sua anima. I diari erano i suoi fidi compagni, i suoi segreti confidenti, il suo sfogo, il suo conforto. Nei suoi diari gettava lodi e biasimi, scrutava la sua coscienza. Solitario, in faccia al mondo, annotava il complesso spettacolo della vita e delle commedie che altri rappresentavano. Si astraeva dal genere umano con l'ideale pascolo dei suoi diari, trovando dentro di sé la forza di riempire il vuoto, il nulla che gli altri facevano attorno a lui. Nei suoi diari emerge, sia pure in modo velato, la necessità di riempire il vuoto della sua vita, anche e soprattutto una profonda voglia di riscatto, di riabilitazione, desiderio che si fa pregnante nelle frasi lapidarie "Chi fa del bene o chi si studia di farlo deve trangugiare pillole di veleno. Fido in Dio. Egli protegge l'innocenza. Il tempo è il più grande amico. Il tempo dirà la verità e farà vedere da che parte viene il male"; e ancora "Sotto l'usbergo del sentirmi puro aspetto la giustizia del tempo e la verità o presto o tardi dovrà venire a galla ". Con queste parole, attraverso i diari, il barone volle affidare il suo destino, post mortem, ai posteri.

Per rispetto del personaggio e di quanto dallo stesso scritto, ho ritenuto opportuno, anzi doveroso, far parlare lui stesso dal mondo eterno, da dove non c'è ritorno. L'ho immaginato seduto, in un limbo, in attesa della sua trasmigrazione, sotto l'usbergo del sentirsi puro, preoccupato più per il giudizio terreno e degli uomini che di quello di Dio. In questo frangente mi ha raccontato le sue tribolazioni, i suoi desideri, i suoi dolori, col desiderio velato di trasmetterli ai propri concittadini, ai pronipoti di coloro che un tempo non l'hanno saputo, o voluto, capire, di coloro che l'hanno sprezzato. Lo strumento per il giudizio si racchiude nel libro (f. 2) Giustizia e verità nella vita del barone Antonio Mendola - dai suoi diari intimi pubblicato nel 2008 in occasione del centenario della sua morte. Qui è raccolta la trascrizione dei manoscritti del barone. Ai posteri l'ardua sentenza di giudicare e soprattutto discernere la verità dalla maldicenza popolare.

 

 

La traslazione della salma del barone dal cimitero al boccone del povero fra misteri e maldicenze

 

Antonio Mendola, non ha avuto pace neanche da morto. Nel primo ventennio del secolo scorso il suo corpo venne traslato nella chiesa del Boccone del povero (f. 3), ma anche in questo caso il destino beffardo si fece gioco di lui. All’interno della chiesa è stato portato un pomposo sarcofago in marmo di Carrara con sopra il suo mezzo busto (f. 4). Io pensavo che le povere ossa dell’illustre filantropo riposassero all’interno di quel monumento funerario. Nel 2003 sono venuto a conoscenza che il corpo del povero barone non riposava all’interno del sarcofago ma nel muro nord della chiesa del boccone, prospiciente uno squallido atrio scoperto, dove, in effetti, c’è una sovrastruttura muraria addossata, a ridosso del quale originariamente era disposto il pomposo sarcofago (poi spostato perché ingombrante)  (f. 5). Chiesi alla superiora, che senso ha tutto questo?, e lei mi ha dato una risposta che mi ha ulteriormente sbigottito: Perché … pare ... ho sentito dire …che la gente si sia ribellata sulla straslazione del suo corpo in chiesa. Dissi fra me: Qualcosa qui non quadra. Da un’accurata indagine sul sarcofago dello scultore palermitano Antonio Ugo, ebbi modo di appurare che è un’opera realizzata a diversi strati di marmo sovrapposti e che la salma del barone si trova addossata al muro nord della chiesa. In quel momento mi affiorò nella mente quanto il barone, quasi a presagire quello che gli sarebbe successo dopo la dipartita, scrisse nel terzo diario, il 1 agosto 1897: Io sto come un diavolo a mezz'aria, sospeso, inerte. Quelle rare volte che entro nella chiesa del boccone del povero (oggi non più utilizzata come chiesa perché la struttura è passata nella disponibilità del Comune) da quel muro odo una voce silente che invoca, reclama giustizia e verità.

 

3

Chiesa del boccone del povero 

4

Epitaffio dedicato al barone Antonio Mendola dello scultore Antonio Ugo

5

Tomba del barone Antonio Mendola al boccone del povero

 

GOCCE DI RIFLESSIONI TRATTE DAI DIARI INTIMI DEL BARONE ANTONIO MENDOLA

 

Il nuovo anno, rimembranze e delusioni

(1 gennaio 1897) Ogni anno i giorni solenni sono amari per me. Sono proprio sconfortato, sento di essere nel nulla, inetto ad operare. Mi ero creato una piccola atmosfera nella quale vivevo di speranze e di illusioni, bastando a me stesso. Questa piccola volta di cielo artificiale, questa piccola atmosfera è crollata e andata via. Che cosa fare in questo paese? Sono rimasto isolatissimo, ozioso, desolato. Ho visto svanire ogni castelluccio creato dalla mia fantasia e dal desiderio del bene. Potrò così più vivere in Favara? Sono un pesce fuori dall’acqua, sono un paralizzato. Penso di abbandonare questo ostile soggiorno e guarirmi dalla paralisi, trasferendomi in qualche città, dove sentimenti umani e conforti ed esempi di vita si possono trovare. Povero Popularis Sapientiae Loculus, nascesti morto, non fosti cosa, ma aborto. I favaresi ti hanno barbaramente annichilito. Povere opere di beneficenza, orfanotrofio, asilo d’invalidi al lavoro, ospedale, asilo infantile, siete rimasti pii desideri nel petto mio, siete ombre, vaneggiamenti. Mi sento venir meno. Non so più andare avanti, mi manca la forza, vado strisciando come un rettile, come un uccello a cui furono strappate le penne dalle ali e dalla coda. L’anno 1897 comincia per me con cattivi auspici. Ho mangiato male, ho dormito peggio. Un fortissimo raffreddore mi toglie appetito e forza. Aspettavo per il capo d’anno mia figlia e mio genero, non l’ha voluto far venire. Pochissimi mi hanno fatto gli auguri del capodanno, Domenico Sajeva di Giovanni è venuto ieri sera di soppiatto, quasi è sdegnoso degli aiuti che io accordo a suo padre per mantenere lui allo studio. Stamattina sono venuti De Vecchi, Calogero Chiodo, il dr. Antonio Mulè e suo figlio Raffaele mio figlioccio, anche costui scade negli studi; fu bocciato agli esami di luglio e di ottobre. Ha preso già il vizio delle donne; è impertinente e collerico con i genitori. Che gioventù! Dopo pranzo sono venuti Giacomo La Russa con le sue due figlie, la grandicella che studia il corso normale femminile e la piccina Carmelina e poi mio fratello con le mie nipotine Graziella e Peppinella. Mia figlioccia Checchina Scaduto mi ha fatto un bel regalo. In tanta desolazione ho avuto questi cari conforti dalla famiglia, meno male. Ho mandato due grappoli di uva fresca dalle mie pergole al dr. Libertino Fanara, mio medico, con un servizio da caffé, per due, in porcellana Ginori che comprai a Napoli per lire 50. Con l’imballaggio e spedizione mi costò lire 60. Alle 11 è venuto il dottore a ringraziarmi. Ci siamo ringraziati a vicenda. Ma io sono così disdegnato dell’ambiente e pentito di aver fatto il loculus da non pigliare ora nessuna soluzione. È finita l’idea di giovare al pubblico perché non c’è pubblico che se ne giovi. Mi resta da vedere se nel mio individuale piacere convenga o no ampliare il museo, già molto avanti in fatto di uccelli.

 

Mio figlio Peppino

(1 febbraio 1897) Il mio povero cuore, tutti immerso nel lutto e cordoglio da 16 anni sente tuttavia il bisogno di sfogarsi, di espandersi e recare qualche conforto e lenimento nell’animo di coloro che sono stati colpiti dalla medesima sciagura. Non so se faccio bene o male e se tradisco le mie intenzioni, in tutti i casi mi compatiscano. Io comprendo appieno ed a prova tutto il dolore e del caso amarissimo dell’immatura perdita del loro figlio Giuseppino. Che somiglianza e coincidenza!. Anch’io ho perduto un figlio Giuseppino a 19 anni, il 19 febbraio 1879. Era buono, saggio, bello. Dagli 8 a 13 anni fu messo nelle grandi preparazioni di Hoffwesl? presso Berna e già a quell’età parlava il tedesco, l’inglese, il francese, lo spagnolo. Da 14 a 15 anni imparò benissimo il greco e latino, iniziandosi nelle lingue orientali. Era pianista e disegnatore. Senza nessuno dei vizi che dirupano la maggior parte dell’odierna gioventù. Era passato a Stuttgart, capitale del Wuttemberg a fare il corso di scienze naturali. Non era stato mai ammalato. Era robusto quando fu colpito da una terribile polmonite che in soli 4 giorni lo spedì al sepolcro. Con lui perdetti tutto, la famiglia già estinta, la consolazione della vecchiaia. Sono rimasto solissimo. Ho cercato di sostituire l’eredità degli affetti con le orfanelle. Ho trovato calma e conforto nella rassegnazione in Dio e nel tempo; a loro la fede e il tempo. Penso che in un lontano avvenire mi riunirò alle mie amate creature, nel cielo, dove la morte è sbiadita per sempre e dove sono perpetui i gaudi delle anime riunite in quella eterna carità che riassume e concentra la famiglia, l’umanità e l’universalità di tutti gli esseri angelici in una cosa sola. In questa valle di lacrime piango e prego sulla tomba del mio figliolo.

