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Memorie storiche di Favara di Carmelo Antinoro

IL BARONE ANTONIO MENDOLA

 

Gocce di riflessioni tratte dai diari intimi del barone Antonio Mendola

 

Barone Mendola Antonio

(filantropo, ampelografo)

 

 

 

Corrispondenza A. Mendola -  C. Darwin

 

 

 

 

La provenienza e la progenie del barone Antonio Mendola di Favara è stata ampiamente trattata e documentata nei libri riportati nella presente scheda. Il primo dato archivistico sulla provenienza da Racalmuto ci viene dato dall’atto di matrimonio del 1696 fra Giovanni (trisavolo del barone Antonio) e Monaca Terranova.

La nobiltà in casa Mendola non è arrivata per gesta cavalleresche o per servigi prestati al sovrano, ma per contingenze legate principalmente all’attività di ecclesiastici, in un momento storico in fermento, in cui molti diritti e privilegi feudali erano giunti all’ultimo stadio degenerativo. La nobiltà in casa Mendola è arrivata nel 1812 grazie al sac. Gaetano che ha acquistato il feudo Fontana degli Angeli con relativo titolo. Ma a prendere formale investitura del feudo è stato Andrea (nonno di Antonio) al posto del fratello sacerdote Gaetano che, per evidenti ragioni ecclesiastiche non poteva assumere.

Il barone Antonio Mendola è nato in Favara nella mezzanotte del 16 dicembre 1828 dal barone Giuseppe e Angela Licata (zia di Biagio Licata principe di Baucina). Da ragazzo ha studiato al convitto real Ferdinando di Palermo. Studiò legge all’Università di Palermo, ma trovatosi in un pelago di liti per questioni di eredità, prese in odio i codici, gli avvocati e il foro, ai quali diede un assoluto addio. Si ritrasse solitario a studiare le leggi non degli uomini ma della natura, e si dedicò all’agricoltura.

Predilesse lo studio delle viti, versandosi nelle sue branche principali: l’ampelografia, la viticoltura e l’enologia. Intese e propugnò la necessità scientifica di unificare queste tre branche, e venne al concetto ampelenologico, teoricamente composto ad unità, ma ammettendo nella pratica e tecnicamente, l’esercizio separato, ossia la divisione del lavoro.

Radunò una vasta collezione di oltre 4000 varietà di vitigni provenienti da tutto il mondo, nel suo podere di Poggio di Conte, forse la più ricca ed accertata delle collezioni sorte in Italia, se non addirittura in Europa.

Ebbe per maestro e amico il celebre Conte Odart di Tours, fondatore dell’ampelografia moderna ed autore della Ampelographie Universelle, compilata con l’aiuto e sullo specchio della sua famosa e vasta collezione di vitigni, raccolti da tutte le parti del mondo nel suo castello della Dorèe, presso Esvres (Indre-et-Loire). Il Conte Odart procurò al barone Mendola molte utili relazioni personali con specialisti francesi e di altre nazioni, segnatamente coi signori Errico Merès ed Errico Bouchet di Chiroubles (Rhône), professore prima a Versaglia e poi a Parigi, coi signori Casalis, Allut, Sahout, etc.

Ebbe conoscenze con i più chiari specialisti stranieri, quali il barone Balbo, il dr. Adolfo Blankenkorn di Carlstrue, e fra gli italiani con conte di Rovasenda di Torino, col marchese Cosimo Ridolfi, col barone Bettino Ricasoli di Firenze, col marchese Incisa di Rocchetta Tanaro, con l’avv. Console di Putignano in terra di Bari, col sig. Agazzotti di Modena, col cav. Francesco Lawley, presidente poi del primo comitato ampelografico e col compianto deputato De Blasiis, autore anche di un trattato di viticoltura, e con moltissimi altri che sarebbe lungo da nominare, e con la schiera dei professori Botter di Bologna, Cerletti di Conegliano, Ottavi di Casale Monferrato (benché nativo di Ajaccio) e moltissimi altri.

