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Curiosità
di Carmelo Antinoro STORIE |
Indice 1 Un famoso pittore fra i dipinti del Palazzo Mendola 2 Ammoniti di 200 milioni di anni a Favara 3 Favara nella storia fra arte e massoneria 4 Massoneria a Favara e nell’agrigentino fra 1800 e 1900 5 Impressioni di un missionario redentorista nella Favara del 1762 6 S. Onofrio di Favara una chiesa divenuta macelleria 7 Reliquie sante al Purgatorio di Favara 8 La rinomata caffetteria "Umberto" di piazza Cavour 9 Garibaldini favaresi 10 Suppliche al Duce per confinati 11 Favara nei moti del 1411 12 Assassinio nella chiesa madre 13 Nel 150.mo anniversario dell'unificazione dell'Italia: “Li mii priggiuni” Settemmiru 1863 14 Memoria di un turbine a Favara 15 Scomparso in mare 16 La cisterna dei morti di colera in piazza d'Armi 17 Il cimitero sotto la madrice di Favara 18 Opunzie galeotte 19 Prima automobile a Favara 20 Le ossa dei colerosi sotto l’usbergo dei frati Minori 21 Dall'assedio di Famagosta a Favara 22 Ex feudo Deli, natura incontaminata? 24 L'antica pescheria che non c'è più 25 Il Milite Ignoto ha un nome 26 Note di una passeggiata ciclistica nel 1898 27 Storie dimenticate 28 Radio Faracia a Favara negli anni “70: una voce fuori dal coro
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1 - Un famoso pittore fra i dipinti del Palazzo Mendola
Quando circa due anni fa, trovandomi a disquisire telefonicamente col sindaco di Caluso (TO) sull’autoritratto di Giuseppe Falchetti ubicato nella stanza del primo cittadino del palazzo municipale di quella piccola comunità piemontese, dissi che quel famoso pittore ha lasciato una inedita orma della sua arte a Favara, rimase di sasso. Ebbene si, fra i dipinti che adornano le sale del Palazzo Mendola (oggi Palazzo di Città) di Favara, c’è Giuseppe Falchetti, il famoso pittore di paesaggi e nature morte, nato a Caluso nel 1843, morto a Torino nel 1918. G. Falchetti fu allievo di G. Camino e maestro del figlio Alberto. Le sue opere sono conservate presso il Museo Civico di Torino e in molte collezioni pubbliche e private italiane ed estere. Ma perché Giuseppe Falchetti si trovava a Favara e, soprattutto, dove, perché e in quali termini ha lasciato una sua traccia nel palazzo che diede i natali al barone Antonio mendola? Per dare una risposta a questa domanda dobbiamo andare indietro nel tempo di oltre 120 anni, quando, intorno al 1886, il Ministero dell’Agricoltura ha mandato in Sicilia questo pittore per disegnare le principali uve della nostra isola, al fine di redigere un catalogo. Il barone Mendola accolse Falchetti in casa sua senza alcun obbligo e lo mantenne per circa tre mesi. In questo periodo il barone stava facendo decorare alcuni soffitti delle stanze del secondo piano dal pittore adornista favarese Vincenzo Indelicato, a dire dello stesso barone, bravo artista, ma pessimo uomo, birbante e ingrato, vile e timido come un coniglio e Dio lo tenne povero e pazzo. L’Indelicato aveva fatto i primi lavori artistici per conto del barone, dipingendo dapprima le volte della villa Piana e poi anche nel suo loculus popularis sapientiae (di cui non è rimasta traccia) e lo pagava lautamente. Fu in questa occasione che Giuseppe Falchetti strinse amicizia con Indelicato. Un bel giorno, mentre quest’ultimo decorava la volta dello scrittoio del barone, il Falchetti salì sul ponte e dipinse quattro medaglioni. Il barone credeva che lo facesse per carezzare l’amico, il collega in arte Indelicato (che trascinò con se a Torino) e invece il birbone, poco prima di partire per Torino, da buon tirchio piemontese, volle pagati quei disegni per 150 lire (circa 600 euro attuali). Per ragioni di dignità e decoro il barone Mendola pagò quanto chiesto, ma fece cacciare Falchetti dal Ministero (il barone era uno dei membri più accreditati della commissione antifillossera in seno al Ministero dell'Agricoltura e Industria). Il barone cercò di levare qualche cosa all’Indelicato, ma questo diventò un demonio e incaricò un avvocato per tradurre in giudizio il povero barone. Dopo il trentennale abbandono da parte del Comune di Favara i dipinti, soprattutto quelli del secondo ed ultimo piano, hanno subito gravi danni a causa dell’acqua meteorica. Dei quattro medaglioni di Falchetti, due sono andati perduti, un terzo è rimasto gravemente danneggiato, mentre il quarto (v. foto), fortunatamente, ha subito pochi danni. L’elegante medaglione, riportante scene di putti su campitura ovoidale, è inscritto in un cartiglio legato a motivi floreali, il cui candido colore bianco spicca grazie alle decise pennellate chiaroscurali che ne esaltano i motivi, facendoli sbalzare decisamente fuori dal fondo aureo.
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Tav. VI
Tav. VII
Tav. VIII
Tav. IX
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2 - Ammoniti di 200 milioni di anni a Favara (col contributo del geologo Giuseppe Presti)
Il museo Gemmellaro, sezione del Dipartimento di Geologia e Geodesia di Palermo (sito in Corso Tukory, 131) raccoglie una buona quantità di ammoniti del Giurassico (205-135 milioni di anni fa), fra cui alcune provenienti dalla contrada Burgelamone (molto probabilmente dalla zona più recentemente urbanizzata, immediatamente a valle dell’inizio di via A. Moro). In particolare, le varietà riportate nella foto sono state ritrovate tra il 1868-1872. Durante il Giurassico il supercontinente Pangea iniziò a frantumarsi e la parte settentrionale si separò da quella meridionale. L’Australia e l’Antartide si staccarono dal Sudamerica e Africa e il mare s’incanalò tra Europa e Asia. Questa avanzata dei mari determinò un’esplosione di forme di vita marina e in particolare delle Ammoniti, evolutesi dai cefalopodi a spirale e diventate predatrici. Le loro conchiglie vuote ricoprirono vastissime aree del fondo marino e queste, fossilizzandosi formarono vere e proprie rocce. Le Ammoniti avevano la conchiglia a forma di spirale con notevoli camere ripiene di gas che garantivano la galleggiabilità. Erano dotate di tentacoli per catturare le prede e dal sifone, un organo piegato a tubo che aveva in compito di motore propulsore, con il quale l’animale, pompando acqua si muoveva. Sono stati gli invertebrati marini più efficienti fino all’epoca dell’estinzione dei dinosauri, 65 milioni di anni fa.