 

Disordini studenteschi e progressi della modernità

(6 febbraio 1897) Tutti i giornali sono pieni del racconto dei disordini commessi dagli studenti. Le università, i ginnasi, i licei, gli istituti professionali tecnici, tutti sono divenuti convegni e strumenti di ribellione e iniquità. I giovani invece di cibarsi di sapienza e di educarsi alla bontà, sono divenuti l’opposto di ciò che dovrebbero essere o almeno mostrarsi. Sintomo bruttissimo è questo. Il corpo sociale è pieno di cancrena nei suoi organi primi, nelle sue cellule. Crescendo sentirà i dolori e proverà i guai della distruzione. I padri di famiglia (eccetto pochi patrizi e pochi prediletti) si sobbarcano a stenti e sacrifici per fare istruire ed educare i figli. Essi non hanno scelta di educatori e di maestri. La libera Italia obbliga, livellando le cose, manomettendo ogni libertà di mandare i figli solo nelle scuole dello Stato elementari, tecniche, ginnasi, licei, università. L’Italia libera e moralizzata tiene un esercito di maestri e di professori modelli di dottrina, cultura ed educazione. Eccetto pochi dotti e pochi buoni, la massa degli insegnanti pubblici può assomigliarsi ad una legione uscita dall’inferno. Nelle scuole s’insegna e s’impara l’ateismo, il socialismo, il malcostume. Non c’è morale, né etica, né famiglia. Che razza di cittadini si vanno plasmando in Italia? Si semina vento e si raccoglierà tempesta. Ieri l’altro nella minuscola Girgenti, la scolaresca si abbandonò a disordini insoliti, con frasi della solidarietà, della incolumità dall’aula della scienza e con altri simili roboanti vocaboli. Tra gli altri si distinse negli eccessi facinorosi Domenico Sajeva, il figlio di Giovanni, il soccorso da me. Io mi pento di averlo aiutato, sospendo ogni sussidio, è nullo d’ingegno ed ora invece di supplire con gli studi e con la buona condotta, pieno d’orgoglio fa il gradasso e il capo rivoluzionario. Perché gli studenti fanno queste baldorie?, cosa c’è in fondo di veramente grave?, nulla, prendono pretesti per commettere disordini delle più piccole cose. Io credo che ci debba essere l’azione e l’oro straniero per sobillarli, per spingere questo infelice popolo a simili eccessi che minano la società e degradano il governo. Vedremo il seguito. In questi giorni rileggevo il libro di Tobia. Com’è bello e soave! Oh gli insegnamenti, i consigli di Tobia dati al figliolo Tobiolo, come sono edificanti, come scendono al cuore, come tendono a formare l’uomo saggio, istruito, accetto a Dio, utile alla famiglia ed alla nazione. I moderni invece spacciano altre massime, altri principi, del tutto opposti. Ecco i progressi della modernità! Io desidero che si ritorni all’antico.

 

Melanconia

(13 marzo 1897) Il cielo, benché sgombero di nuvole, è bianchiccio, non ride del bel ceruleo di primavera. L’aria è fresca e umida. Verso le 9 l’aria di scirocco ha reso tiepida e bella la giornata sino a sera. Una grande melanconia mi invade. Sento tutto il peso e la desolazione della solitudine. Il mio cuore è nero, abbattuto. Si avvicina l’onomastico del padre mio e del mio diletto figlio. Quale dolore, quale mestizia mi avvolge. Non posso dirlo. Provo un non so che da non potersi significare a parole, una specie di nullismo o di annichilimento interno e morale. Tutto agli occhi miei è vestito e colorato di grigio. Una noia insopportabile mi travaglia. Non ho conforto, non ho a chi raccontare i miei guai interni. Oh il vecchio e solo! Quanto è infelice! Nessuno lo crede, è degno di compassione, ma nessuno lo può capire e può accordargliela per conforto. Stasera la solita fiaccolata o fanari e un aerostato. Ho guardato quasi senza percepire il senso, senza ridestare quella certa reminiscenza di brio, di giovanilità, senza partecipare al magnetismo, al contagio psichico della festa. Sono un vero decadente che sta per toccare l’ultimo limite della parabola della vita e tutto si affievolisce, l’organismo, i sensi, la mente, si inaridisce il cuore.

 

 Sono nato sotto una mala stella, amarissimo è il mio destino

(15 aprile 1897) Mi sveglio, mi alzo dal letto, moralmente abbattuto. Il dover convivere con la signorina Elena che vede in me un nemico ed interpreta male ogni mia risoluzione dell’amministrazione della casa, produce effetti dolorosi. Gli eccessi di grida forsennate ed isteriche di ieri sera mi hanno annichilito. Oggi non ho potuto mangiare. Sono prostrato. Ho detto a me stesso che forse sono io il cattivo, il birbaccione e non me ne accorgo. Suor Orsola mi sfugge, la signorina Elena mi detesta. Ci deve essere una ragione. Il solo dubbio della mia cattiveria senza che io me ne accorgo, è una spina che mi punge, mi dilania il cuore. Non sono degno della convivenza umana e delle gioie domestiche. Sono un mostro, è giusto che pianga la mia tristezza e non tormenti gli altri. La signorina Elena ha dichiarato volersene andare, vada pure. Rimango deserto e sconsolato, ma libero dalle morali sofferenze. Sono nato sotto una mala stella, amarissimo è il mio destino. Non debbo avere pace e compagnia sempre, la discordia, il travaglio dei contrasti, il dolore, la disperazione, l’inferno in casa mia. Sono oramai prostrato!, davvero prostrato. Con la fibra dell’età giovane potevo e sapevo resistere, adesso, vecchio e debole, mi sfrontano, divengo inebetito. Stasera la signorina Elena dice di essere presa dall’emicrania. È andata a letto senza cena. Non l’ho vista. Come entrare nella sua stanza per confortarla, quando ho, se non la certezza, almeno il dubbio, di contrastarla maggiormente con la mia visita? Oh vita amarissima che è e che è stata la mia. Inferno con la mia moglie dal 1850 fino al 1872, inferno con Angelina Indelicato dal 1873 al 1890, inferno con la signorina Elena dal 1891 al 1897, aggiungo 1898 ed oltre. E chissà che diamine ancora di peggio si apparecchia per me.

 

Mio onomastico

(13 giugno 1897) Oggi si festeggia S. Antonio da Padova patrono del paese e mio santo onomastico. Le orfanelle apparecchiano una festicciola. Per me sono cose dispiacevoli, nel senso di vedermi tributate lodi che non merito quasi in pubblico. Non vi è maggiore tormento morale di questo santo, una specie di ribellione interna, uno sconvolgimento, una riluttanza istintiva. Non mi sono mai ricordato del mio onomastico. Non sono stato mai abituato a vedermi recitare auguri, per significare infine come un altro anno si è sfogliato dal listino della mia vita. Queste novità sono venute per me con le bocconiste. Ho dichiarato però alla superiora che questa sarà l’ultima volta e che nell’avvenire debbo essere lasciato in pace. Oggi mi preparo a soffrire un poco nel mio amor proprio.

 

La villa Piana, il peso e l’amarezza della mia solitudine.

(21 giugno 1897) A sera, ridottomi nella mia stanzuccia, alla villa Piana, sento il peso e l’amarezza della mia solitudine. Il silenzio della campagna, l’abbaiare dei cani e lo stormire delle foglie mi fanno un maggior vuoto nell’anima. Parmi di essere in una tomba. L’anno scorso venni in villa Piana il 13 luglio. Quest’anno ho anticipato di poco più che 20 giorni. Per un lungo corso di circa 18 anni mi trasportavo in villa all’entrare dell’aprile. Tra la fragranza dei fiori e il rinverdire degli alberi, il cuore, benché fulminato da gravi sciagure e da dolori morali, si apriva ad una certa soddisfazione di piacere, non voglio chiamarla letizia, ma ora, entrato nella vecchiaia, tutto è mutato in me, non vi è più un baleno di gioia, mancano i profumi della zagara e delle viole, mancano i gorgheggi degli uccelli, non si vedono le loro belle penne dispiegarsi al sole. Tanti graziosi navigatori dell’aria che festeggiavano la natura rinascente, negli anni della mia giovinezza e alle primavere della mia villeggiatura, adesso scarseggiano. Il cielo è sprovvisto di questi giorni dei suoi volatili, la terra dei suoi fiori e della sua frutta. La stessa cresce di cereali e legumi, si stacca dai campi e tutti restano nudi e arsicci e per compiere la tinta grigia del quadro, le nuvole guastano il dolce zaffiro della volta celeste e danno tuoni e minacce di pioggia o tempeste. Anche l’anno scorso il fresco, le nubi, i tuoni accompagnarono il mio arrivo in villa. È un periodo di povertà e di stanchezza per la campagna. Meno male che dura pochi giorni, Fra poco abbonderanno le albicocche, le pere primaticce, le zizzole o pere di S. Giovanni, le pesche, i bifari e poi seguiranno tutte le pompe del cornucopia fino alla vendemmia.

 

I miei vecchi amici sono già usciti da questo misero mondo

(7 agosto 1897) Ho ricevuto la posta con l’anima desolata. Da un pezzo non mi arrivano lettere, né me ne aspetto. I miei vecchi amici sono già usciti da questo misero mondo. Essi mi confortavano. Il loro carteggio era la mia quasi unica consolazione. Io vivevo da solitario in Favara, dove i parenti e gli amici sono nomi e non veri affetti. Prima mi consolavano i lontani. Si è fatto il vero deserto attorno a me. Credevo nel Marino Teodorico di trovare un consultore, mi sono ingannato. Sono rimasto solissimo. Teodorico Marino è un furfantello senza cuore. Quel fascio di stampe e di giornali datimi oggi dalla posta, al solo vederlo mi ha destato la sensazione di vedere e toccare una cosa morta, un cadavere. Oh la solitudine, l’isolamento, l’orribile tortura e per la povera anima mia che sente! La posta nella sua muta comparsa nei tempi trascorsi, alle volte non solamente mi piaceva, ma mi inebriava al solo scorgere i caratteri di amici cari e intimi. La posta era per me un commercio di sentimento, di pensiero, di scienza, ora è divenuta una comparsa di mestizia. Mi fa lo stesso effetto che provo quando sbarco dai piroscafi in qualche posto; resto solo, sconosciuto, non aspetto, non vedo un viso amico, una persona che mi conosce, che mi ami, che venga ad incontrarmi. Resto solo, sempre solo! E vedo centinaia di barchette piene zeppe di signori, signorine, fanciulle, bambini lieti, soddisfatti che gesticolano, salutano, agitano, svolazzano i fazzoletti, ognuno in cerca dei suoi amici e parenti e dico tra me e me: “felici coloro che s’intendono, godono, versano reciprocamente nei loro cuori le oneste allegrezze, gli affetti dolcissimi che costituiscono la vita vera degli uomini. Io non conto più, sono un atomo separato dagli altri atomi e sono quindi assimilato al nulla. Ma mi rassegno e soffro e cerco di superare questa barriera di desolazione, facendo coraggio a me steso e volgendo i pensieri miei a ben altri fini. Dunque, la posta consolatrice è divenuta oggi per me una sorta di oppressione morale. Mi devo abituare a quest’altro tormento e bere intero il calice delle amarezze e dei mali che sogliono accompagnare la vecchiaia. Io solevo provare qualche sollievo nello spirito, spendendo qualche parola, celiando, ascoltando qualche stranezza dalle persone di casa, dei domestici, coi quali convivo. Da quando la signorina Elena fu presa dalla mania di credere suoi nemici tutti quelli che convivono in casa, non si parla più. Questo piccolo refrigerio è venuto pure meno. Speriamo che cessi presto questo stato di cose. Mi resterà quest’ultimo e meschino conforto di spassarmi con le asinerie e con le grossolanità che scappano dalla bocca degli incolti popolani. Solo i miei cagnolini rimangono sempre fermi al loro posto, non cambiano condotta, non rinnegano, sentono affetto per me, me lo mostrano tutti i giorni. Sia benedetto il Signore che ci ha dato questi animalucci per compagni e per fedeli custodi. Davvero i cani si conoscono e si apprezzano meglio quando si misura tutta la gratitudine e la malvagità degli uomini. Moretto non dimentica mai le mie carezze e il bocconcino e l’ossicino che io gli do da mangiare. Gli uomini e le donne ripagano i benefici che ho loro elargito con la più nera perfidia, o, per lo meno con la trascuratezza. Nessuno si ricorda di me. Le stesse orfanelle, che bimbe innocenti e bisognose, per ora mi amano e mi consolano, forse forse quando saranno cresciute e andate fuori dall’orfanotrofio non solo si scorderanno di me, ma mi daranno qualche manta di dispiacere in contraccambio dell’amore e della carità che ho usato loro.