Il barone Mendola si proponeva di compilare l’Ampelografia italiana. L’Italia meridionale si poteva dire vergine: non si conoscevano le sue belle flore viticole. I tempi del dispotismo borbonico, la poca istruzione, la mancanza di viabilità, la difficoltà di comunicazioni e del procurarsi amicizie personali, rendevano scabroso il compito. Il barone Mendola impiegò la sua energia giovanile e riuscì in parte nell’intento. Un primo catalogo di questa collezione fu stampato nel 1868 in appendice al giornale “Il Coltivatore” di Casale Monferrato, quando conteneva appena 2000 varietà di viti.

I principali giornali italiani e stranieri fecero cenno più di una volta della collezione del barone Mendola, che riportò il primo premio nell’Esposizione regionale delle province siciliane consorziate, quando si tenne in Girgenti. Il Prof. Giovanni Briosi, direttore della R. Stazione agraria di Palermo, ed poi professore di scienze naturali nell’Università di Padova, dopo avere studiato il “Phitoptus” nella collezione del barone Mendola, nella sua monografia sulla “Phitoptus della vite” stampò le seguenti parole: “il barone Mendola è riuscito a riunire in un suo podere vicino a Favara più di 3000 varietà di vitigni che rappresentano presso a poco, tutto quanto si conosce in fatto di uve nelle cinque parti del globo: e ciò che importava, non era vana smania di raccogliere che lo muoveva; ma amore dello studio, unito ad acume scientifico, veramente rari, i quali fruttarono all’ampelografia, etc.

Essendo il barone Mendola in desolata vecchiaia senza eredi, per non sperdere tanto tesoro da lui accumulato con sforzi sovrumani, offerse gratuitamente al Ministero dell’Agricoltura i maglioli di tutta la sua collezione per farli innestare nelle scuole di viticoltura sopra radici americane resistenti. Il Ministero risolvette troppo tardi di accettare. Appena duemila varietà in due anni poterono essere inviate al Prof. Segapeli, per innestarli nel vigneto annesso alla Regia Scuola di viticoltura ed enologia di Catania. La raccolta, l’etichettaggio accurato e coscienzioso, l’imballaggio, non si possono fare speditamente. Un vecchio poi nella stagione invernale, non poteva sostenere lungo lavoro in campagna, con la podagra che lo minacciava spesso. Perciò la fillossera ha distrutto ogni cosa.

Espose una parte dei suoi studi di semicoltura delle viti nel vol. V degli Annali di viticoltura del Cerletti, editi dal Civelli di Milano (annata 1874). Il barone Mendola in questo ramo di esperimenti fu tra i primi in Europa a praticare la fecondazione o ibridazione artificiale per la creazione degli ibridi produttori diretti, aventi la resistenza delle viti americane e la fruttuosità delle viti europee.

Egli aveva pronosticato il grande avvenire dell’ibridazione artificiale delle viti fin dal 1879, quando nessuno ci pensava (vedi vol. X, pag. 376 dei detti Annali Cerletti). Nel Congresso antifillosserico tenuto a Conegliano Veneto nel settembre 1902 il prof. Sannino, relatore della sezione viticoltura ed ampelografia, così si esprime nella sua relazione: “Per creare questi produttori diretti trarremo profitto dal moltissimo che hanno fatto i francesi nostri predecessori e maestri in questo campo; ma non dimentichiamo che nella creazione delle nuove varietà la viticoltura italiana vanta un precursore nella persona di Antonio Mendola di Favara …”.

Concepito il vasto concetto unitario dell’Ampelenologia, lo andava sempre più studiando,  ponendo in ordine idee, opuscoli e un grande materiale scientifico, per compilare l’ampenologia italica, di cui pubblicò il sommario fin dal 1876 nel vol. IX dei detti Annali del Cerletti; e lo pubblicò non a vana pompa, ma per sentire l’opinione altrui, sopra molti punti di rinnovamento delle vecchie idee, poiché molte delle idee nuove  sue potevano parere troppo ardite, troppo rivoluzionarie.