Le tavole sopra riportate fanno parte del volume "Tavole" Sopra alcune faune giuresi e liasiche della Sicilia - studi paleontologici di Gaetano Giorgio Gemmellaro, Regione Siciliana, Ass.to Reg.le BB. CC., AA. e P. I., Dip.to BB. CC., AA. e Educaz. Perm.te, ristampa, 2007. |
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3 - Favara nella storia fra arte e massoneria
Nel 1867, ritornati in Favara i garibaldini dal Tirolo, cominciò a sorgere un nucleo massonico importato da quei volontari: Giovanni Lombardo, Nicolò Costanza, Antonio Butticè e Gaetano Montalbano, a cui si unirono altri parecchi individui e studenti. Ispirati da principi repubblicani di illustri personaggi del risorgimento, nacquero in Favara le prime logge massoniche fra cui: “Aurora”, “Vita nuova” e “Vespro”, quest’ultima con Maestro Venerabile Gaetano Mendola (fratello del più noto filantropo, ampelografo ed antimassone barone Antonio). Sembra strano, ma l’illustre barone antimassone Antonio Mendola (all’età di 32 anni) incontrò il massone Garibaldi (all’età di 53 anni) in Palermo nel 1860, precisamente a Porta Nuova, allora appendice del palazzo reale borbonico. Il barone ne ricevette una impressione meravigliosa e, come lui stesso ha scritto si trovò innanzi ad un bell’uomo, biondo, proporzionato di corpo, con sguardo dolcissimo, accompagnato da soave leggero sorriso, capelli lunghi sulle spalle e biondi, barba pure bionda, non lunga. La sua camicia larga a collare svoltato, a lunghi polsi, a maniche goffe, rossa del colore del fuoco, del colore repubblicano. Aveva un fazzoletto annodato nelle punte sotto il collo, pendente dietro la spalla, larghi pantaloni chiari ed una corta spada al fianco che davano un qualcosa di speciale a quest’uomo predestinato. Sono stati otto giorni assieme ed in questo breve tempo il generale si accorse della lealtà del barone Mendola. Garibaldi era buono oltre modo e in molte cose si consigliava col Mendola. In realtà il barone Mendola sconosceva Garibaldi come massone e, a sua volta, Garibaldi sconosceva il Mendola come antimassone, eppure fra loro è nato subito un rapporto di stima e fiducia reciproca, perché? La verità stava nel fatto che il Mendola che si dichiarava antimassone, intimamente era vero massone, molto più di quanto poteva esserlo suo fratello Gaetano e, non era un caso che essendo uomo politicamente democratico-socialista gli organi di Pubblica Sicurezza lo consideravano (il barone forse non è venuto mai a conoscenza) un potenziale soggetto trascinatore contro l’allora imperante monarchia. Non mancarono contatti fra le logge di Favara e l’eroe dei due mondi e gran maestro della massoneria italiana del Grande Oriente d’Italia Giuseppe Garibaldi. In una affettuosa lettera dallo stesso inviata il 29 agosto 1869 da Caprera ai fratelli della “Vita nuova” di Favara, diceva di come la Massoneria, vecchia matrona repubblicana della libertà, della fratellanza umana e del vero, con un solo onnipotente, in quanto sistema normale degli onesti, non poteva astenersi dalla politica. Prova testimoniale, ancora oggi, di questi rapporti di affettuosità intercorsi fra Garibaldi e Favara è un suo meraviglioso ritratto del 1885 del pittore Eugenio Perego (Milano 1845 - 1923), impreziosito da una artistica cornice in legno intagliato dello scultore palermitano prof. Salvatore Valenti, commissionati dal Comune di Favara rispettivamente nel 1882 e 1887 sotto la sindacatura del dottore Antonio Valenti, non a caso massone.
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4 - Massoneria a Favara e nell’agrigentino fra 1800 e 1900
Le informazioni sulla massoneria storica dell’hinterland agrigentino che si possono ricavare dai documenti dell’archivio di Stato sono da ricercare soprattutto fra la corrispondenza che il Ministero dell’Interno teneva col Prefetto e, secondo l’ordine gerarchico, con l’ispettore e delegati di P. S. dei vari Comuni. Lo scopo, come facilmente intuibile, era: mantenere l’ordine delle cose e dello Stato monarchico. Facendo riferimento ad alcune lettere si evince che nel 1868 le associazioni esistenti e conosciute nel circondario di Girgenti (ora Agrigento), comprese quelle massoniche, erano otto, delle quali quattro in Girgenti, dove si contavano due logge massoniche, una società segreta detta “I seguaci di Dante” quasi esclusivamente composta da giovani studenti ed una di mutuo soccorso, di operai, detta “Società degli operai”. La loggia matrice di Girgenti aveva come maestro venerabile (M. V.) il medico Cognata. L’altra loggia era “La nuova vita” col medico Sajeva come M. V., succeduta a “La Mariannina”. Le altre logge massoniche erano presenti nei seguenti Comuni: Grotte (col M. V. Simone Vincenzo, Licata, Racalmuto (col M. V. Gioacchino Savatteri), Naro (col M. V. marchese Specchi). Fin dal 1864 in Favara si cercò di stabilire una società di mutuo soccorso fra operai, col programma di escludere nelle loro riunioni qualunque discussione politica. Detta società pare avesse avuto origine da quella segreta omonima del capoluogo “I seguaci di Dante”, ma ebbe vita breve. Nel 1867, ritornati i garibaldini dal Tirolo, cominciò a sorgere un nucleo massonico importato da quei volontari: Giovanni Lombardo, Nicolò Costanza, Antonio Butticè e Gaetano Montalbano, a cui si unirono altri parecchi individui e studenti, fra cui Angelo Pardo e Francesco Caruana, Dietro questa prima loggia stabilita sotto le ispirazioni del Campanella e diretta dai programmi di Giuseppe Mazzini, di principi repubblicani, prese il nome di “Aurora”. Immediatamente dopo ne sorse un’altra che prese il nome di “Vespro”, alla cui testa c’era il M. V. Gaetano Mendola (fratello del noto filantropo barone Antonio), pure ispirata al Campanella, ma ligio al programma di Mazzini. Quest’ultima loggia, composta in parte da benestanti senza particolari finalità politiche, quantunque dalla parvenza politica, nacque per spirito di partito municipale, per ottenere il dominio e la supremazia negli affari del Comune. Di questa loggia fecero parte i pretori Russo e De Giulis che la fortificarono con circa 200 adepti, ma per contrasti interni finì con lo sciogliersi. Nel frattempo, a seguito di alcuni disordini accaduti a Grotte, la polizia perquisiva, nei propri domicili, alcuni membri della loggia “Aurora” di Favara, come complici e partigiani dei repubblicani di Grotte. Da queste persecuzioni ne successe uno sgomento nelle fila di entrambe le società. Nello stesso tempo cominciarono alcuni screzi interni per l’introduzione di membri ritenuti indegni. Dopo un paio di anni le due logge “Aurora” e “il Vespro” si sciolsero. Nel corso della prima metà del 1900 due logge primeggiarono in Favara: la “Risorgimento” attiva fra il primo e il secondo decennio, e la “Giuseppe Petroni (gran maestro del Grande Oriente d'Italia)”, più corposa e longeva rispetto alla prima ed attiva fra il primo ed il terzo decennio del 1900. Le due logge raccoglievano adepti nella media-alta borghesia favarese. Al loro interno vi furono avvocati, veterinari, un segretario comunale, un vice segretario comunale, insegnanti, ragionieri, geometri, periti e impiegati del Comune, possidenti, impresari, agrimensori, medici, ingegneri, farmacisti, sarti, etc. Fra questi: Calogero Marrone morto nel campo di concentramento di Dachau nel 1945.