 

Aprile mese di speranze

(27 marzo 1899) Tutto è verde. La terra ripiglia la pompa del suo lusso, ripiglia la sua periodica giovinezza. La distesa dei campi coltivati a cereali o legumi e i prati naturali o artificiali presentano una veste con dolcissime gradazioni di verde, dal cupo allo smeraldo, dal gialliccio pallido al verdino tenero. I mandorli sono nello sfarzo, nell’orgoglio della vegetazione e del colore. I fichi già cominciano a nascondere i loro neri rami tra le verdeggianti foglioline. Tutto ride. La natura si ridesta, si apre all’amore, agli incanti, ai tripudi. I fiori sono già preparati e stanno per venir fuori variopinti, con tutta la tavolozza delle tinte somiglianti più che Tiziano e Rubens. L’infanzia della vegetazione si accosta assai da vicino alla giovinezza. Che vista stupenda! Chi guarda la terra in questi giorni non può fare a meno di innalzare un inno al creatore, inno di lode e di gratitudine. La presenza e la grandezza di Dio si rivela in tutto e sempre. Un pensatore vede Dio dappertutto, ma le masse popolari ed anche gli umani colti in questa stagione, colpiti dallo spettacolo vivo e rigurgitante di bellezza che offre la terra, sentono maggiormente la mano del signore e s’inebriano e si sollevano quasi ai cieli. Io solo sono triste e rimango come ebete in tanta magnificenza, in tanta gala, in tanta esuberanza di vitalità, perché la vitalità si estingue e l’infanzia, la giovinezza e la virilità spariti non possono più tornare.

 

Si affaccia il sole e mi trova desolato, non mi scaldo, non mi illumino

(7 aprile 1899) Ho scritto lettere alle possibili governanti in uno stato d’animo che non so qualificare e descrivere. Non ho quasi coscienza di ciò che faccio, vedo innanzi a me un deserto sconfinato. Non ho scopi, non ho più ideali. Che cosa devo fare più in questo mondo?, quale via percorrere?, quale meta raggiungere?, il nulla. Mi sento vuoto, spossato, insufficiente ad ogni cosa. Dalla vita attiva, dall’energia umana, ossia ragionevole, sono passato quasi senza avvedermene, nella vita vegetativa, nella vita passiva. Vivo perché devo vivere. Si affaccia il sole e mi trova desolato. Non mi scaldo, non mi illumino. Non mi punge, ne mi stimola ad opere nobili o fruttuose. Batte il meriggio, scende la sera, poi la notte con le sue ombre e mi fa lo stesso effetto del sole. Tutto passa, anzi vola davanti a me, senza impressionarmi, senza lasciare traccia alcuna. Sono una pallina di sughero che viene spinta di qua e di la dal venticello, che percorre lo spazio e tocca i corpi, senza lasciare segno di se e senza riceverne. Quanta sfiducia mi invade l’anima! Non ho famiglia, morendo tutto muore con me. Non ho più speranza di compiere i lavori scientifici da tanti anni vagheggiati da me. L’ampelografia italica, l’idolo dei miei desideri è rimasta men che ombra. Serve solo di amarissimo e desolante ricordo. La collezione ampelografica, la figlia diletta della mia vita non è più, la fillossera l’ha distrutta. Il mio Peppino non può più confortare la mia tarda e malata vecchiezza. Che mi resta dunque? solo Dio; ma se Dio conforta lo spirito nella parte delle umane attività, mi sento distrutto e quindi inutilizzato. Servire la patria non mi è dato, mancano le forze, i tempi d’altronde corrono tristissimi e corrotti. Non conto più. I miei vecchi colleghi ed amici sono quasi tutti spariti. I nuovi venuti nella pubblica amministrazione guardano quasi con disdegno e disprezzo i vecchi, come fossero disadatti o nocevoli ad attuare le cose del mondo nuovo, del mondo dei giovani. L’antitesi torna: il giovane in opposizione col vecchio, il vecchio col giovane. Nella coscienza basta Dio e se non fosse per questo non potrei vivere, ma nell’attività umana, quando vedo mancarmi l’affetto della famiglia, della patria, della scienza, dico che mi manca tutto. Questa mancanza di tutto è una desolazione, produce una noia generatrice di martirio indefinibile. Ripeto sempre in questi belli e splendidi giorni di primavera tutto ride intorno a me. Dentro di me impera il dolore e il pianto. L’uomo veramente fu creato ad immagine del suo creatore, quindi ha l’istinto e la facoltà di creare, non ha la creazione vera che dal nulla trae ogni cosa. L’uomo crea servendosi della materia fatta da Dio, la sua creazione consiste nel trasformarla in modo da renderla sempre diversa e conferendo ad essa gradi di bellezza e proprietà sempre variate e nuove. Oltre alla creazione nell’ordine materiale l’uomo imita il suo creatore nella creazione o attività o energia intellettiva, effettiva e morale. Quindi le passioni nobili, la carità, il bene, etc. Anche questo, al punto dove sono è vietato a me. Non ho più nulla da creare materialmente, nulla moralmente. Tutto mi pare vanità. Venendo meno l’attività manca l’attuazione creativa che è una necessità nell’uomo, derivata dal suo modo di esistere e dal creatore. Tutto va a male. L’infelicità diviene il retaggio di quegli infelici che sono privi o non possono esercitare il loro istinto, la loro missione. Ammiro stupido il cielo, la terra, i luoghi che mi videro nascere e mi nutrono e rimango impassibile, inebetito. Che cosa sono dunque? Mi accosto alla follia?, sarà una malattia la mia?. Non so comprendere me stesso. Non apprezzo altro in me che il dolore. Non vedo altro che il gran nulla. Non ho altro avvenire che la vicina discesa nella fossa dei morti. Il pensiero poi, della vita a venire è tremendo. Chi lo sa come andrà a finirmi?. Dio avrà misericordia di me?, problemi tremendi che mi accasciano maggiormente sono questi. Mi spavento, rifuggo indietro. Stimo meglio starmene stupidito, quasi incosciente, come un arbusto o come una chiocciola anziché sprofondarmi in questi misteri supernaturali. La cura del dr. Ferrara ha mitigato la mia malinconia, ma non ha svelto le radici, le quali, anzi, di tanto in tanto gettano nuovi polloni e nuove spine. Chi mi compiange?, chi pensa che esisto?, a che cosa sono ormai buono? Tutto è finito per me. La mia parabola è arrivata al suo termine.

 

Melanconia e paura

(29 maggio 1899) Stanotte ho dormito poco e male. Sono affranto dai continui dispiaceri. Alle 2 svegliatomi mi pascevo solo del mio dolore, sentivo un peso enorme, un cordoglio grande come un fenomeno fisico morboso. Tutto si presenta nero all’occhio mio ed alla fantasia. Corro verso mali maggiori! Che mi accadrà? Oggi la melanconia si è resa acutissima. Sono oppresso, concentrato, taciturno, con un incubo dolorosissimo inesplicabile nel cuore. Nonostante la cura ricostituente del dr. Ferrara invece di acquistare perdo maggiormente l’appetito e il sonno. Fuggo il consorzio umano. Sono andato in biblioteca e sui lavori della casa Itria e me ne sono tornato mesto e sconsolato. Non ho potuto toccare il pianoforte pur facendo forza a me stesso. Mi sono rinchiuso nella mia camera a leggere le conferenze del dr. Carmine Perrotta ai maestri delle scuole elementari del circondario di Noto sull’agricoltura di quella regione. Leggo e quasi non comprendo quei temi in passato a me cari, oggi mi sembrano noiosi e scipidi. Posso ripetere tristis est anima mia usqui ad mortum e davvero la morte è vicina ed io l’aspetto con calma e quasi con piacere. Suonano le campane per la prossima festa del Corpus Domini ed io mi rattristo, mentre giovanotto mi allietavo a quello scampanio festevole e lieto. Quest’anno mi proponevo di cooperare al buon successo di questa santa e solennissima festività e tentare rimettere in uso la processione dei civili e delle persone rispettabili per dare esempio al popolo che i grandi di un paesuccio in faccia a Dio sono un nulla e uguali al più umile operaio. Ma sono talmente nulla e disfatto, talmente accasciato e privo di volontà e di operosa energia che mi rimango stupido ed inerte, passivo, annichilito.

 

La melanconia si è impossessata di me

(20 maggio 1899) La melanconia o mestizia si è da un pezzo impossessata di me dopo un periodo di calma ottenuta con la cura del dr. Ferrara. Ora cresce tutti i giorni e si modifica o meglio si peggiora in modi che io sento, ma che non posso ne so descrivere. La melanconia ridotta a tristezza o mestizia assume su di me un impero assoluto, desolato, schiacciante, lasciandomi sempre più vuoto impietrito, lasciandomi quasi sbigottito, cioè come mi trovavo qualche volta, dopo un improvviso subitaneo e forte spavento, dopo qualche minuto di essere stato colpito da una grande sciagura, tristissimo di dispiacere. Sono un desolato, sbigottito, senza volontà vera, trascinato dagli eventi impotenti a reagire, a farmi coraggio, a ripigliare l’autonomia personale. Non ho avvenire, non speranze, non ideali, sono una piumicella in preda al vento. Perché esisto da ora in poi? Chi pensa a me? qual’è la mia missione? Chi mi conforta? Chi mi rivolge una parola? A tutte queste domande che faccio a me stesso risponde una eco terribile di silenzio, per modo di dire, poiché il silenzio non può avere eco. A queste domande il mio cuore si fa più nero, si rimpicciolisce, si richiude e desidera la morte come l’unico bene possibile. Oh il bel mese di maggio, il mese dei fiori e delle rose, il mese dell’amore di tutto il creato, il mese della giovinezza e delle feste vere del sole, del mare, della terra e di tutte le creature che vi abitano, il mese di maggio del 1899 è per me terribile e disperato. Non vedo il sole. L’olezzo della zagara mi dispiace. Che stato infelice è il mio!

 

Quando vedo certi fenomeni mi acquieto solo pensando a Dio

(13 novembre 1899) Ho visto per la prima volta gli uccelli cosiddetti di passaggio. Li ho visti sull’alba, mentre ero sul piroscafo Galileo Galilei, a vista di Palermo. Quando rifletti su questi fenomeni perdi quasi la ragione. Mi acquieto solo pensando a Dio che li ha creati e li sorregge. Solo la dottrina che fa capo a Dio è la sana, la vera, quella che spiega tutto e da la pace all’anima umana, togliendo i dubbi e le aberrazioni connesse alla sua debolezza. Togliete Dio, servitevi (per citare un nome) di Darwin e di tutti i filosofi o naturalisti immersi nel materialismo o nell’ateismo per spiegare molti fenomeni e vedete le contraddizioni che vengono fuori nel descrivere la cosmogonia senza il Creatore. Quando rifletto a questi piccoli casi come questo che ho visto, degli uccellini (deboli ed irragionevoli) che agiscono da fortissimi e sapientissimi, o meglio ragionevolissimi, la mia mente non può fare a meno di ammirare la divina provvidenza, la quale sa creare e mantenere la sua creazione in ordine perfetto. I materialisti di oggi mettono in ridicolo e sfatano l’antica dottrina degli istinti, ma ridano pure quanto vogliono. Gli istinti esistono, cioè le voci di Dio, né la mente umana può spiegarli se non ammettendo l’intervento di Dio. Come è possibile con le teorie di Darwin rendersi ragione della sorprendente architettura che fanno le api nei loro favi e della direzione sicura che danno gli uccelli nel loro lungo cammino da una parte di mondo all’altra.