Il chiarissimo dr. Antonio Carpenè (vol. V, pag. 335 dei detti Annali Cerletti) scrisse le seguenti parole: “Il benemerito barone Mendola con questo suo scritto (sul filtro olandese) pieno di erudizione, e che prova una volta dappiù, quanto egli sia profondo conoscitore della enotecnica o pratica di cantina, quanto un vecchio cantiniere, ha reso un vero servizio dell’enologia, perché la sua opinione è certo ascoltata. Con questo articolo il filtro olandese andrà diffondendosi sempre più a gran vantaggio dell’enologia.”.

Disgraziatamente nel 1895 un birbone abusando della fiducia accordatagli dal barone trafugò e distrusse tutti i voluminosi materiali manoscritti, opuscoli e parte del carteggio scientifico coi più illustri italiani e stranieri. Questa sventura inaspettata e la distruzione della collezione operata dalla fillossera e le grandi sciagure domestiche hanno impedito la compilazione della Ampelenologia Italica che il barone aveva tanto vagheggiata.

Antonio Mendola fu uno dei sei membri del primo comitato ampelografico istituito a Roma presso il R. Ministero di Agricoltura. Fu poi membro della R. Commissione di viticoltura e di enologia stabilita pure in Roma dal Ministero. Indi fu membro della Commissione centrale fillosserica che dura finora, e Presidente della Commissione di ampelografia e della Commissione di viticoltura della provincia di Girgenti. Il di lui discorso di prolusione fu stampato e ristampato dai migliori giornali agrari e viticoli.

Fu membro corrispondente della R. Società di enologia italiana; socio fondatore della Società dei viticoltori italiani, fondata in Roma e poi fusa nella Società degli agricoltori italiani. Fu uno degli otto membri componenti il Comitato ampelografico mondiale, con sede a Marburgo e a Budapest, che poi decadde, perché, venuta la fillossera, dovettero smettersi gli studi per così dire di lusso della vite, e si dovette pensare alla difesa ed alla salvezza della vite stessa.

Nelle commissioni ministeriali a Roma, sopra citate, il Barone Mendola ebbe continuamente rinnovati i decreti di nomina, cosa concessa a pochissimi; e fu assiduo per più di venticinque anni.

Fu presidente di commissioni aggiudicatrici di premio in diversi concorsi governativi, tanto relativi alla viticoltura ed enologia, quanto a concorsi scientifici di opere, come quello intorno ad una monografia sul nocciolo, fatto col concorso del governo e del consorzio delle province siciliane.

Il barone Mendola da giovane scriveva nei principali giornali agrari, viticoli ed enologici italiani e stranieri. Prese parte alla redazione della grande opera Le Vignoble, sotto la direzione di M. Mas. direttore del Museum di Parigi e di M. Victor Pulliat intitolata Le vignoble ou histoire, culture et descriptions avec planches coloriées des vignes à raisins de table et à raisins de cuve le plus généralement connues par M. Mas et Pulliat. Principeaux collaborateurs: Henry Maré, Bouscet-D’Haudebine, B. Mendola, Conte di Rovasenda, etc, Paris, Librairie de G. Masson.

È da notare che fin dal 1875 nella prefazione del 7° vol. degli Annali del Cerletti, come annunzio di grata novella si disse dalla redazione: “Teniamo in pronto alcuni scritti del chiarissimo barone Antonio Mendola di Favara che per novità ed ardimento di studi destarono in modo particolare l’attenzione della stampa agricola estera.”. Questi scritti erano stati sotto altra forma pubblicati in Germania.

Il compianto prof. Ottavio Ottavi, fondatore del Vinicolo italiano di Casale, nel 1878 dedicò il suo libro Monografia sui vini di lusso e sugli aceti con queste parole: “All’insigne ampelografo barone Antonio Mendola di Favara nell’Agrigentino, in segno di riconoscenza, l’autore”. Il Mendola mantenne lunga amicizia e carteggio con l’Ottavi, e viene citato da lui ad ogni piè sospinto non solo in detta monografia, ma oziando nel suo Trattato di viticoltura ed enologia.

Il dr. Carlo Giulietti, membro allora e poi presidente della Commissione ampelografia di Pavia, nel suo Dizionario ampelografico, alla voce Mendola barone Antonio, stampò quanto segue: “Ampelografo, scrittore e coltivatore dei più distinti. Dai suoi scritti appare che ebbe a maestro il conte Gallesio”; (si osserva però che ciò è un errore, poiché il Mendola non conobbe personalmente il Gallesio ma ne studiò solamente le opere, e segnatamente la sua gran Pomona).