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5 - Impressioni di un missionario redentorista nella Favara del 1762 (Estratto da una lettera del p. redentorista Domenico Caputo in missione a Favara nel 1762 ad Andrea Villani a S. Angelo a Cupolo (BN) pubblicata nel libro "Lettere dalla Sicilia a S. Alfonso - Introduzione trascrizione note di Salvatore Giammusso, Romae 1991, Collegium S.Alfonsi de Urbe" - inviata da Giovanni Scicolone da Agrigento)
… Noi padre nostro caro siamo nella missione di Favara, terra di ottomila anime, distante da Girgenti 4 miglia. … La chiesa madre è piccola e puzzolentissima, il popolo di buona indole, frequenta poco i sacramenti, però rispetto alla terra di lavoro, alla Basilicata e alla Calabria, ci sono meno vizi e peccati. L’arciprete non ha ostacolato la missione per l’orario. La gente è povera. Tra il clero alcuni sono comodissimi, altri campano poveramente. Qui ha predicato la sera nella matrice il p. Perrotta e sebbene sul principio non si fosse empita la chiesa, poi s’è veduto un concorso straordinario da che s’è incominciato a predicare più notte. Qui, al contrario di Casteltermini, abbiamo avuto un arciprete secundum cor nostrum, che non ci ha impedito il finir la missione sino alle due ore. … Il popolo è di bonissima indole, d’umor sanguigno, allegra e capace. Ma è affatto bandita la frequenza dé Sacramenti, causa per cui il vizio trionfa. Mancanza, per quanto vado a congetturare proveniente per non curanza del popolo e per lo poco zelo dé confessori. È una pietà il sentire: padre, da Pasqua non mi son confessato. E ciò senza iperbole si sentirà le venti, venticinque volte la mattina. … Qui è quel paese simile a quelli in cui v’è poca divozione al Santissimo Sacramento, perché rare volte si comunicano, mai ordinariamente lo visitano, mai l’accompagnano agli infermi. Ognuno pertanto secundum vires suas si è impegnato propagarla. Il Signore faccia a gloria sua e per bene delle anime riuscire la nostra buona intenzione. La chiesa matrice rispetto al popolo è assai poco capace, umida in una delle navi e pozzolentissima perché le fosse sono piene e son costretti a pestare con pali i già sepolti per seppellire quelli che muoiono. … Tra gli ecclesiastici poi ci sono persone comodissime, perché ben provveduti di benefici; ma quelli che ne son privi e non hanno del proprio campano poveramente ...
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6 - S. Onofrio di Favara: una chiesa divenuta macelleria
C’erano quattro chiese nella piazza Cavour di Favara: due ancora esistenti, cioè quella di S. Rosalia (o Purgatorio) il cui primo impianto risale al 1626 e quella del SS. Rosario, già esistente nel XVII sec. e ricostruita negli anni 1705-1711; due non più esistenti, cioè quella dei SS. Cosimo e Damiano (di diritto e patronato dei marchesi di Favara), esistente nel XVII sec. fino alla fine del 1700, all’angolo fra via Rosario e piazza Cavour e quella di S. Onofrio o della Grazia del Vullo (o Gullo), in vita nel sec. XVII fino alla seconda metà del 1800. Questa chiesa si trovava all’inizio dell’attuale via Belmonte (anticamente via dell’Ospizio, per la presenza di un piccolo ospizio di frati francescani attaccato alla stessa chiesa). Nella seconda metà del 1800, molto probabilmente dopo la eversiva legge che ha dato origine all’incameramento di molti beni ecclesiastici al demanio dello stato, la chiesa di S. Onofrio, con atto pubblico, è entrata nel possesso del Comune di Favara. Per alcuni anni la chiesa è stata utilizzata dal Comune come magazzino; qualche volta all’interno è stato allestito un teatrino. Alla fine dell’800 si parlava di un progetto da parte del Comune per la trasformazione in teatro comunale, ma la cosa non ebbe seguito. Tra la chiesa del Purgatorio e l’ex chiesa di S. Onofrio don Ciccio Albergamo possedeva un palazzo (ancora esistente) che utilizzava come caffetteria e dolceria, oltre che per abitazione. Alla fine del 1905 l’Albergamo ha comprato la ex chiesa di S. Onofrio e le susseguenti case di Dejure (già ospizio di frati francescani) con l’intenzione di accorparli al suo palazzo, per ricavarne un albergo e ristorante. Nel 1907 ha realizzato una caffetteria sontuosa e di lusso e la zona d’ingresso sulla piazza l’ha impreziosita con decorazioni in legno verniciato nero su cui ha fatto collocare una tabella con la scritta “Caffè Umberto” con lettere modellate in cristallo dipinte. Un’altra tabella ancora riportava la scritta "Francesco Albergamo e figli - liquori e dolci - premiata specialità cassata siciliana". L’ingresso dell’esercizio era un bel vedere e assomigliava alle belle insegne delle grandi città. Alla fine dell’estate del 1907 il dolciere Francesco Albergamo cominciò a fare demolire le fabbriche della ex chiesa di S. Onofrio e dell’antico ospizio dei cappuccini. Nella seconda metà di ottobre la cuspide e la grande porta del prospetto, che ancora si leggevano, vennero completamente cancellate e al piano terra furono inserite due porte ad arco a sesto ribassato (vedi foto allegata). Una chiesa, sebbene da anni sconsacrata e distolta dal culto spariva. Oggi in quel sacro luogo caduto nell’oblio c’e una macelleria, quasi a rimembrare metaforicamente, che fu luogo d’adorazione di un dio fattosi carne.