 

Ogni anno la prima notte che dormo in Favara, tornando dalla piana, mi sembra sempre un po’ strana

(18 novembre 1899) La prima notte che dormo in Favara mi sembra sempre un po’ strana. L’alba non è annunciata dal cinguettio degli uccelli estivi o dalle calandre o dal correre e abbaiare dei cani, dentro un silenzio profondo, ma dal confuso rumore degli operai che si destano e si apparecchiano al lavoro o frequentano la piazza e i caffè. Parmi cosa nuova il ridestarsi della vita cittadina prima del sole che può assomigliarsi al ronzio delle api dentro ai loro alveari.

 

Mio compleanno

(17 Dicembre 1900) Oggi è il mio compleanno. Oggi compio 72 anni di pellegrinaggio in questa valle di lacrime. Io non ero solito tenere ricordo di questo giorno. Le orfanelle con le festicciole di affetto ed amore che mi volevano fare, hanno, per così dire, richiamato la mia attenzione e la mia memoria su questo giorno che passava sempre inavvertito. Io ho rigettato e impedito queste feste e queste onoranze, parendomi inutili e inopportuni. Infatti che cosa si trae di piacere in queste ricorrenze?, nulla di nulla. Solo si contano i passi fatti dal dì della nascita fino ad oggi e si rileva a colpo d’occhio una verità poco gradita, cioè che 14 lustri e mezzo sono passati, che quindi il sepolcro verso cui incessantemente corriamo è oramai troppo vicino. Quest’anno il mio compleanno è stato solo pensato da me involontariamente e registrato nel diario. I domestici, gli amici, i parenti, le orfanelle, tutti si sono dimenticati di questa ricorrenza, la quale è trascorsa tacita e inosservata, cosa che mi è piaciuta, poiché rifuggo dagli usi moderni di commemorare cose e date di nascita e morte, compleanni, onomastici, nozze d’oro e d’argento, cinquanta anni e cento anni. Un vero abuso, un vero allargamento di commemorazioni e di onoranze prodigate senza ragione e spettanti solamente ai grandi uomini illustri e benefattori della religione, della scienza, dell’umanità e della patria. Lo scialacquo degli onori menoma e quasi perde il pregio degli onori stessi, i quali debbono trarre importanza e culto dalla rarità, cioè dal dover essere tributati ai veri meritevoli, che sono pochi e non molti. Che cosa importa la mia misera persona?

 

Tolgo, trepidando, l’ultimo foglio del calendario e tutto muore e sparisce

(31 dicembre 1899) Ho tolto, trepidando, l’ultimo foglio del calendario domenicano da sfogliare, che è appeso nel mio scrittoio. Dico l’ultimo dei fogli a levarsi perché l’ultimo foglio che porta scritto il 31 dicembre sta appiccicato in fondo al cartone e non si leva. Domani muore tutto e sparisce. Mi è parso come se togliendo quel foglio avessi affrettato o comprato la morte di un anno, anzi di un secolo, poiché questo anno che entra domani rappresenta il principio della fine del secolo decimo ottavo. Fatticelli da nulla che si succedono fatalmente impressionano assai l’anima mia. Il levare un foglio, come ho fatto tutte le mattine è un atto semplice. Oggi piglia un aspetto importante dentro di me. Mi richiamo molti pensieri e molta mestizia. Scendo da un cavallo che mi ha prestato il tempo dopo averlo cavalcato per 71 anni. Questo cavallo non torna più, mi porterà domani il suo successore: il cavallo 1900, sulla cui sella, non gli anni, ma i giorni sono contati. Il 1900 fra poco mi balzerà di sella, mi butterà a terra, a disperdere le mie povere ossa in sepoltura. Che animale focoso, furibondo, inarrestabile, corre e non si ferma mai, tiene in groppa milioni di cavalieri di ogni età, sesso e colore. Tutti i momenti ne rovescia giù milioni e tutti i momenti si rifornisce di altri milioni e non si stanca, corre, corre, finché verrà la sua volta di precipitare in un abisso da dove più non si ritornerà, l’abisso dell’eternità. Che fatalità! e non ce ne accorgiamo. Muore il 1899 per dar vita al 1900 e senza la morte dell’uno non ci sarebbe la vita dell’altro. Una tomba ed una culla. Nell’una si addormenta di sano eterno un vegliardo canuto, nell’altra apre i sensi a vita novella un fanciullo vispo e ridente, ma che mescola il riso col pianto e si reputa signore del mondo ed è superbo di brandirne lo scettro e di vedersi piovere milioni di auguri da parte di milioni di uomini che sperano nell’avvenire spiacentissimi del passato. Ed è morto a mezzanotte in punto il 1899, senza compianti, anzi, forse sprezzato e vilipeso da tutti. Le cose vecchie, le cose finite, le cose che non possono più servire a nulla, in generale sono dimenicate alla meno peggio e tartassate maledettamente. Il 1899 muore come tutti gli infiniti suoi predecessori. Fiori sulla culla; auguri al buon capo d’anno, poesie, speranze, illusioni, promesse di ogni bene di Dio, col cominciare e nell’ultima ora, nell’agonia si ripetono frasi di dileggio, di detestazione, di malcontento, di rimproveri per i mali, per le sciagure pubbliche e private, per le guerre per i disastri commerciali che gli si attribuiscono. È sempre così, così è stato e sarà nell’avvenire. Domani entra il 1900. Quante canzoni si canteranno in sua lode, quanti omaggi gli si faranno a Gennaio, altrettanti e maggiori insulti abomini e imprecazioni gli si daranno nel dicembre. La testa e la coda dell’anno somigliano alla testa e alla coda dello scorpione che quando si vede attorniato di fuoco, quando vede prossimo il fine della sua vita, rivolge il proprio veleno contro se stesso e morde con le proprie ganasce la propria coda. Si ripete l’eterno giro delle cose, sempre, quasi d’un modo stesso. La novità è apparente. Tutto è vecchiezza, il nuovo rampollo del vecchio ed il vecchio è figliato dal nuovo.

 

Maggio mese di delizie

(1 maggio 1901) Solevo prima salutare il maggio quando cominciava. Il sorriso generale della natura, l’amore ridestato in tutte le creature. La pompa dei colori e l’orgoglio della vita in tutte le forme e gli organismi mi costringevano quasi a mandar fuori dall’anima mia un inno di lodi. Ora tutto è finito. La vecchiaia mi soffoca. Invece della vita vedo la morte. Tutto si rinnova, si ridesta. Solo io e gli altri miei pari in età, lungi di riscaldarci al nuovo acceso fuoco della natura, appassiamo maggiormente e corriamo veloci per il sepolcro. Il maggio, la giovinezza, la forza, la potenza della natura tutta, per noi vecchi segna la decadenza. Ogni giorno più che l’altro scemano le forze, si attutiscono i sensi, mangio e dormo poco e male, sono sordo, la vista si affievolisce, mancano i denti, non posso masticare e parlo male. La solitudine, l’isolamento assoluto mi opprimono maggiormente. Non sono sordo del tutto, ciò che mi rende noioso agli altri e oggioso a me stesso. Prego Dio che mi chiami al più presto a miglior vita.

 

Quando mi assale la malinconia pensieri tetri mi invadono

(11 maggio 1901) La malinconia torna ad assalirmi come prima; viene ad ondate, mi soggioga, mi rimpicciolisce, mi annulla. Negli eccessi di tristezza mi assalgono mille pensieri su svariate cose, ma tutti tetri e pieni di dolore e di paure. Mia sorella ieri sera è stata colpita da dolori ai lombi e alle gambe. Anch’essa risente il grave peso della vecchiaia. Mio fratello da pochi giorni è a letto, debole, inappetente e si smagrisce tutti i giorni. La sua salute è minacciata da continui incomodi. Egli invecchia anzitempo e benché conti nove anni meno di me, sembra averne dieci di più. Siamo tutti già avanzati negli anni e quindi ammalati o facili ad ammalarci. Chi scomparirà da questa terra, chi scomparirà prima di noi? Per legge di natura io che sono primo nato avanti a loro, devo pagare il primo tributo alla morte. Desidero che così sia. Avrò meno cordoglio e minori pene. Nell’altro mondo, in seno all’eternità penserò certo diversamente di come penso in questa misera terra d’esilio. Se morisse mia sorella ne rimarrei afflitto, chissà quali scene, quali vicende, quali mutamenti vedrei in famiglia, rimarrei nella solitudine più completa. Il mio cuore non avrebbe più palpiti. L’amore e l’affetto in me sarebbero cose morte per sempre. Se morisse mio fratello avrei anche altri mali da vedere e rimpiangere. Per la fatale dipartita dell’uno o dell’altra non vedo che cose nere, anzi nerissime. Resterei misera vittima del mio stesso dolore e poco sopravviverei a loro. Mi parrebbe che i loro spettri mi ballassero notte e giorno mostrandomi il nulla delle cose di quaggiù, il dolore immenso che tormenta tutti gli uomini ed aperta la vicina porta della morte per me.