Nel 1868 pubblicò in appendice al Coltivatore di Casale, il catalogo più esteso che si conosca fino a tal tempo dei vitigni italiani ed esteri da lui in gran parte coltivati.

Negli Annali di viticoltura del Cerletti, pubblicò i prolegomeni di una grandiosissima opera di ampelenologia. Sono da farsi voti che a detto scrittore arridano le sorti, in modo che la possa condurre a termine e pubblicarla per intero.

Lo stesso Giulietti in detto suo dizionario, alla voce conte di Rovasenda, soggiunge a pag. 187: “Per instancabile ed acutissimo spirito di osservazione e ricerche in Italia, è solo emulato dal barone Mendola siciliano; modesto, è ritenuto come sommo ampelografo, più conosciuto ed apprezzato all’estero che in Italia.” .

Quasi tutto ciò non bastasse il barone Mendola non ha lasciato da parte lo studio importantissimo della cerealicoltura a base di conci chimici che da molti anni va adoperando, modificando i metodi e le dosi e diffondendolo con l’esempio e con gli scritti.

Nel 1902 e 1903 ha pubblicato nel Coltivatore di Casale, diretto dall’onorevole Edoardo Ottavi, lunghe note di cerealicoltura a base di conci chimici nelle regioni meridionali. Egli ha innalzato a un gran livello la produzione dei cereali nella sua azienda. Sarebbe lungo enumerare le nomine onorarie di membro di molti comizi agrari, di molti sodalizi e società in Italia.

In Catania nel 1889, ad iniziativa del signor Czeppel, addetto alla R. Scuola enologica di Catania, fu aperto un piccolo Circolo enofilo che fu intitolato al barone Mendola.

Nel VII congresso internazionale di agricoltura, che ebbe luogo in Roma dal 19 al 23 aprile 1903, il barone Mendola fu compreso tra i vicepresidenti della X Sezione viticoltura ed enologia, sebbene per la sua grave età di settantasei anni e per la podagra non poté pigliarvi parte.

Il barone Mendola ha avuto diverse onorificenze cavalleresche, senza mai sollecitarle, sino a Grande Ufficiale della Corona d’Italia. Egli non se ne è mai valso o fregiato.

Fu inoltre sempre consigliere provinciale fin dall’inizio delle nostre nuove istituzioni politiche; fu per venticinque anni deputato provinciale, nell’avvicendarsi di diversi partiti, ciò che in qualche modo testimoniava la sua onestà morale e intellettuale.

Negli ultimi quattro anni della sua vita non intervenne più nel Consiglio provinciale, ora per l’età e le malattie e i grandi lutti di famiglia, avendo nell’anno 1903 perduto l’unico fratello, l’unico genero, marito dell’unica sua figlia e vari nipoti. Addolorato si è ritirato da ogni pubblica ingerenza del Consiglio comunale e provinciale, vivendo solitario, anzi da anacoreta, nella sua villa suburbana detta Piana, in compagnia dei suoi libri e dei suoi fedeli cagnolini.

Il barone Mendola da uomo civile e da cristiano ha fatto ogni opera per venire in aiuto delle classi lavoratrici povere, principalmente dei contadini e per diffondere la pubblica istruzione.

Egli a sue spese sui propri terreni suburbani e di valore, sopra una collina deliziosa, in faccia al mare del mezzogiorno e in prospetto al paese, distante appena trecento metri, ha eretto un grande orfanotrofio femminile con giardini dentro e all’intorno, con grandi sale aerate ed arredate, dove all’’inizio del 1900 stavano asilate quarantacinque orfanelle povere. In mezzo vi è una chiesetta, all’altro lato un grande asilo per gli inabili al lavoro, ma mai aperto al pubblico esercizio durante la sua vita. Sul frontone di questi edifici sta fatto apporre, a lettere cubitali il comando del Nazareno: Il soverchio datelo ai poveri.