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7 - Reliquie sante al Purgatorio di Favara
La domenica del 27 luglio 1903 nella chiesa del Purgatorio di Favara c’è stata una rissa di popolino, per lo più donnicciole, che si accalcarono per vedere un corpo santo, miracoloso, che, secondo le dicerie, toccandolo mandava sangue fresco dopo secoli di cadaverazione, ed ogni persona aggiungeva uno sproloquio, una ciarlataneria per tramandare e riferire agli altri la cosa. Ma di cosa si è trattato realmente?. Intorno alla metà del 1700 mons. Castaldi, vescovo di Cefalù, donò al suo amico beneficiale della chiesa di S. Rosalia (detta del Purgatorio) di Favara una reliquia col busto e le ossa della gabbia toracica di una giovane martire, con un pezzo di biancheria intriso del sangue della stessa vergine santa. Fu riconosciuta autentica nella visita vescovile da mons. Granata e dal favarese Giosuè Licata canonico decano della cattedrale di Girgenti mentre funzionava da vicario capitolare in sede vescovile vacante. Dette reliquie vennero poi riposte sotto un altare, senza indicazioni e per molti anni il tutto cadde nell’oblio, fino a quando, insediatosi, nel giugno 1903, il nuovo beneficiale sac. Antonino Sutera, nel rassettare la chiesa, le rinvenne all’interno di un’urna di legno e vetro. Ma a chi appartengono quelle reliquie?. Le reliquie appartengono a Santa Faustina martire (da non confondere con Santa Faustina Kowlaska, proclamata santa da Papa Giovanni Paolo II). Di una martire di nome Faustina, venerata in Roma, si conosce solamente un documento risalente a Sergio I (687-701), il cui corpo fu estratto dal cimitero di S. Callisto a Roma. Conosciamo l’esistenza di un Oratorio a Lei dedicato al XII miglio della Via Latina: S. Maria del Popolo, dove si conservano i resti che furono posti nell’altare in occasione dell’ampliamento della cappella che ospita il cardinale Alderano Cybo. Fu il cardinale vicario Gaspare Carpegna a donare, il 13 ottobre 1686, al cardinale Cybo il corpo della martire. La chiesa di S. Maria del Popolo deve il suo nome ad un’originaria cappella eretta da papa Pasquale II (1099-1118) per celebrare la liberazione del Santo Sepolcro a opera dei crociati nel 1099, a spese del popolo romano, anche se un’altra tradizione vuole sia in rapporto al sepolcro familiare dei Domizi, dove era sepolto Nerone, il cui fantasma infestava la zona, bonificata solo con la creazione della chiesa. Di papa Sergio I si possiede il catalogo di una donazione di vari beni immobili, dove si afferma che, fra gli altri doni, fu concesso un fondo, esistente presso l’oratorio di S. Faustina, posto circa al XII miglio della via Latina. Ciò indica che alla fine del sec. VII vi era nella località un culto per questa santa. Nel Martirologio Geronimiano, al 9 luglio, sono commemorate una vergine Faustina e compagne. Mancano, tuttavia, prove per affermare che si tratti della Faustina del XII miglio della via Latina. De Rossi e, più tardi, Grossi-Gondi opinano che la santa del catalogo di papa Sergio fosse una martire locale deposta nel piccolo cimitero di Grottaferrata posto al X miglio; il Delehaye però giudica l’ipotesi non sufficientemente provata. Reliquie di S. Faustina si trovano anche a Camerano, dove, nel sec. XVIII, a seguito del restauro, il Maratti vi trasferì le spoglie della santa e da qui il nuovo titolo assunto dalla chiesa, che dai Cameranesi è oggi conosciuta come chiesa di S. Faustina. Nell’urna è racchiusa una piccola lapide che porta inciso il nome di Faustina, anch'essa proveniente dalle catacombe romane. Nel 1798 il beneficiale della chiesa del Purgatorio di Favara sac. Pasquale Mulè ha fatto riporre le reliquie in un’urna di legno e vetro realizzata dal mastro falegname Stefano Montalbano. La cassa toracica della santa è stata ricoperta di cera e completata con testa e mani, anch’essi di cera, comprati a Girgenti, oltre ad un drappino di veste, il tutto come oggi possiamo ammirare all’interno della chiesa del Purgatorio di Favara, sulla finestra cieca sopra la porta d’ingresso (v. foto). Nell’iconografia agiografica Santa Faustina viene rappresentata con un giglio, come appare nell’opera di Antonio Fedi “I Santi Paolo e Faustina” del 1798.
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8 - La rinomata caffetteria "Umberto" di piazza Cavour
Fra le dolcerie e caffetterie esistenti a Favara tra la seconda metà del 1800 e la prima metà del 1900, la più rinomata è stata quella di don Cecè (Francesco) Albergamo (n. 1837 – m. 1911) di mastro Vincenzo e Maria Teresa Maniscalco, probabilmente di Caltagirone. Era denominata “Caffè Umberto” ed era ubicata in piazza Cavour, confinante ad est con la chiesa del Purgatorio, ad ovest con la via Belmonte e a sud con con l’antica chiesa di S. Onofrio (o di Maria SS. Del Vullo – o del Gullo, a cui era pure attaccato l’ospizio dei cappuccini. Non era un caso se prima di prendere il toponimo Belmonte, la via era chiamata “dell’Ospizio”. Sul finire del 1800 a Favara, i negozi, gli spacci pubblici, lentamente andavano risentendo la spinta del progresso; si miglioravano, si vestivano a lusso. Fu così che nel 1899 Cecè Albergamo ha rinnovato la caffetteria oltre che nelle finiture interne, anche nei mobili, grazie all’intervento del cognato falegname mastro Antonio Amico “Duca”. Nel 1900 Cecè Albergamo, quasi per incanto, ha innalzato per intero il terzo e più alto quartierino sulle sue case in piazza, completando anche la facciata del palazzo sul lato principale prospiciente la piazza, ad opera di mastro Ciccio Russello, genero prediletto di mastro Giuseppe Amico “Passareddu”, che realizzò varie opere in pietra da taglio per diverse cappelle gentilizie nel cimitero di Piana Traversa. Lo stile e i colori della facciata sono stati scelti dal pittore Vincenzo Indelicato. Gli elementi ornamentali sono quelli ancora esistenti, mentre i colori, ormai sbiaditi dal tempo (ma in alcuni casi ancora visibili) erano come “carne morta” per il fondo e giallo sabbia per gli ornati. Le tinte, poi, delle imposte erano color rosso sporco, mentre gli sportelli che chiudevano i cristalli erano di colore paglierino carico, quasi canarino. Le tinte dei balconi e delle porte, pare siano state dirette dal fotografo Ciccio Maniglia. Nel 1902 Antonio Parlato ha messo su una bottega di lusso, di dolci e liquori nel corso Vittorio Emanuele o “strada nuova”, al quadrivio, discesa badia, provocando invidia e timore in Cecè Albergamo. Nel 1903 Cecè Albergamo col figlio Vincenzo hanno messo su anche un ristorante, pubblicizzandolo oltre che con manifesti murali, anche con migliaia di foglietti. Cecè Albergamo, a forza di vendere dolci e rosoli, nonostante la numerosa famiglia mantenuta piuttosto con lusso, si è arricchito, tanto che ha comprato dal Comune la ex chiesa di S. Onofrio e le susseguenti case di Dejure. Nel 1907 Cecè ha fatto eseguire altri lavori dentro il suo Caffè “Umberto” e anche all’ingresso con una struttura in legno verniciato nero. Voleva