 

Rimembranze adolescenziali

(1 ottobre 1901) Stanotte è venuto ottobre. Raccolto nella solitudine e sopraffatto dalla melanconia, compagna inseparabile della mia vita ed ora accresciuta per la vecchiaia. Rannicchiato e chiuso nella mia stanza per la malattia che mi affligge, ho guardato il cielo azzurro di cobalto, con certe nuvole biancheggianti e belle mosse da un’aura fresca, non so perché sono stato assalito dalle rimembranze e dai ricordi della mia adolescenza. Ho ripensato alla villeggiatura che convittore del real collegio o convitto a Palermo, facevo ai Colli, nella cosiddetta Casina Grande in mezzo a quella magnifica campagna rigogliosa di ogni ben di Dio che si chiama Conca d’Oro, con a lato Palermo. Oggi ci insediavamo in quel sito ameno. Com’era bello, più che mezzo secolo indietro, cioè 12 lustri or sono, questo giorno 1 ottobre per me , com’è mutato adesso, allora vita, brio, spensieratezza, un certo vago amore dell’avvenire che mi pareva cosparso di fiori e di rose, allora tutto attorniato da altri giovanotti più allegri e più spensierati di me; mi abbandonavo alle più care illusioni senza saperle valutare. Penso alla caccia agli uccelli coi vischi, con la civetta, con le reti, alle lunghe passeggiate in quei boschi di ulivi alti e allineati, su per i monti Cuccio, Gallo e Pellegrino. Penso alla ridente spiaggia di Mondello. Penso alle belle conchiglie che andavo raccogliendo lungo le rive di quelle spiagge marine incantate. Penso ai piccoli musei che tentavo di metter su, là chiamandomi una mia speciale vocazione, e come godevo poi a considerarle. Penso a quegli uccelletti verdoni che addestravo a vivere in libertà, poiché messi alla verdoniere come un balcone e dopo aver mangiato e bevuto nei due vasetti, come graste impiantati ai lati della piccola favata dal finto balcone che teneva per vetrata uno specchietto da dove, dopo essersi la bestiolina mirata e compiaciuta e pavoneggiata, ne scappava all’aperta campagna per ritornare con alterna voce. Penso ai miei cari compagni, la maggior parte morti. Penso a tanti altri piccoli particolari di quel tempo beato che più non torna, ne può tornare, di quel tempo di cui si apprezza il pregio quando è perduto. Preso a quell’età di sollazzi e di svaghi innocenti e mi pare per un momento di tornare indietro, ma subito casca l’illusione e fa contrasto amaro con la presente miseria e con la crescente e desolata vecchiaia. Da quando scrivo questi diari non mi è venuta mai una così forte e lunga reminiscenza d’un tempo che relativamente al restante della mia vita si potrebbe dire felice. Allora mangiavo con appetito, con grande soddisfazione, allora mi pareva di essere grande, ora, al contrario, mi pare di essere troppo piccolo o rimpicciolito. Che cosa è dunque la vita? Una larva, un mistero, un dolore!; e quei miei maestri, quel padre Tuppalli, quel padre Romano e quel padre Nalbone ed altri sommi che mi tenevano compagnia nelle passeggiate campestri, istruendomi sempre, narrando cose storiche e mitologiche!, non sono più anch’essi.

 

Rimembranze del 12 gennaio

(12 gennaio 1902) Ciascun anno, in questo giorno mi ricordo in memorando scoppio della rivoluzione siciliana avvenuta in Palermo il 12 gennaio 1848. Ne ho fatto parola nei primi diari. A quest’ora (sono le ore 7,30) si apriva la scena. Io palpitavo senza sapere perché d’un certo palpito quasi incosciente, forte, tra paura del tiranno e speranza di libertà. Era una frenesia generale. Lo stato commosso, eccitato di tutti i cittadini e più degli studenti universitari, fra i quali io mi trovavo per magnetico influsso, comunicandosi reciprocamente si accresceva e arrivava al delirio che mi avrebbe profetizzato che 52 anni dopo dovevo scrivere questa rimembranza, dopo aver visto formarsi l’Italia una ed oggi prosperare possente, nelle scienze con Marconi e molti altri, nelle industrie, con le flotte armate, con l’avanzo di 41 milioni nel bilancio, con tanti altri segni ed elementi di ricchezza e di progresso civili. In quel 12 gennaio 1848 se fosse venuto un angelo a dirmi tutto ciò che ho visto e vedo attualmente, non l’avrei creduto. Sia benedetta la stella d’Italia e s’innalzi sempre di più a civilizzare e mandare luce benefica al mondo. Io in questi ultimi anni sono stato dubbioso ed ho guardato in nero il nostro avvenire. Ora però sono mutate in faccia a fatti evidenti e grandiosi, i fatti che derivano dal cielo e non dai reggitori del felice regno d’Italia, dei fastigi che stanno in contraddizione, con la sconvenienza delle nostre politiche costituzionali, dette monarchiche rappresentative e che in sostanza non rappresentano nulla, perché la menzogna, come tante volte ho scritto. Vi ha una forza maggiore che protegge la stella d’Italia una forza divina che trionferà di tutto e di tutti.

 

Scene di contrasto mentre il popolo festeggia San Giuseppe

(18 marzo 1902) Nel pomeriggio fino a sera le bande musicali hanno suonato alternatamente sui palchi in piazza bei pezzi di musica. Le tre bande forestiere quest’anno sono tutte ben accordate, la nostra è meno rumorosa. Alle 5 p. m. sono partiti per aria 3 palloni di Milano. Bellissimo il primo, rappresentante un panciutissimo ambrosiano con giacca verde, cappello a sofflè nero, parapioggia rosso e nero sotto l’ascella e calzoni corti, con calze carne e scarpe eleganti. Poi è salito su una testa con un baschetto inglese ed infine un altro capo con berretto militare violetto. Oggi è venuto mastro Salvatore Amico, il governatore, a raccogliere la solita oblazione e gli ho dato 5 lire, facendo i miei rallegramenti per la festa. Stasera alle 6, ancora a luce di giorno, erano accesi i lumi dei palchi della banda e facevano un bellissimo effetto di luci colorate come tante pietruzze di mosaico rosso rubino, color verde e verde smeraldo, veramente belli. Illuminazione cosiddetta alla veneziana, di cui già l’Andreoli offrì diversi saggi nell’illuminazione per la festa dell’Assunta nel 1900 e 1901. Le bande suonavano sui palchi, il popolo invadeva la piazza col delirio del magnetismo collettivo e psicologico, quando passatovi un piccolo feretro nero gallonato bianco. Era certo un bimbo o una bimba spento anzitempo, quasi nel nascere e un fiume di popolo doloroso lo seguiva in fretta. Trapassando tra il mare dell’allegria si vedeva la gioia e il pianto. Che contrasti! La vera commedia della vita. Accanto al tripudio ci sta la morte. Si toccano e non si offendono le due folle, vengono a contatto e non risentono nulla di ciò che dovrebbero risentire. Sono come due correnti divise, intangibili tra loro, incoscienti. Oggi quelli che piangono rideranno domani e domani, forse quelli che oggi ridono piangeranno. Così passa e si svolge la vita della commedia umana. Alle 7,30 il cielo è nero e comincia a piovere. La piazza si spopola. Si rompe il bello dell’allegrezza popolare. Incomincia lo sparo dei fuochi artificiali. I fuochi sono stati belli. Le solite bombe a pioggia, ora argentea, ora dorata, ora a globetti, ora a serpentelli ed altre forme. Le solite ruote a girandole, i soliti fiori e tulipani a colori cangianti, rossi, blu, verdi, gialli. Mi è piaciuto un gallo contornato o ricamato di fuoco, pure cangiante di colori. La più bella vista è stata quando si aprirono le ali dorate e la cresta e i bargigli di fuoco rubino imitante il rosso dei galli vivi. Durante lo sparo dei fuochi sono stati lanciati in aria 3 piccoli palloni, due costituzionali, cioè a fasce verdi, bianche e rosse; l’altro a scacchi. Nel primo le fasce erano intere, nel secondo spezzate nel mezzo, in modo che ogni colore posava sulla fascia bianca. Uno investì il mio balcone centrale del piano superiore e rimbalzato dal vento che soffiava sui tetti è ricaduto in piazza squarciato. Il popolo ne fece prontissima man bassa. Intanto durante lo sparo dei fuochi il cielo si è quietato un poco. Le bande suonano. Il popolo rioccupa la piazza tutta. È un vocio generale; si odono musiche, fischi, scrosci di riso e pare di assistere ad un mare tempestoso di onde magnetiche e galleggianti. La musica continua fino a notte.

 

Oh come tutto è mutato in peggio!

(4 luglio 1902) ..... Come son mutate le cose tutte! Fino all’anno scorso, la sera, o in circa, all’ave mi sedevo presso il casino, negli antichi sofà di pietra e tutta la gente che mangia il mio pane e che abita in villa Piana mi circondava e tutti davano la stura, discorsi ingenui o, se si vuole, asinerie, e i loro discorsi lenivano i miei guai morali e mi trasportavano come in una parentesi di riposo e quasi di ristoro. O splendeva la luna o regnava il buio, quella conversazione bonaria di bonarie genti era un conforto. In certi momenti io mi astraevo da loro per contemplare gli astri, la via lattea, le costellazioni zodiacali, ma poi tosto le liete e stridenti risate e il trillare di grilli o l’abbaiare repentino di cani mi tuonavano dentro la prosa terrestre della mia villa e dei miei villani. Non parlo più di tempi troppo lontani, nei quali giovani e giovinette, suonatori e cantanti, danzatori e danzatrici facevano festa e gazzarra intorno a me. Oh! quei tempi sono da troppo tempo andati via! non giova rievocarli. Sento maggiore dolore. I tempi dolci della famiglia! Ma ora la scena è cambiata. I miei villani, le loro donne sono attempate e in parte invecchiate come me. Non intervengono più a frotta nelle sere estive davanti al casino. Una noia mortale li prende. I giovani fanno il servizio militare. Le ragazze sono passate a marito. Restiamo un pugno di persone stanche, che amiamo più il silenzio e l’isolamento che il benevolo cinguettio e la compagnia reciproca. Ieri sera stetti un po’ seduto. Tutto taceva. Mi pareva di essere una mummia tra altre mummie inaridite dai secoli. Mi accolse un’onda più cupa di tristezza. Abbassai il capo, salutai tutti e col mio bastone mi ritirai nelle solinghe pareti del casino, senza più udire manco il ronzio delle mosche. Prima i cani davano segni di vita. Il delegato me li ha avvelenati. Moretto il fido amico delle stanze è pur esso tacito, oh com’è tutto mutato. La vita è finita, resta solo il preludio della morte. Io vegeto, vedo i campi, le montagne, le nuvole, il cielo come lo vedono le piante e gli alberi, taciti e soli, senza comunicazione e scambio di idee e di affetti reciproci. Oh come tutto è mutato in peggio!

 

Sensazioni strane mi assalgono

(26 luglio 1902) Da molto tempo ho inteso e mi è lecito adoperare questa parola, una sensazione strana, che fa molto peso a me stesso e non so bene spiegarla, anzi dubito se sia vera e materiale o fantastica ed incorporea. Questa sensazione dapprima era lievissima e rara, la provavo qualche volta in un mese. Man mano si è fatta più forte e più frequente. Ma che sensazione è? È una sensazione che non posso definire e neppure descrivere bene. Quando suonavo il pianoforte cominciò così, qualche volta nei piccoli intervalli di riposo o mentre voltavo la carta di musica mi pareva d’intravedere un certo non so che, come di un’ombra, come il passaggio di qualche cosa dietro di me, ma voltandomi non scorgevo nulla, restavo sempre solissimo. Poi ciò si ripeteva quando scrivevo, quando studiavo e quando ero assorto in qualche meditazione. Scossomi, guardavo, mi sforzavo di seguire quel lampo d’ombra e non vedevo mai nulla. Da circa un mese, da quando sono in villa, questa sensazione si è fatta più forte e spesso mi assale. È un gioco del cervello? Può essere lo spirito del mio Moretto (il cane morto poco tempo addietro) che vedendosi desiderato mi lampeggia attorno? Questa settimana l’ombra è stata più fitta, mi è parso quasi di vederlo, sebbene indistinto, senza forma. Saranno spiriti buoni o cattivi? Io non credo a simili fandonie, contrarie alla umana ragione, ma le ombre mi perseguitano, mi tentano, attraggono la mia attenzione. Si dice che Socrate, Tasso e molti uomini illustri avessero avuto i loro benevoli spiriti familiari, per conforto della solitudine e compenso della ingratitudine e dell’ingiustizia degli uomini. Ma io sono mille miglia discosto da Socrate e Tasso e dai loro simili, per merito e per tempo, non posso illudermi e sperare sollievo da qualche essere soprannaturale. Ma che cosa sarà dunque? Io non lo so. Ma vedremo ciò che succederà, se si tratta di spiriti dovranno parlare o comunicare con me in altra qualsiasi maniera. Se si tratta di morbosità della mia mente, sparir deve col tempo.