Il barone Mendola ha accresciuto a sue spese le fabbriche dell’ospedale civico di Favara

Dopo aver pensato ai poveri di mezzi, ha dovuto pensare ai poveri dell’intelletto. Nella medesima collina ha eretto una palazzina dedicata alla scienza, come sussidio alla popolare istruzione, che portava il titolo Popularis Sapientiae loculus.

Vi era un po di tutto in modo popolarissimo, un vero luogo di popolare sapienza: una biblioteca che per raccoglieva circa quattordicimila volumi, ordinati e catalogati coi migliori sistemi di bibliotecnia moderna a schede e con indici alfabetici per nomi d’autori, per titoli di opere, e per materia.

Vi era una legatoria con strumenti moderni a servizio della biblioteca e un erbario botanico; una collezione di stampe, di oleografie, di disegni, di corsi di disegni di figura ed ornamentali; una collezione di musica, in partiture d’orchestra, banda e pianoforte, ed un reparto di cataloghi di ogni sorta, antichi e moderni: scientifici, bibliografici, tipografici, industriali, etc. C’era anche un gabinetto fotografico, un gabinetto microscopico al completo, anche un microscopio a mille diametri, più che sufficiente per bisogni dell’igiene, della medicina, dell’agricoltura, dell’ispezione delle materie alimentari, etc. Vi era un piccolo osservatorio meteorologico, un gabinetto d’imbalsamazione affidato ad un valente imbalsamatore. C’era un museo in grandi saloni di storia naturale; la serie degli uccelli di stazione e d’immigrazione o passaggio in Sicilia e quella dei quadrupedi. C’era il germe dei musei di geologia, di mineralogia, di numismatica, di archeologia, di etnologia, un poco di tutto.

Queste opere ed il loro arredamento costarono al barone Mendola circa mezzo milione oltre al mantenimento giornaliero. Con esse voleva dare sollievo alle classi agricole e povere, tanto materialmente che moralmente ed intellettualmente.

Ha tentato due volte di fondare un grande asilo infantile, ma disgraziatamente non è riuscito nell’intento.

Mentre il barone Mendola, vecchio soldato combatteva per la rigenerazione delle nostre campagne ed impiegava tutte le sue forze intellettive a vantaggio dell’agricoltura, che cosa facevano tanti altri latifondisti?: se ne stavano in panciolle, oziando nelle grandi città.

L'illustre barone Antonio Mendola è morto alle prime ore dell'alba del 18 febbraio 1908.

 

 

Il baronello Giuseppe Mendola

 

Baronello Giuseppe Mendola di Antonio

Il baronello Giuseppe Mendola di Antonio

L'istituto Hoffwyl di Berna

Istituto di Hoffwyl - Svizzera

 

 

 

 

Giuseppe Mendola (v. foto) - nome di battesimo Giuseppe Benedetto - quarto e ultimogenito del barone Antonio Mendola e donna Rosalia Cafisi (di Stefano) 27 gennaio 1861 a Favara - † 20 febbraio1880 a Stuttgart (attuale Stoccarda).

Il primo figlio Giuseppe nacque nel 1849 e morì dopo 13 mesi;

La seconda figlia Angela nacque nel 1851 e morì a 82 anni, nel 1933;

La terza figlia nacque nel 1853 e morì dopo otto anni, 41 giorni dopo la nascita di Giuseppe Benedetto.

 

(estratto dal libro "GIUSTIZIA E VERITÀ NELLA VITA DEL BARONE ANTONIO MENDOLA - dai suoi diari intimi) - Conobbi ed entrai in amicizia con Luigi Amedeo Melegari nel maggio 1873, quando condussi a Berna mio figlio Peppino e quando lo lasciai collocato nell’Istituto di Hoffwyl (v. foto sottostante) la prima volta.

Appena arrivato a Berna, per informazioni avute e per la bellezza del sito e del fabbricato, presi alloggio col mio fanciullo nell’hotel Swapoff, vicino la stazione, dove la ferrovia entrava in città.