fare un caffè sontuoso e di lusso, grandioso e cittadino, per non farsi vincere dall’altro caffè in testa alla stessa piazza, sotto il casino di compagnia, un tempo del suo emulo rivale caffettiere Luciano Piscopo e da poco da costui ceduto, unitamente all’esercizio dei tabacchi, a Calogero Maniglia. Il caffè elegante sia dentro che fuori lo rese ancora più ricco di assortimenti: liquori, biscotti, confetti, dolci, cioccolati, cacao, rosoli fra i più rinomati italiani ed esteri. Il Maniglia ha rifatto la facciata, ha messo a nuovo il suo caffè e si è messo a fare ristorante e pure gelati in estate. Albergamo lo voleva vincere non solo nei prezzi, nella bontà e quantità delle cose smerciate, ma anche nella sontuosità ed appariscenza del locale. Calogero Maniglia ha inaugurato, rimettendolo a nuovo, l’ex caffè Piscopo, con facciata color bruno e presso il cantone della piazza Cavour ha collocato una tabella con la scritta “Caffè Savoia”. Nel 1907 il dolciere Albergamo ha cominciato a demolire la ex chiesa S. Onofrio e su di essa e sull’area dell’antico ospizio dei cappuccini, ha deciso di fabbricare un bello hotel con ristorante e gran sala da pranzo. Erano miglioramenti che giovavano alla famiglia Albergamo e al paese, ma scompariva un monumento, un pezzo di storia di Favara. La stella della fortuna di Albergamo raggiungeva l’apogeo, mentre quella di Luciano Piscopo si eclissava. Il paese di Favara già contava oltre 20.000 anime, lamentava la fame: ma poi mangiava tutto. Uno dei dolci tipici venduti maggiormente in Favara, soprattutto per Carnevale, era il cannolo. Ne faceva e ne vendeva a Favara il dolciere Luciano Piscopo e molte famiglie per uso proprio. Frattanto il solo Albergamo nell’ultimo giorno del carnevale 1901 ne vendette 500 lire di cannoli, a 25 centesimi per ognuno. Favara, nonostante la lamentata povertà o scarsezza del dio denaro, spendeva e mangiava bene. Questo consumo di dolci giovava certo all’Albergamo. Il popolo favarese era festaiolo e prodigo; forse voleva annegare i guai che soffriva nel brio della festa. Anche per le feste tradizionali e popolari, la caffetteria Albergamo veniva presa d’assalto, non ci si poteva accostare. Per la festa di S. Giuseppe si riempiva piena zeppa di persone in piedi dentro e accalcate fuori. Il gelato andava a ruba; ma nei casi di maggiore richiesta non era vero gelato; era più acqua mecherata e densa che quasi strideva tra i denti. Cecè Albergamo faceva pure molta “cubaita”, parte di mandorla, parte di nocciola e parte mista. Anche Luciano Piscopo teneva folla, ma non quanto l’Albergamo; forse riceveva il rifiuto del primo. Il popolo, tutto mangiava, tutto prendeva, spensierato, non curante del domani. Per Natale il dolciere Albergamo faceva la sua grande esposizione di dolci illuminata ad acetilene, tenendo occupata la folla davanti la vetrina, soprattutto i bambini e i fanciulli che guardavano stupefatti e non sapevano distaccarsene. C’era il ben di Dio: dolci d’ogni fattura, forma e colore. Per Natale c’era la cosiddetta cena o frutti di martorana e la collezione di pupi, gettati a stampo di zucchero, leggermente acidulato, vuoto di dentro, di svariate forme. I frutti di “martorana” hanno preso questo nome perché da secoli, in Palermo erano celebrati e conosciuti quelli che facevano le monache della badia della Martorana. L’altro dolciere, don Luciano Piscopo aveva pure la sua esposizione, ma modesta, poco frequentata e vendeva i suoi dolci dopo che erano finiti quelli di Albergamo. La gente, che andava a comprare i dolci nel negozio di Albergamo, formava una continua processione. Albergamo riusciva a vendere quasi tutta la roba che disponeva; anzi, cominciava nel suo laboratorio a fare altri dolci da potere supplire e bastare alle continue domande. Nel suo negozio la gente rigurgitava notte e giorno. La fortuna aveva messo là il suo stallo e don Luciano vedeva con gli occhi propri questi fatti e forse ne gemeva internamente.
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Giuseppe Garibaldi |
9 - Garibaldini favaresi
Le rivolte antiborboniche ed autonomistiche siciliane del 1812, 1820 e 1848 avevano fatto maturare tra i patrioti siciliani l’idea dell’unità d’Italia. Fu lo statista riberese Crispi che, rientrato in Piemonte dopo un soggiorno a Londra, dette l’idea a Garibaldi di uno sbarco in Sicilia, peraltro incoraggiato segretamente dal Cavour. Fu così che venne organizzata la spedizione dei Mille e avrebbe dovuto avere come scenario le coste agrigentine di Sciacca; ma per la presenza a Marsala di alcuni vascelli da guerra inglesi, che impedirono alle artiglierie borboniche di aprire il fuoco sui due vapori savoiardi, lo sbarco avvenne in quel porto l’11 maggio 1860. La notizia dello sbarco si diffuse in tutta la Sicilia e numerosi “picciotti” partirono dai loro paesi per arruolarsi nelle file delle Camicie rosse. Dopo la presa di Palermo una colonna, comandata da Nino Bixio, si diresse verso Girgenti, passando per Favara il 13 luglio 1860. Come per altri luoghi, anche a Favara una manciata di giovani sentì l'ardore garibaldino di libertà e fra questi: Giuseppe Arnone, Nicolò Balistreri, Antonio Butticè, Antonio Castellana, Nicolò Costanza, Salvatore Indelicato, Giovanni Lombardo e Gaetano Montalbano. Tuttavia non sono da escludere altri coraggiosi, visto le labili tracce storiche a noi pervenute. Nelle battaglie condotte da Garibaldi, fra i volontari arruolati, il più vecchio aveva 69 anni e il più giovane 11 anni e combatteva assieme al padre.
Arnone Giuseppe (☼ 20 2 1834 † 19 4 1900) Primo dei dieci figli di Luigi (aromatario) e Filippa Vita. Nel 1838 la famiglia abitava in via S. Vito, 2. Perito agrimensore, fece pochi studi di giurisprudenza in Palermo, dove si collegò coi repubblicani e fu avverso ai borbonici ed ai clericali. Tuttavia non dimostrò inclinazione per le dimostrazioni di piazza. Tra i mesi di settembre e ottobre 1860 pare abbia combattuto a Maddaloni. Nel 1873 il delegato di P. S. lo ha inserito nell'elenco degli individui avversi all'ordine delle cose per le sue idee e perché influente nella classe del popolo minuto, di cui ne era spesso il conciliatore. Tuttavia (come si evince nello stesso verbale) Giuseppe Arnone era stimato in paese e non pericoloso. Il barone A. Mendola ha scritto nei suoi diari: Sabato 20 aprile 1900 - Ieri è morto Peppino Arnone, poverino!, non compianto, non assistito bene!, così finiscono i soli. ... amico di giovinezza mia, viveva da tempo concubinato con Luzza Cardonello per parte di madre. Galluzzo Antonio era suo padre. Oggi si è sposata in matrimonio segreto. Egli è uscito dal mondo senza biasimo e senza lode. 26 aprile 1900 - Rosa Carbonella, moglie di Antonio Galluzzo, è venuta a chiedermi qualche cosa perché sua figlia Calogera per molti anni druda del Peppino Arnone che la sposò sul letto di morte, lampisce di miseria con un bambino lattante. Don peppino non le potè lasciare nulla, avendo donato tutto ai suoi parenti. Le ho dato 5 lire.