 

Ricordi ridondanti di allegria del passato che non torneranno più

(24 febbraio 1903) Ieri a pranzo solo con mia sorella, si rievocava involontariamente alla memoria gli antichi ricordi, le passate gioie della fratellanza. In questo giorno, 70 anni fa circa, io, all’età di 5 o 6 anni pranzavo con mia sorella ed altri bambini in casa di mio nonno materno Biagio Licata seniore, con tavola separata. Questo mio nonno era uomo di mente e di cuore, d’ingegno ed istruito, uomo operoso, intraprendente, che alzò la fortuna della sua famiglia. Raccoglieva i figli dei figli, i nipoti, gli amici in casa propria nelle grandi solennità dell’anno e imbandiva pranzi di lusso per l’affetto e dell’unione di parenti. Si trattava di trenta o quaranta invitati, oltre a noi bambini. Quei pranzi, quei raduni di parenti intimi e di amici erano vere feste, piene di letizia e amore, di espansione ingenua, cordiale. Quelli erano tempi d’oro per il casato. Ferveva una vita gioconda, patriarcale e condita delle più dolci compiacenze ed emozioni. I costumi di oggi sono ben diversi. Siamo nella completa decadenza degli affetti di famiglia e di amicizia. Ora le case sono tombe. Regna finzione, isolamento e mestizia. Quelle scene ridondanti di allegria, quel vocio confuso, quelle risate severe, quei motti, la soluzione degli indovinelli, l’atmosfera carica di magnetismo animale che uscendo dagli individui refluiva nella massa, si ripresentavano vivissime alla mia mente e facevano un amaro contrasto con la solitudine, col silenzio, col deserto di oggi. Tutti morti! Tutti, tutti coloro che erano festeggianti e festeggiatori! Restiamo vivi io e mia sorella. Se a me bambino avessero detto ciò che oggi, dopo 70 anni dovevo provare, mi sarei messo a ridere e non avrei capito l’importanza e l’amarezza della profezia. Purtroppo oggi tocco con mani la vanità grandissima delle cose umane, la miseria che travaglia tutti e figli di Adamo.

 

Visita alle terre di Zingarello e impressioni sul viaggio

(21 agosto 1903) Stanotte, con l’animo sollecito, come quando si deve fare un viaggio, ho dormito poco. Alle 4 mi sono svegliato. Mentre mi vesto e poi prendo il caffè, sento il cocchiere che prepara e attacca i cavalli con pennacchi e sonagli. Sento il bisbiglio delle persone che devono accompagnarmi. Vincenzo Amico, Salvatore Aleo Nero, Carmine Airò e Antonio Vetro di Giuseppe Marianello, che attacca il suo mulo al carrozzo o barroccio prestatomi da Lentini Ficarella Salvatore. Doveva venirci Baldassare Airò, ma si trova ai bagni termali di Sciacca. Mettiamo le cose da mangiare con piatti, tegami, bicchieri e bottiglie, posate, salviette e partiamo con l’aria fresca del mattino alle ore 4,20. Non avendo potuto avere una carrozza locata ho dovuto servirmi dei miei poveri cavalli per strade lunghe e disagiate. S’intende che parlo della gita da tanto tempo prestabilita nel fondo Mandra di Scava, nella tenuta detta Zingarello, nella mia quota toccatami con la divisione fatta con gli eredi di mio fratello, mia cognata. Appena usciti dal paese dalla casina Piana, passando per il pubblico macello e per Canali, ho visto lungo la strada che conduce a S. Anna ed alla zolfara Lucia, Ciavolotta, etc. una vera lava di gente. Pareva la processione delle formiche quando sgombrano da un formicaio all’altro e veramente in faccia alla grandezza della natura l’uomo è men che formica. Quelle teste o macchiette nere appena visibili in crepuscolo davano l’aspetto di una serpe brulicante di vita e di movimento in tutte le sue parti. Man mano che avanzava la lava si andava spartendo, invadendo le vie secondarie, le scorciatoie per le diverse miniere. Io non credevo che tanta gente lavorasse alle miniere di zolfo. Uno sciopero di tutte queste formiche deve essere imponente e deve destare paura, a misura che l’aria schiariva e il sole diffondeva la luce, si vedevano tutti quei visi di adulti e ragazzi, con qualche cosa di orrido nel colore, nello sguardo, nell’atteggiamento. A me pareva di scorgere il marchio che imprime all’uomo la corruzione, la degradazione fisica e morale e la mafia. Andavo tra me e me fantasticando tante cose che sarebbe troppo lungo riferire, intorno al mondo, di redimere e migliorare a poco a poco questa classe di zolfatai e pensavo ai tanti che hanno le classi cosiddette dirigenti. Presso il campo santo vidi una figuredda nuova tra l’elegante e lo strano, con grata di ferro e dentro la nicchia un’immagine santa che non potei distinguere. All’esterno, nei lati stava scritto a grossi caratteri su fondo bianco: a spese dei  vagoncinari. I vagoncinari sono la melma della melma. Come si fa ad impastare le cose sante e la tristizia? È una religione di conio mostruoso. Questa gente depravata crede che i santi aiutano il furto e l’assassinio. La loro morale è immoralissima. A misura che si alzava il sole e che andavo scoprendo lunga visione di tutte le campagne che percorsi assai volte in gioventù, provavo un senso inaspettato di sorpresa. Tutto mi pareva mutato, diverso da quel che era 40 o 50 anni addietro. Solo i contorni dei monti e dei colli che si disegnavano all’orizzonte estremo rispondevano alle antiche forme e ricordi, così le sinuosità e le sporgenze del lido e il battere delle onde del mare contro le alte ripe. Rivedevo quei campi un tempo deserti e silenti, con pochi pastori e mandre di vacche, cavalli e pecore, qua e la, adesso pieni di vita. Ora si può dire che la vita ferve dappertutto di gente. Nuove case, piccole e grandi. Quelle grandi distese di giummarre attenuate e in parte sparite. Le terre quasi tutte rotte dall’aratro, qua stoppie galleggianti, là nerastre, perché bruciate di fresco. Un mondo nuovo, una seconda rivelazione, a così breve distanza con la metampsicosi, dopo molti secoli, l’anima non potrebbe più quasi riconoscere nulla e difficilmente si orienterebbe a ricostruire lo spettacolo dei luoghi delle prime sue abitazioni. Le zolfare poi, sembravano un paese bizzarro e speciale. Vasti casamenti, forni di fusione di zolfi a centinaia, parte allineati, parte disordinati, imitavano colonne e rovine di città grandiosa sparita. I fumi di quei forni ed i fumaioli delle canne fumarie delle macchine a vapore davano l’aspetto delle città dell’inferno di Dante. Palazzi per gli ingegneri, con telegrafi, telefoni, ferrovie a scarto ridottissimo che portano zolfi dalle miniere al mare di Porto Empedocle. Erano tirate non dalle locomotive, ma da muli e cavalli. Le miniere sono illuminate a luce elettrica. Ecco come la civiltà penetra, invade tutto. Quando io, a 15 anni, passavo per queste contrade non potevo neppure per sogno pronosticare a me stesso quello che vedo oggi. Tutto corre, tutto si trasforma. Metto punto in queste digressioni che mi porterebbero assai per le lunghe. Ho scritto solo un piccolo cenno delle impressioni ricevute. Ero solo in carrozza. Mastro Antonio Pirrera stava sopra col cocchiere, perciò farneticavo in soliloquio, tacito ed interiore. Ad un certo punto si vedevano le grandi proprietà terriere del barone Giudice, il latifondo Mosè con casamenti che equivalgono a villaggio e dell’altro lato opposto Borrainito e Borraitotto, pure con vastissime case rurali. La potenza dell’oro moderno produce questi fenomeni. Come la forza bruta e prepotente del medio evo metteva in vista i baroni e i castelli, ora il combattimento degli strumenti dell’agricoltura e dell’industria, allora la guerra delle spade e delle guerre fratricide. Rientriamo in carreggiata. Partiamo alle 4,40 ed arriviamo nella casetta nuova da me fabbricata in marzo, alle 8 non suonate. Sino ad un certo punto percorremmo la strada rotabile che da Favara va a Palma di Montechiaro. Poi ci siamo messi sulle terre così come erano. Sono pianure immense, con piccoli dislivelli e sassi e sterpi, ma i cavalli sono usciti vittoriosi. Ho voluto arrivare a piedi alla spiaggia del mare. Ho visto la sorgente d’acqua fresca e potabile che sta sulla riva. Ho percorso i fili divisori della mia terra. Avevo l’occhio a tutto. Guardavo a terra per indagare la natura del suolo. Mi piace assai, è sabbioso, compatto, un po' calcare con sottosuolo di sabbia addensata e forte, come ho potuto osservare nel fosso scavato per la calce e per cavare sabbia ad uso di fabbricazione. Per vigna mi parve eccellente. Deve a forza produrre bene. Non fa bisogno di aspettare l’anno di prova. Fin da quest’anno posso cominciare la piantagione. Il suolo è scarso di gramigna e di mala erba, ma infestato assai di giummarre. Questo è un brutto nemico che dobbiamo assolutamente debellare. Il posto della casetta è indovinato. È la che deve estendersi e svilupparsi tutto il caseggiato rurale futuro. Ma C’è un’altra collina amenissima, proprio sul mare, dove, se Dio mi da vita, intendo far pure un altro corpo di case. Ci vorranno circa 60.000 viti. Tutte non possono vendemmiarsi e vinificarsi e coltivarsi con vera comodità e risparmio, da un solo casamento. Fa duopo per diminuire i trasporti dell’uva e delle viti e per alleviare la via ai lavoranti, edificare due centri di abitazione. In questo secondo centro che sarà delizioso per villeggiare, pescare e cacciare, ci farò delle camere. Sento dispiacere di averci pensato assai tardi. Non so se arriverò a poter fare ciò che mi bolle in testa. Del resto sono cose buone. Si fa quel che si può e fino a che si può. Dio penserà al resto. Ho subito dato ordine di cominciare fin dalla settimana entrante l’ammannimento dei materiali: pietra, calce, tegole, travature, etc. Pensavo però che, attesa la località, non si può farsi una strada centrale diritta che va dalla casina al mare, perché in mezzo ci sta un forte avvallamento. Si faranno due braccia curve che uniscono i caseggiati e si farà poi un braccio piano nel mezzo che unisce i punti più distanti dell’ellisse. Pensavo pure che è ben difficile assegnare fin da principio la terra propria a ciascuno dei miei impiegati che intende beneficiarne. Sarà forse meglio agire in comune, collettivamente per poi fare le parti e gli assegnamenti. Ma sono ancora idee mie indigeste, che vogliono discutersi prima di accettarsi. Ho ricevuto gratissima impressione della bella terra e contrade. Mi ha accompagnato il figlio del massaro Sorce che possiede ed abita la vecchia casina di mandra di Scava, fino alla mia casetta di Zingarello ed ha fatto colazione con noi. Vincenzo Amico ha tenuto un po’ di brio coi suoi brindisi imprevisti. Aleo Nero non ha saputo aprire bocca, né prosa, né rima. Mancando l’estro manca tutto. Con l’estro il non poeta poetizza, senza estro il poeta spoetizza. Il mio progetto di fecondare questa inospitale spiaggia è bello e lo vedo sempre color rosa e promettente. Darà agiatezza a tante povere famiglie. Lavoro al popolo, buono e genuino prodotto ai consumatori di uva e vino. Migliorerà il clima e offrirà l’agio dei più belli e salutari passatempi, inclusi i bagni di mare. Che Dio benedica questi miei intendimenti! Egli può tutto. Le orfanelle, se avrò ancora i giorni che ci vogliono, godranno della loro casa di villeggiatura e dei bagni.