Di buon mattino, con le lettere del principe di Baucina e del marchese Antonio Starrabba di Rudini, mi recai dal Melegari nell’hotel Bernerhof presso la Borsa, il migliore hotel, cui seguiva immediatamente Swapoff. Faceva ancora freddo. Aprii la maniglia della grande bussola a cristalli opachi, che chiudeva l’ingresso e vidi un magnifico cane S. Bennardo. Mi guardò fissamente, quasi volesse dirmi: “Qui son Cerbero, non lascio entrare”.

Confesso che ebbi paura. Tornai indietro richiudendo i cristalli e pregai il guarda porta dell’hotel di accompagnarmi. Si pose a ridere. Mi disse in francesce: “Non è nulla, non abbiate paura, io lo conosco, è una buona bestia”; ed io: “Sarà così, ma io vi prego per favore di accompagnarmi” e tosto con compiacenza prese la via guidandomi.

Appena entrati cominciò a carezzare quel magnifico cane che non si mosse, si mostrò veramente buono e montai su per la bella scala. Appena entrato si alzò un domestico in livrea, mi chiese il nome, mi annunziò al padrone, al ministro plenipotenziario del regno d’Italia presso la confederazione elvetica. Dopo pochi minuti mi trovai in presenza del ministro. Aspettai un poco in piedi. Si aprì un uscio e comparve un bell’uomo alto, grosso, imponente, grave e lieto, quasi sorridente. Mi presentai da me e consegnai le lettere. Il Melegari, lettele, mi fece sedere e con modi assai cortesi mi intrattenne un poco. Lo pregai narrandogli la mia paura del cane a farlo mettere in sicuro. Il Melegari sorrise bonariamente: “Avete troppa paura di questo buono e fedele animale” disse, e chiamò tosto il cameriere toccando, un bottone elettrico, dando gli ordini opportuni per contentarmi, come se fossi stato un suo vecchio amico, un suo parente. Melegari in questo primissimo incontro mi parve una figura impastata di forza e gentilezza. Mi disse: “Abbiamo già otto italiani col vostro figlio ad Hoffwyl, io lo terrò caro come gli altri e voglio vederlo”.

Così soddisfatto e arcicontento di aver trovato un amico, un quasi parente, tornai all’hotel e presi una carrozzella di piazza preferendola alla ferrovia, mi recai col mio Peppino a Hoffwyl. Qui non starò a raccontare la scena della presentazione, del pianto di mio figlio davanti al direttore Edoardo Muller e dei vari comici aneddoti, per equivoco di lingua e di frasi, passati fra me e le giovani cameriere dell’Istituto.

La mattina dopo lo condussi in casa Melegari. Il ministro si mostrò affabile e carezzevole col figliolo mio. Lo colmò di buone parole. Gli disse: “Sarete spesso con me e con gli altri italiani, in casa mia”. Indi fece chiamare la sua signora moglie assai distinta, una svizzera tedesca. Io cominciai a parlarle francese, ma tosto il Melegari mi disse: “La moglie di un ministro italiano deve saper parlare l’italiano e lo parla già, molto più con gli italiani”. ...

Andavo spesso solo o con mio figlio in casa Melegari.

Un giorno la signora mi presentò la sua fanciulla, quella stessa Dora poi divenuta scrittrice valorosa in diverse lingue. ... Chi avrebbe mai potuto profetizzare che dopo 33 anni avrei dovuto ricordarmi di Dora?

Amedeo Melegari prese affetto quasi paterno per il mio figlio.

Lo invitava spesso a pranzo, segnatamente nelle grandi solennità. Inoculò a mio figlio la mania diplomatica. Ad ogni costo voleva entrare in questa carriera e tutto era già disposto per contentarlo. Se egli non si fosse spento mentre terminava il corso di scienze naturali in Germania, nel politecnico di Stuttgart, capitale del Würtemberg, sarebbe andato a finire in qualche ambasciata italiana in oriente.

Io non volevo che mio figlio prendesse quella via, lo volevo presso di me, nel suo paese a migliorare la propria condizione ed allo stesso tempo quella della nazione, con l’agricoltura scientifica razionale, con l’industria, etc.; ma fu così tenace, così profondo l’innesto melegarico della passione diplomatica dentro le vene di mio figlio che non potei distoglierlo.