Balistreri Nicolò (☼ 22 7 1836 † 14 10 1922) Primogenito di sette figli di Salvatore (contadino) e Vita Fanara. Nel luglio del 1860 combattè a Milazzo contro le truppe borboniche. Era gabelloto di zolfare e nel 1861 a Favara sposò Rosa Serio, da cui ebbe cinque figli. Il Comune di Favara ha tributato una via a questo personaggio.
Butticè Antonio (☼ 3 2 1848 † 6 10 1902) Quartogenito di otto figli di Gaetano (sarto) e Giuseppa Calzarano. Nella terza guerra d'Indipendenza partecipò, in Trentino, il 21 luglio 1866, alla battaglia di Bezzecca. Per coraggio e furia combattiva nella battaglia venne decorato con medaglia d'oro. Visse e lavorò a Favara come sarto e sposò Anna Lentini nel 1876. Il delegato di P. S. l'aveva inserito nell'elenco degli individui avversi all'ordine delle cose, in quanto repubblicano, influente nella classe degli operai e pericoloso ad ogni occasione. Fu un anticlericale tollerante. Nel 1867 venne arrestato in Favara d'ordine della Prefettura, come mestatore e pericoloso all'ordine pubblico. Fece parte della Loggia Massonica Aurora e fu tra i fondatori del circolo mazziniano Pensiero ed Azione assieme a Giovanni Lombardo, Angelo Pardo e Antonio Patania. L'iscrizione nella lapide al cimitero di Piana Traversa riporta: Antonio Butticè fu Gaetano 3 febbraio 1848 - 6 ottobre 1902 furono la sua costante fede Patria Lavoro e Famiglia, cui consacrò tutti gli affetti della vita. Milite della libertà, valorosamente combatté con Garibaldi nel 1866. Il Comune gli ha dedicato una strada fra la via Luigi La Porta e via delle Fonti.
Castellana Antonio (☼ 4 1 1847 † 21 4 1919) Primogento di otto figli di Pasquale (calzolaio) e Francesca Imbergano. Nella sua lapide, al cimitero di Piana Traversa si legge: Seguì Garibaldi nelle sue gloriose gesta. Per il suo coraggio fu nominato u Valurusu. Nel 1873 sposò Raffaela Salvo Nel 1874 dal Comune di Favara fu nominato insegnante di seconda classe nelle scuole serali . Il Comune gli ha tributato una via nel quartiere Giarritella.
Costanza Nicolò (☼ 3 8 1844) Terzultimo genito di undici figli di Angelo (possidente) e Rosalia Montalbano (figlia del notaio Nicolò). Guardazolfare; Fu tra i combattenti a Bezzecca, il 21 luglio 1866. Al suo ritorno a Favara si iscrisse con altri ex garibaldini alla loggia massonica Aurora, di ispirazione mazziniana. Il delegato di P. S. l'aveva inserito nell'elenco degli individui avversi all'ordine delle cose, in quanto internazionalista. Il Comune gli ha dedicato un vicolo nella salita S. Vito.
Lombardo Giovanni alias Basicchio (☼ 24 12 1847 † 23 12 1902) Terzogenito di cinque figli di Basilio (possidente) e Giuseppa Belmonte; cugino di primo grado del barone Antonio Mendola per via della zia materna Maria Antonia Mendola. Compì i suoi studi nel seminario di Girgenti, essendo il pensiero dei genitori di volerlo destinare alla professione di prete. Nel 1866 seguì Garibaldi fino al Tirolo e fu tra gli eroi di Bezzecca. Al suo ritorno a Favara importò idee repubblicane. Si ispirò a Mazzini e fece parte della loggia massonica Aurora, partecipando attivamente ai fermenti politici del paese. Nel 1873 risultava inserito nell'elenco degli individui avversi all'ordine delle cose, in quanto repubblicano, con idee avverse alla religione, pericolosissimo all'opportunità. Nel 1881 sposò Anna Dulcetta da cui ebbe sei figli. Il barone Mendola nei suoi diari ha descritto il cugino Lombardo come uomo prodigo, folle, nemico ostinato e feroce di sé medesimo. In pochi anni ha dato fondo al suo ricco patrimonio, compresa la casa d'abitazione. Prima di morire volle i sacerdoti, abiurò le sue eresie, confessò i propri peccati, tolse dal capezzale i quadri di Garibaldi e Mazzini, sostituendoli col Crocifisso e la Madonna. Restarono, però, una vedova e sei figli da sfamare, senza casa e avvenire. Il Comune gli ha dedicato un cortile sul corso V. Emanuele.
Montalbano Gaetano (☼ 4 7 1842 † 2 2 1875) Primo dei cinque figli di Calogero (benestante) e Angela Giudice. Partecipò alla terza guerra di Indipendenza nel 1866 e fu tra gli eroi di Bezzecca. Ritornato a Favara si iscrisse alla loggia massonica Aurora. Si suicidò nel fiore degli anni e la mattina del 2 2 1875 il suo corpo venne trovato poco lontano dal cimitero. In un articolo sul periodico La Giustizia, di Angelo Pardo, si legge: La sua morte in Favara è stata un lutto universale. Noi abbiamo perduto in esso un fratello, la Patria un nobile figlio, la rivoluzione sociale un braccio poderoso. Circa le motivazioni del suicidio, il giornale La Face aggiunge che si era trovato un deficit di lire 700 nella gestione del Dazio Consumo, ove il Montalbano era impiegato e che, per non soffrire l'onta del disonore aveva sull'annottare lasciato i suoi mormorando parole di morte e minacciando di volerla finire con un'esistenza che ormai gli era divenuta di peso. Il Comune gli ha dedicato un cortile sul corso V. Emanuele.