 

Quel vecchio violoncello mi ha rievocato antichi ricordi

(7 settembre 1904) Ieri è tornato l’ex carmelitano padre Emanuele Arnone, colui che mi trattò con la più nera ingratitudine, che fu nemico gratuito e feroce e calunniatore. Meno male che si è reso mansueto con me. L’ho perdonato. Mi ha chiesto l’antico mio violoncello, in cui avevano fatto il nido i topi, forandolo nel timpano delle corde. Il padre Arnone, dilettante di musica, di buon orecchio e mezzo lunatico, è nella fase acuta di insegnare alcuni ragazzi nella musica. Ha formato una piccola orchestra ed ha promesso quanto prima farmelo sentire. Nel consegnargli il mio violoncello sono stato assalito da vari e penosi ricordi. Quello strumento che io suonavo discretamente nei tempi più allegri della giovinezza e che ora non so più neppure tener tra le gambe, si è mostrato più vecchio e cadente di me, impolverato, senza corde, così malandato e sciupato da far pietà. Anche gli strumenti musicali obbediscono alla legge universale del deperimento e della morte. Io vado appresso al mio violoncello. Nel separarmi dal mio antico e logorato strumento mi è venuta spontanea una lacrima nell’occhio. Ho sentito uno strano mescolio e rimescolamento di vecchiaia e di gioventù, di vita e di morte.

 

Come tutto muta!

(28 dicembre 1904) Dopo una lunga e penosa malattia diabetica, stanotte, prossimi all’alba, è morta Caterina Chiodo, nubile sorella di Calogero, il quale perciò è in lutto fin da oggi. Mi sovvengono i ricordi del passato, quando io, essendo pur giovane, con molti altri giovani, quasi tutte le sere sino a notte la passavo in casa Chiodo tra le sorelle Mela, Pidda, Giulia, Rosalia e Tina che era la più giovane, la più briosa, la più ardente, che dava risposta a tutti e teneva allegrissima la società tutta raccolta attorno a lei, con motti, risposte inaspettate e arguzie ridicole. Era l’argento vivo della radunanza. Lo spirito focoso, senza di essa languiva la compagnia. Si rideva, si chiacchierava, si giocava, si ballava, si cantava, si facevano giochi di società e mascherate in carnevale. Era il tempo della giovinezza per dir tutto in una parola di quella età ridente, bollente e spensierata. Come tutto muta!, ora la povera Tina, molto meno avanzata di me negli anni, invecchiata e decaduta anzi tempo è morta. Da un pezzo era ridotta uno scheletro. La carne turgida della giovinezza era sparita, le ossa e la pelle si mostravano pallide e brutte. Se 40 anni or sono, mentre cianciavamo allegri il quelle serate di svago e di ilarità, fosse venuto un profeta a dirmi che oggi io avrei dovuto consegnare questi ricordi così opposti, di gioia e di dolore, riguardo alla povera Tina, alla sua casa, alle sue sorelle, non l’avrei potuto credere. Eppure è così. I tempi lieti sono passati per sempre, non torneranno più. Di quelle piccole riunioni non restano che paure di morte e pensieri di tomba, di sofferenze fisiche e morali.

 

Silenzio e solitudine alla Piana

(30 giugno 1905) Ho dormito imperfettamente, cioè di sonno non profondo, né ristorante. Mi sono svegliato alle 4 di mattina. Sempre le stesse impressioni, le stesse rimembranze degli ultimi anni. Silenzio, solitudine, nebbia scura nel cuore. Mi manca l'udito. La solitudine si fa più austera, accompagnata dal silenzio profondo. I grilli cantano. Canta il gufo, zittisce il barbagianni. I miei domestici lo sentono e ne parlano, io non odo più nulla. Anche questo conforto, questo concorso delle creature fatte per sentire la vita durante la notte che è una specie di morte temporanea della natura mi manca. Posso veramente dire: Tristi est anima mia. Il villeggiare o anche lo star nell'aperta campagna che prima era dolce per me, oggi è divenuto amaro, o per lo meno ha perduto le sue attrattive soavi e dilettevoli. La campagna suol essere deliziosa per gli abitatori della città, quando dalla vita travagliata e torrida passano al quieto riposo, quando dall'aria densa e impura delle strade affollate di palazzi e di persone vanno a respirare le grandi correnti dell'aria libera e ossigenata dei campi. Quando dall'afa infuocata che lambisce le più infuocate mura delle strade godono la piccola brezza dei campi che rinfresca un pochino la fibra loro affievolita dai calori eccessivi dei formicus umani. E per me tutti questi vantaggi quasi a me stesso, nel senso che non ne godo; la malinconia non mi permette di gustarli. I miei sensi sono come ottusi, le percezioni passano quasi inavvertite, o meglio, manomesse dall'interno dolore. Ieri sera mentre la mia mente era in un sapore confuso, come un dormiveglia, chiedevo a me stesso: L'anno vegnente ritornerò, di questi giorni, in questo luogo, si ripeterà questa scena della mia vita? Purtroppo ne dubito. Adesso non conto più gli anni, ma i giorni. La distanza tra la vita e la morte, tra la villa Piana e il cimitero è brevissima, basta un sol passo, un sol giorno per sorpassarla. Intanto ringrazio Dio, piglio il tempo come viene. Ho dato la stoppia di tutta la terra di S. Rosalia, cioè della stradella sotto l'aia fin laggiù nella via pubblica che conduce a Stefano, alle orfanelle. La sera quando il calore scema, esse vanno a rastrellarla per terra e se ne fanno le provviste future per la cucina e i forni. Il giorno più caldo di Giugno. Come fu forte il freddo e lungo, così credo sarà il caldo.

 

Quando avevo cinque anni

(8 marzo 1906) Quando io avevo 5 anni salivo nei giorni festivi quelle scale, allora di pietra, anzi spesso ci giocavo, tutte affollate di genti che saliva e scendeva, tutte piene di vita e brio, ora lucide, pulite, ma deserte. Come mutano le cose e i tempi! Nulla più esiste di quel mondo vecchio, di quell'insieme di cose che colpivano la mia piccola mente. Mio nonno materno Biagio Licata, mia nonna Maria Cafisi sorella del barone Stefano, donna Peppina Ricca, il baronello Antonio Licata, i suoi piccini, etc., tutti sono spariti. Peppinella Gangitano, Maricchia Licata mi ha ricevuto nell'antica camera di ricevere di mio nonno, detta degli specchi. Le decorazioni e la volta sono quelle che erano, l'unica cosa ancora identica del tempo passato. Mi ricordavo stasera la brillante, anzi splendida serata, quando mia cuginetta Peppina Ricca figlia di mia zia Carmela e del barone Riccardo Ricca, si sposava in questa camera con Nicolò Lombardo da Canicattì, poi padre di mio genero Biagio Lombardo. Quante reminiscenze!, che folla di sensazioni e di ricordi mi hanno assalito! Se volessi scriverli occuperei molte pagine. Ripenso che io ero tanto piccino che non mi volevano fare penetrare nella stanza della solenne cerimonia nuziale. Io piangevo e strillavo. Allora per contentarmi, a stento, rompendo il ... della gente invitata, mi fecero arrivare fin davanti la sposa che mi amava tanto quando ero bambino e mi dava frutta e dolci e scusava e copriva le mie maccatelle, poiché io bambino ero irrequieto davvero. Ripenso che mi mise vicino a lei, quasi tra le sue gambe e mi diede un gelato, allora, per me dono insolito e dolcissimo. E tutto quanto io dicevo tra me avvenne proprio qui in questa stanza. Sono rimasti muti e fedeli testimoni, le pareti, i dipinti della volta, i mattoni del pavimento e nell'altro. Tutto è svanito. Non c’è più nessuno. Nelle mie infantili reminiscenze la sala, la festa si ripresentano grandiose, ferventi di convitati, di parenti e di amici. Ricordo le pitture ornamentali, ma mi sembrano ora rimpicciolite, immiserite, scolorite. L'antica gaiezza, l'antica vita non la vedo più.

 

Jessie White inviata a Favara dal Times di Londra per una indagine sulle zolfare e il problema dei carusi

(11 marzo 1906) Jessie White vedova di Alberto Mario, amica di Mazzini e di Garibaldi, di cui essa scrisse le gesta e lo seguì, di Cattamo, di Bertani, di Nicotera, etc., ho detto utile il fatto perché mi è utile ricordarlo. La Jessie socialista e di gran cuore venne in Favara, non ricordo bene l'anno, se il 1891 o 1892, per vedere de visu e studiare personalmente le infelici condizioni fisiche e morali dei zolfatai e segnatamente dei carusi, ossia di quei ragazzi costretti barbaramente a trasportare sulle tenere spalle lo zolfo greggio dal fondo buio delle zolfare all'aria aperta, carusi deformati, rachitici, contorti dall'enorme peso loro caricato tutti i giorni sugli sulle spalle. Essa venne in casa mia accompagnata dall'avv. Bello e da un suo segretario e pranzò in casa mia. Venne a vedere gli stabilimenti di beneficenza da me eretti, allora non aperti al pubblico esercizio, fino alla mia villa Piana. Disputammo a lungo sui modi di migliorare, anzi, di redimere questi infelici carusi. Qui sarebbe lungo riepilogare la cosa, molto più che la memoria non mi aiuta. Convenimmo in articoli secondari e tra l'altro io mi opposi all'abolizione assoluta ed istantanea del lavoro dei carusi. È ben giusto che cessi la barbarie, ma si salvino gli interessi dei proprietari, degli esercenti le zolfare, degli interessi così grandi che potrebbero qualificarsi nazionali e quel che più degli interessi materiali e urgenti degli stessi carusi e le loro famiglie. Se si aboliscono di botto i carusi con una legge draconiana, si dovranno chiudere e tosto, tutte le zolfare, con gravissimo danno. Mettiamo 10 anni di tempo per l'abolizione dei carusi, graduale, dentro i quali 10 anni i proprietari e gli esercenti avrebbero il tempo di fare i nuovi pozzi e le gallerie e macchine per estrarre lo zolfo e condurlo fuori senza le spalle dei carusi, ma con forza meccanica. La Jesse si arrendette al mio parere e ne fece menzione in un articolo del Times di Londra, di cui era corrispondente ordinaria. La Jessie White era più repubblicana che socialista. Amava assai l'Italia come una seconda patria e venne quale corrispondente del giornale inglese Daily News.