Io allora feci un sospetto. Un sospetto tutto mio, intimo, cioè che il Melegari avesse potuto fin da allora intravedere le possibili nozze tra la sua Dora e il mio Peppino; però Melegari non ne diede mai nessun segno, nemmeno la sua signora e la figlia che andava crescendo. Quel dubbio entrò nella mia testa solamente per la comunicata passione della carriera diplomatica imposta dal Melegari nella persona di mio figlio. Era certo però che c’era una certa dimestichezza tra la Dora e mio figlio.

Il Melegari spesso, quasi tutti i giorni, nei mesi primaverili che io passavo quasi sempre a Berna, faceva delle lunghe passeggiate con me, godendo la frescura e la verde smaltatura delle belle colline e degli altipiani, che circondano la capitale delle genti elvetiche.

Il Melegari era tanto buono, dotto e liberale, quanto modesto e riservato.

Egli, l’amico fidato di Mazzini, non mi parlò mai di questa amicizia, che di per se stessa formava un vanto, un pregio, una gloria.

Solamente dopo lunghi anni, per mezzo della pubblicazione del carteggio col grande cospiratore genovese ho appreso chi era Melegari, patriota e più che patriota, amico e propugnatore della libertà internazionale, di tutti i popoli. ...

Il Melegari, dall’ottobre 1867 era ministro a Berna. Nel 1876 fu poi ministro degli Esteri del regno d’Italia quasi per un anno. Io scrivevo spesso al Melegari, ma appena nominato ministro, fatta la mia rituale congratulazione, ammutolii e troncai qualsiasi carteggio. Quando tornò a Berna, a ministero finito, ripresi le abitudini consuete.

Così praticai sempre con Crispi e Rudini. Tutti gli anni, per Natale, mandavo una bella scatola di cucuzzata che facevo apposta lavorare da Salvatore Gulì, famoso dolciere di Palermo e facevo rivestire la scatola con grande eleganza, poiché l’arte dell’ingentilire favorisce il dono.

Per usare squisitezza di modi e ringraziamenti, la famiglia Melegari non mangiava la zuccata senza prima aver fatto vedere la bellezza delle decorazioni artistiche a mio figlio.

Dopo tanti anni Dora pensava più a tutto questo? Io qui, solitario, abbandonato, lontanissimo dai tempi, dai luoghi, da lei nell’intimo rimescolio delle reminiscenze, scrivevo queste parole che per così dire rimanevano tacite, occulte, ignote.

Quando stavo col Melegari vedevo un patriarca, un uomo gioviale, un bel conversatore, ma non seppi indovinare e conoscerne la grandezza, il patriottismo. Solo dopo 30 anni, attraverso tante vicende, questa figura mi parve altissima, sublime, splendente di virtù. Egli stava già da un pezzo nel mondo degli spiriti, forse vedeva e leggeva questi pensieri, che la mia penna sollecitamente e forse scorrettamente deponeva sulla carta e che cosa poteva dire di me? Io oscuro anacoreta di villa Piana, un tempo fui in contatto con un personaggio illustre di cui si occupa la storia.

Quando penso e ripenso alla vita, la dico un mistero, una miscela di cose, le più strane e alle volte le più ripugnanti: Melegari entrava nel tempio della fama, io sprofondavo nell’abisso dell’oblio e del sepolcro. Eppure siamo stati in contatto. Il carteggio lungo ed intimo, sebbene non tutto, del Mazzini col Melegari, mostrava l’alta levatura del Melegari.

Ho perduto il mio unico figlio Giuseppino il 20 febbraio 1880, all’età di 19 anni. Era buono, saggio, bello.

Dagli 8 a 13 anni fu messo nelle grandi preparazioni di Hoffwyl presso Berna e già a quell’età parlava il tedesco, l’inglese, il francese, lo spagnolo. Poi è passato a Lipsia a studiare le grammatiche. Da 14 a 15 anni imparò benissimo il greco e latino. A 16 anni aveva intrapreso lo studio delle lingue orientali. Era pianista, disegnatore e non aveva i vizi appartenenti alla maggior parte della gioventù del suo tempo. Era passato a Stuttgart, capitale del Würtemberg, nella Germania sud-occidentale, per il corso di scienze naturali.