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Nino Bixio |
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Nicolò Balistreri |
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Antonio Butticè |
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Antonio Castellana |
Prefetto Cesare Mori |
10 - Suppliche al Duce per confinati
Gli anni "20 dello scorso secolo, in generale, a Favara, passarono insolitamente calmi se paragonati alla furia violenta della criminalità che aveva investito la Comunità durante gli anni precedenti. Questa ventata d'aria veniva a coincidere con fatti politici nuovi, che mutarono quasi bruscamente la vita e le abitudini di tante persone. Quando Mussolini salì al potere, trovandosi ad affrontare il problema del brigandaggio e della mafia siciliana, mandò nell'Isola il prefetto Cesare Mori (Pavia, 22 dicembre 1871 – Udine, 6 luglio 1942). Con un telegramma Mussolini faceva sapere a Mori: ... vostra Eccellenza ha carta bianca, l'autorità dello Stato deve essere assolutamente, ripeto assolutamente ristabilita in Sicilia. Se le leggi attualmente in vigore la ostacoleranno, non costituirà problema, noi faremo nuove leggi ... . In Sicilia Mori arruolò uomini, guardie giurate e truppe regolari per le sue battaglie campali, compì numerosi arresti, sfuggendo, nel contempo, a vari attentati. Nessuno come lui arrivò ad umiliare tanto la mafia. Mori si oppose anche alle rappresaglie violente e alle spedizioni punitive dei fascisti, inviando contro di loro la polizia, e fu per questo ampiamente contestato. Con l'ascesa al potere del Fascismo, Mori cadde in disgrazia e fu dispensato dal servizio attivo. Si ritirò in pensione nel 1922 a Firenze. Per la sua fama di uomo energico e di conoscitore della Sicilia, fu richiamato in servizio all'inizio di giugno del 1924 dal ministro dell'Interno e inviato come prefetto a Trapani e successivamente a Palermo, con compiti speciali per la Sicilia. Qui attuò una durissima repressione verso la malavita, colpendo pure bande di briganti e signorotti locali, anche attraverso metodi extralegali fra cui la tortura, la cattura di ostaggi fra i civili e il ricatto. Con l'esplicito appoggio di Mussolini, ottenne significativi risultati e la sua azione continuò per tutto il biennio 1926-1927. Il 1º gennaio 1926 compì quella che fu probabilmente la sua più famosa azione, e cioè l'occupazione di Gangi, paese roccaforte di numerosi gruppi criminali. Per la durezza dei metodi utilizzati Mori venne soprannominato Prefetto di Ferro. Nel 1929 Mussolini decise di porre a riposo il prefetto, facendolo cooptare dal Senato del Regno. Purtroppo l'attività di Mori aveva avuto drastici effetti soltanto su figure di secondo piano, lasciando in parte intatta la cosiddetta cupola. Mori non si era occupato solo degli strati più bassi della mafia, ma anche delle sue connessioni con la politica e non si fece problemi nemmeno a perseguire Alfredo Cucco, l'uomo più in vista del fascismo in Sicilia, nonché l'ex ministro della Guerra, il potente generale Antonino Di Giorgio. Molti mafiosi dovettero emigrare negli Stati Uniti dove diedero origine alla Cosa Nostra americana. Se Mori non riuscì fino in fondo nel suo intento, ciò dipese dal potere politico, che fermò la sua azione quando stava per travolgere le più alte e vitali strutture della onorata società. Col ritorno alla normalità, i gaglioffi mafiosi poterono, così, nuovamente dedicarsi ai loro loschi affari, senza più correre il rischio di essere colpiti dagli imprevedibili fulmini dell'intransigente prefetto. Quasi contestualmente alla venuta in Sicilia del prefetto di ferro, a Favara veniva trasferito il vice commissario di Pubblica Sicurezza Mario Caso e rimpiazzato alla fine di agosto 1922, con Agostino Crocchiolo di Salaparuta (TP). I predecessori più immediati di Crocchiolo: Francesco Franco e successivamente Montalbano, di origine favarese, non avevano mai trescato con nessuno e gettato ombre oscure sopra i doveri inerenti alla loro funzione. Costoro si erano affidati alle informazioni delle varie spie, senza curarsi se questa gente, spesso senza scrupoli, come accadeva, oltre che ignorante la realtà era pronta a riferire il falso laddove nutrivano un pizzico di livore contro qualcuno. Il Crocchiolo era uomo dalla corporatura alta e robusta; i suoi occhi penetravano dentro quelli di ogni individuo che gli stava innanzi, e facilmente vi scoprivano quello che giaceva nella mente. La sua indole ed il suo temperamento erano veramente strani, qualità che accrescevano coerenza e fermezza al suo carattere. Egli seppe afferrare subito l’ambiente di Favara con tutte le persone di vario ceto che vi si muovevano. Poco dopo l’insediamento nel suo ufficio, la prima cosa da lui presa in considerazione fu di non dare credito alle spesso fallaci informazioni delle spie o informatori che dir si voglia. Di costoro accettava solo le indicazioni relative alla conoscenza fisica dei mafiosi, tralasciando perfino ogni giudizio formulato nei riguardi degli individui sospetti dai suoi predecessori. Persino i precedenti penali erano per lui di poco conto. Non teneva in serio conto il contenuto dei fascicoli compilati dal suo predecessore Mario Caso. Crocchiola era più propenso a seguire ciascun mafioso, o sospettato tale, in ogni sua mossa imponendogli di astenersi dall’unirsi per le vie del paese con altri della stessa risma, o semplicemente sospetti. Quando si imbatteva in un gruppo di amici, secondo il suo giudizio poco puliti, li obbligava a separarsi, indicando loro la via da seguire ciascuno, ingiungendogli di non farsi vedere più insieme. Il più delle volte camminava solo e, nonostante ciò, se gli capitava, non si asteneva dal menare le mani o, cosa anche questa frequente, di fare uso di forbici per tagliare il ciuffo a qualche giovanotto capellone. Non stava mai fermo e nell’ufficio sostava il tempo indispensabile per sbrigare la posta. La sua presenza non era limitata al solo abitato, ma era egualmente attivo in tutte le campagne del territorio di Favara. Contrariamente al comportamento di Caso, Crocchiolo non avvicinò mai un mafioso se non per rimproverarlo e/o per mettergli le mani addosso. I suoi metodi gli conferirono una fama intensa e diffusa; il suo nome diventò ben presto l’argomento del giorno e di lui, e del suo rigore, si parlava dappertutto, anche a distanza di anni. Durante l'ascesa del fascismo, uno degli strumenti deterrenti adottati contro alcune forme di criminalità (o presunte tali) fu il confino, di cui si fece largo uso, anche nei confronti di persone ritenute sospette e svolgenti attività politica contraria a quella del regime. Il confino si traduceva nell'allontanamento dell'individuo e nel suo relegamento coatto (da uno a cinque anni rinnovabili) in luogo lontano da quello di residenza, principalmente isole come Linosa, Lampedusa, Ustica, etc., con obbligo di lavoro e l'osservanza delle prescrizioni stabilite dalla legge e dall'autorità competente. In questo contesto non mancarono le suppliche, soprattutto da parte di mogli e madri di confinati, al duce Mussolini a Edda Ciano, al re Vittorio Emanuele, alla regina Elena, etc. La sottostante immagine riguarda una delle suppliche riportate nel libro "Eccellenza vi supplico" di Calogero Castronovo, di cui si può vedere anche la copertina.