 

Novembre mese nefasto

(1 novembre 1906) Per me il mese di novembre, come ho ripetuto quasi in tutti gli anni nei miei diari, è il mese nero, il mese delle nebbie, delle nuvole, del cielo vestito di piombo e delle piogge e qualche volta delle nevi. Ci siamo entrati e dobbiamo rassegnarci ad attraversarlo e dobbiamo sopportare le noie che ci infigge, la luce che ci ruba, la notte lunga che ci regala. Sempre ho avuto paura di novembre, di questo mese dei morti e delle melanconie. Quest'anno mi piace sperare di non dover soffrire malattie o accidenti. Oggi è la fede di tutti i santi. Gran tripudio quindi in cielo e in terra. Domani saranno commemorati i morti, o meglio le anime purganti, con la speranza, anzi con la certezza che in un tempo più o meno lungo, più o meno breve devono passare in Paradiso. Le anime sciagurate e peccatrice cascate nell'inferno, domani non partecipano alla festa per essi ogni speranza, ogni salute, ogni godimento è finito per sempre. Hanno con loro l'eterno castigo, l'eterna disperazione e la negazione della beatitudine in Dio.

 

Giochi d'infanzia e rimembranze

(26 dicembre 1906) Quando ero ragazzo nel convitto Real Ferdinando dei gesuiti in Palermo, spesso nell'estate, nel pomeriggio, in certe ore che adesso non ricordo bene, mi svagavo riproducendo artificialmente l'arcobaleno. C'era una fontana d'acqua corrente da un rubinetto di rame di grosso calibro che si apriva e chiudeva a volontà con la solita chiavetta superiore. Su questa fontana, in fondo di un gran corridoio si apriva una grande finestra, credo esposta ad occidente, dalla quale i raggi del sole passavano a sbocco, cioè molto inclinate sulla fontana, prima di riposarsi sul pavimento ed illuminarlo. Io aprivo il rubinetto e poi col pollice lo socchiudevo per di sotto, facendo sortire l'acqua a spruzzi, a pioggerella continua. Allora brillavano vivissimi i colori dell'iride ed io facevo mille scherzi, affrettando o allontanando il corso degli spruzzi o sospendendolo e subito facendolo ricomparire. Variando poi l'inclinazione e obliquità del getto d'acqua, s'intensificava o sbiadiva il piccolo arcobaleno dipinto dentro il corridoio dalla maestà del sole cadente.

 

Sedute spiritiche

(10 gennaio 1907) Ieri sera in casa di Maria Licata e signora Peppina Gangitano del fu senatore Salvatore, profittando della presenza di un medium, cioè del giovane avvocato (ora 36 anni) sig. Nicolò Dell'Aria da Canicattì, si tenne una seduta spiritica. Il tavolinetto a tre piedi e senza chiodi di ferro fu apprestato da Calogero Montalbano, l'orologiaro che sta al Carmine, al cantone della casa Ambrosini, a tempi del fu Gaspare Dulcetta. Credo che questa sia stata la prima seduta spiritica tenuta in Favara in buona regola, in famiglie civili e col concorso di molti civili. Ho saputo che il tavolinetto spiritico del Montalbano era esercitato, pregno di fluido vitale o spiritismo. Ciò fa segno certo che lo spiritismo già da un pezzo nel ceto popolare ha fatto strada. Tra gli altri che formavano la catena spiritica c'era l'avv. Vincenzo Sanfilippo. Il tavolino cominciò a dondolare e mostrare durezza e riluttanza a rispondere e così si venne in chiaro che il tavolino, ossia gli spiriti che erano invisibilmente presenti non volevano affatto l'intervento del Sanfilippo, perché testardo e incredulo come poi ha dichiarato lo stesso tavolino che parlava con piccole percosse o colpetti secchi corrispondenti in numero al posto delle varie lettere dell'alfabeto. Ho parlato col Sanfilippo che è stato testimone oculare di tutta la seduta. Quando il tavolino fu riacquietato cominciò a dire che lo spirito presente era Antonio Licata, cioè il buon padre di Maria Licata e che desiderava la celebrazione di una messa. Gli fu domandato il perché e se fosse necessaria. Ha risposto che non era necessaria, ma che serviva per glorificare Dio, e si è allontanato col dire "vi benedico". Indi è comparso il sac. Antonio Matina (defunto) che ha detto di stare bene. Richiesto se fosse contento dei suoi parenti, ha dato un bel no. Dopo circa un'ora la seduta si è sciolta. Io, al cospetto di questi fenomeni non vedo spiriti, ma fatti fisici. Una catena magnetica animale, risposte e comparse di persone note ai componenti la catena. Se ci fossero state manifestazioni veramente spiritiche, cioè toccanti il soprannaturale, allora ci sarebbe da pensarci un poco a cercare le cagioni produttrici di cotali manifestazioni. Come per esempio quando evocano lo spirito di una persona conosciuta solamente da colui che ne chiede la evocazione e da nessuno dei componenti la catena, tostoché il fluido potesse da essi estendersi ai vicini individui viventi e coronanti l'aura o fluido vitale e perciò anche in tal caso la straordinarietà dell'accaduto potrebbe spiegarsi fisicamente quando questo ignoto evocato piglia la figura del defunto e si materializza  e soprattutto quando scrive correttamente con la sua ordinaria calligrafia, cioè con quella con la quale scriveva quando era vivo e lascia lo scritto sempre controllabile, allora si che vengono meno le ipotesi e le teorie, cioè peggiori simili avvenimenti. Nel 1857 e 1858 vidi la prima esperienza magnetica. Avevo un manuale di magnetismo animale in francese. Lo tradussi nelle parte delle manovre per ottenere il sonnabulismo magnetico e lo comunicai al dr Gerlando Micciché. Sotto i borboni anche il magnetismo era proibito ed erano severamente puniti o perseguitati i cultori di esso. Noi agivamo in segreto come i congiurati. Eravamo consapevoli in pochi. Io, il dr Gerlando Miccichè, il dr Giovanni Antonio Bellavia, il dr Giuseppe D'Angelo, l'avv. Calogero Dulcetta e famiglia. Il Bellavia era incredulissimo e derideva i fenomeni magnetici, dicendoli parti fantastiche delle nostre menti ammaliate e malate. Il Dulcetta aveva una servetta nativa di Palma di Montechiaro, debole, esile, infermiccia. Il dr Miccichè la curava e le medicine non gli giovavano. Allora volle applicare il ... consultivo. La servetta cadeva facilmente e subito nel più perfetto e chiaro sonnambulismo (trance). Una sera, alla spicciolata, per non dare sospetto, io, il dr Miccichè, D'Angelo e Bellavia convenimmo in casa Dulcetta. La servetta nel semibuio, a porte chiuse e ben bendata cadde tosto nel sonnambulismo. Io e Bellavia restammo nel pianerottolo della scala, dietro la porta chiusa della scala. Allora il magnetizzatore dr Miccichè le chiese chi C’è qui presente. Essa rispose: nel salotto, a destra C’è la padrona di casa al buio che guarda dallo spiraglio della toppa e dietro l'uscio d'entrata, in capo alla scala C’è il dr Bellavia e uno che non conosco. Allora entriamo io e il Bellavia e gli fu domandato: Cosa tiene in tasca Bellavia ed essa rispose: nella tasca grande del petto una bottiglia di vino. Siccome Bellavia sapeva che la seta non dava passaggio agli afflussi magnetici, coprì la bottiglia con un fazzoletto di seta e la ripose nell'altra tasca. Gli si domandò della bottiglia ed essa rispose semplicemente: non la vedo. Sempre si serviva del verbo vedere. Che cos'altro ha in tasca nel gilet il dr Bellavia: l'orologio da una parte, dall'altra due piccole chiavi ed una moneta antica, descrivendola precisamente come se l'avesse avuto sott'occhio, lei al buio e bendata. La moneta era stata trovata lo stesso giorno al Malvizzo zappando la terra del Bellavia stesso, dove era andato di persona, quindi si esclude il caso di trucco e d'inganno. Nessuno aveva potuto sapere di quella moneta e nessuno aveva potuto comunicare alla rozza servetta la sua esistenza. Allora Bellavia cominciò a credere ai fenomeni magnetici. Finalmente si arriva al punto culminante. Il dr Micciché le disse: che metodo di cura ci vuole per guarirmi e tosto rispose: i preparati per unzioni e il sodio e principalmente l'unguento napoletano che è la pomata di Cirillo? Il dr D'Angelo le dice: non sarebbe meglio l'unguento francese?, ed essa: Ma che, l'unguento francese non esiste che nella vostra testa e non nella farmacia. Il dialogo o soliloquio era dalla ignorante servetta sostenuto in perfetto italiano, di buona pronuncia. Quando dobbiamo fare questa cura?, rispose l'ammalata (eravamo in dicembre): verso la fine di aprile, perché quest'anno la primavera sarà tardiva. Così finì. C'era un certo spirito fatidico, sebbene relativo e fatti fisici e cause concatenati. Poi anche in segreto, ai tempi di Domenico Pandolfo e presente suo figlio Beniamino Panfolfi, avendo sposato posteriormente un'avventura da romanzo, una ricca ragazza unica ereditiera di certi baroni di Salisburgo, con altri amici: Mulè, Giudice ed altri giovani, la sera nel gran corridoio del convento del Carmine, permettente il padre maestro Dulcetta. Domenico Pandolfo alloggiava in una cella monacale del convento da anni. Facevamo girare un mio tavolinetto tondo in mogano che ancora conservo. Ho voluto ricordare questi fatti perché si riattaccano allo spiritismo, ossia ai primi passi e fatti spiritici esplicati in Favara. Ma il nostro tavolino non parlava, si limitava a girare alle volte anche vertiginosamente a destra e a sinistra, secondo che noi volevamo. Io non so formarmi un'idea adeguata ed un concetto preciso di questi fenomeni detti spiritici di cui ho scritto qualche cosa nel diario 1906. Mi accosto all'opinione di Flammarione che attribuisce questi fenomeni detti spiritici ad una forza naturale sconosciuta e queste forze sono certamente naturali, non potendo alcun fenomeno uscire dal campo della natura. Il Flammarione parla delle diverse teorie, o meglio, ipotesi e speculazioni dei più noti uomini che hanno voluto conoscere, studiare e spiegare lo spiritismo dai materialisti, agli animisti. Sono tutti vari fra loro. Uno che combacia perfettamente con l'altro non C’è, segno che sono tutti meno uno nel campo del falso. La verità è una e dev'essere uguale a se stessa e agli occhi di tutti coloro che per tale la riconoscono, atteso il carattere suo di unità e identità.

 

 

 

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