Era stato 10 anni in Svizzera e Germania, sanissimo, robusto, mai ammalato. Era una perla di ragazzo, buono, saggio, studioso; era l’idolo mio e del paese mio; era la mia speranza, il mio tutto; aveva la stessa passione per la musica e la pittura di suo nonno Giuseppe.

Nell’inverno 1879-1880 a Stuttgart, gli eccessi del maltempo raggiunsero gli estremi. Peppino, era robusto quando fu colpito da una terribile polmonite e pleurite che in soli tre o quattro giorni lo spedirono al sepolcro. Io restai stupido. Con lui perdetti tutto, la famiglia, la consolazione della vecchiaia e rimasi solissimo.

Ho cercato la quiete dedicandomi alla beneficenza e le spese mi hanno sopraffatto. Ho cercato la calma e il conforto nella rassegnazione in Dio e nel tempo. Ho costruito un orfanotrofio di femminucce, cercando di sostituire l’eredità degli affetti con le orfanelle. Annesso all’orfanotrofio ho costruito pure un asilo di invalidi al lavoro, stabilimenti che mi sono costati circa mezzo milione di lire. Ho realizzato una palazzina dedicata alla sapienza recante in fronte Popularis Sapientiae Loculus, cioè luoghicciolo di popolare sapienza. In essa vi erano la biblioteca, i gabinetti di chimica e fisica, un osservatorio meteorologico, una legatoria tipografica e un museo di scienze naturali a decoro e utilità pubblica.

Quello che facevo non era un trastullo o un diletto personale, ma l’adempimento di un dovere religioso e civile.

In testa a tutte le mie opere stava scolpito a lettere cubitali: Il soverchio datelo ai poveri.

Ero socialista convinto, ma cristiano, un socialista solitario. Ammettevo prima Dio, poi la famiglia e le proprietà. In questa valle di lacrime piangevo, pregavo e pensavo, dopo la mia morte, di riunirmi alle mie amate creature, nel cielo, dove la morte è sbiadita per sempre e dove sono perpetui i gaudi delle anime riunite in quella eterna carità che riassume e concentra la famiglia, l’umanità e l’universalità di tutti gli esseri angelici in una cosa sola.

Il 24 maggio 1906 Girolamo Di Pasquale, nell’occasione che sua nuora andava a sgravarsi di un bambino, mi ha chiesto qualche culla, giustamente presupponendo che io ne dovessi avere ancora una.

Gli ho dato quella dove furono allevati i miei figli, tutta in rame, ancora bella e intatta.

Nel rivederla, si sono destate in me tante dolci emozioni.

Io serbavo questa culla come un caro ricordo di famiglia, che sarebbe stato trasmesso ai miei; ma, ohimé! non c’era più nessuno, tranne il ricordo.

Con me moriva ogni cosa. Dopo di me non esisteva più nessuno, che poteva essere attaccato alle reminiscenze familiari. Non c’era maggiore sventura che ricordarsi del tempo felice nella miseria.

I miei figli erano scomparsi. Da questo lato c’era la miseria.

Quanti ricordi mi ridestava questa culla! Aveva visto attorno a se tante feste, tante gioie, tanti veli e fiori. Poi i bambini che ci stettero dentro a vagire furono anzi tempo mietuti dalla morte e la culla restò deserta. Poi fu riposta e abbandonata in un angolo buio di un mezzo tetto cullando ragni e vestendosi delle loro tele.

 

Si legge nel fremdeubuch dell'istituto Emanuele Fellemberg di Hofwyl a Berna: Maggio 1873 - Giuseppe Mendola, originario della Sicilia, figlio di Antonio e di Rosalia Cafisi. Alunno esemplare e ben educato, di buona famiglia aristocratica della città di Favara (Girgenti). Motivato negli studi; sempre con ottimi risultati; di buon esempio per il suo comportamento nei confronti dei suoi compagni di scuola. Ha buoni contatti con tutti ed è molto stimato da tutti i suoi compagni di scuola. Dal punto di vista amministrativo la famiglia è stata sempre puntuale e gentile, rispondente sempre a tutte le nostre direttive. (Scheda gentilmente inviata da Berna dal prof. Antonio Sutera)