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commissario di P. S. Agostino Crocchiolo di Salaparuta (TP) |
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supplica |
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11 - Favara nei moti del 1411 (Da una relazione del dr Eugenio Valenti pubblicata nella rivista Sicania)
Morto Martino il Vecchio (1410), la vicaria Bianca continuò a governare la Sicilia, assumendo il titolo di regina. Ma un’aspra lotta le stava preparando il Gran Giustiziere Bernardo Cabrera, capo dei baroni catalani dell’Isola, il quale, oltre a pretendere il vicariato, voleva pure sposare la regina per impossessarsi del regno. Molte università del regno, fra cui Favara, non vollero più obbedire alla regina e riconobbero il Cabrera come vicario e, forse, anche come me re. Bianca non si perdette d’animo e in compagnia dei suoi più fedeli baroni, seguiti da un gran numero di armati, intraprese un viaggio a cavallo per le terre sollevate, mandando, dove non poteva recarsi personalmente, nobili cavalieri per ridurre all’obbedienza quanti da lei si erano distaccati. Nel contempo la regina Bianca mandava ambasciatori al Cabrera per trattare e concludere la sua obbedienza, con promessa di riceverlo in grazia, ma senza esito. Il 28 aprile 1411 partì da Naro, con tutta la sua forza, risoluta ad abbattere il Cabrera, prima di arrivare a Girgenti fece tappa a Favara, dove fu ricevuta con grandi onori dal feudatario Bernardo Berengario Perapertusa. Alle mura di Girgenti fu accolta a colpi di bombarde, ma dopo un’aspra lotta il Cabrera fu costretto a cedere e a mezzo del conte Artale de Luna promise non solo la sottomissione personale, ma anche quella di molte università che erano dalla parte sua. Ma la regina non si fidava del Cabrera e ritenne opportuno lasciare parte della sua forza militare a Favara. Il 29 fu di nuovo a Naro e fino al 3 Maggio non uscì dalla fulgentissima. La mattina del 4 Maggio marciò con la sua truppa verso Girgenti perché il Cabrera vistosi libero, si era ribellato una seconda volta. Fece ancora una sosta a Favara dalla quale università indirizzò una lettera al capitano e ai giurati di Girgenti rimproverandoli di non averla ricevuta come si conveniva, obbligandoli alla sottomissione. Vedendosi a mal parrtito, il Cabrera si sottomise di nuovo, ottenendo il perdono della buona regina, grazie all’intercessione degli ambasciatori di alcune università del regno. Posto il campo fra Favara e Girgenti, il 5 Maggio la regina scriveva al capitano e alle università ribelli, esponendo i risultati ottenuti dalle trattative col Cabrera e la risolutezza ad agire per la conservazione ed il beneficio del regno della casa di Aragona. Contemporaneamente spediva lettera ai Girgentini, imponendo loro di cacciare dalla città il Cabrera. Ma a nulla erano valse le intromissioni degli ambasciatori e mentre Cabrera, vistosi in cattive acque, si allontanava da Girgenti, portando la ribellione in altri luoghi, Bernardo Berengario Perapertusa, barone di Favara, con l’aiuto di Filippo De Marinis barone di Muxaro, riusciva a ridurre all’obbedienza la città di Girgenti. Il Perapertusa e il De Marinis avevano scritto alla regina offrendo il loro aiuto e questa rispondeva loro attestando la propria gratitudine. Al primo scrisse da Naro in data 8 Maggio e lo autorizzava a perdonare tutti gli abitanti di Girgenti, promettendo che avrebbe fatto osservare il suo operato. In data 10 scriveva al De Marinis, esprimendosi nel medesimo senso. Ma mentre il Perapertusa, sicuro della sua terra, aveva sottomesso Girgenti, i favaresi non la pensarono così e si ribellarono a loro volta al povero Berengario, il quale fu costretto a chiedere aiuto alla regina. E l’aiuto, per quanto tardi, arrivò, e Favara ritornò all’obbedienza. Ma il Cabrera non dava tregua alla regina, il quale si diresse verso Naro, per cui Bianca dovette rivolgersi nuovamente al Perapertusa e al De Marinis, in data 30 Agosto, invitandoli a recarsi a Caltanissetta con tutta la forza disponibile a cavallo e a piedi, onde prendere gli accordi per liberare Naro e per sottomettere definitivamente Cabrera. Le gesta di Cabrera continuarono, ma né Favara, né il Perapertusa, figurano oltre nei moti del 1411. Ci intratteniamo, a questo punto, su un’altra questione. Nell’amplissima sub rege Martino feudatariorum omniunque feudorum recemptio fatta nel 1408 leggiamo: Bernardus Beringarius de Perepertusa pro Turri Fabariae; ... Philippus de Marino pro pheudo Fabariae. Inoltre, in una lettera del 2 Giugno della regina Bianca si parla di una turri di la marina, che fu quella che si ribellò. Cercheremo di dimostrare come questa torre non poteva essere altro che il Castello di Favara e come il feudo di Favara non poteva appartenere al De Marinis, sebbene al Perapertusa. Che De Marinis possedette anche lui un feudo chiamato Favara, non poteva essere quello che si trovava nelle vicinanze di Girgenti, tanto più che nella recemptio è riportato come sito nella terra di Sutera. Diversamente, con quanto discapito della storia ben si comprende, dovremmo dire che il Perapertusa non fu un feudatario di Favara, perché a lui non figurerebbero né il castello, né il feudo. Luca Barberi dice (manoscritti nella biblioteca comunale di Palerrno): Serenissimus Dominus Rex Martinus therram ipsam Fabariae dedit et concessit in pheudum quondam Amilio de Perapertusa et suis heredibus successoribus de suo corpore legitime discendentibus. Amilius de Perapertusa Terram ipsam Fabariae, cum Licentia Domini Regis Martini et Mariae vendidit quondam Bernardo Beringaro de Perapertusa eius fratrui, qui Bernardus Terram ipsam certo tempore tenuit et possedit, qua Bernardo decedente successit sibi Gulielmus de Perapertusa eius filius (Privilegio dato in Catania il 16 gennaio, VI indizione, 1398). Ora se nei registri dell’archivio di Stato troviamo il privilegio del re Martino e se nell’elenco dei feudatari leggiamo che ad Emilio Perapertusa e alli suoi eredi in perpetuum il re Martino concesse il castello di Favara con tutti li suoi tenimenti giuri e pertinenze, se al Perapertusa attribuiamo ancora, secondo la recemptio, i feudi di Gibilisindi, Rayalsese, Falsarabie, una parte del casale di Stefano, e ancora, per quanto non si trovino nella recemptio, Burraiti e poco appresso anche Xangirocta (Falsirotta), quale altro feudo posto nelle vicinanze di Girgenti, chiamato proprio della Favara, poteva possedere Filippo De Marinis ? E ancora, se i Perapertusa possedettero il castello, e ciò si desume dai documenti, specie dalla lettera della regina Bianca del 2 Giugno e dalla epigrafe del Sitineri posta nell’andito del castello Chiaramontano, si potrebbe supporre che a loro non fosse spettato anche il feudo che era parte integrante del castello? Non sappiamo, quindi, comprendere come De Marinis possa figurare nella recemptio possessore del feudo di Favara. I De Marinis non diventano feudatari di Favara che nel 1494, allorché Giosuè De Marinis, barone di Muxaro, sposò, il 28 Gennaio dello stesso anno, Lucrezia Perapertusa, figlia di Guglielmo, nipote a sua volta, di Bernardo Berengario. Gli sposi ebbero in dote la baronia di Favara e tutti i suoi beni feudali e allodiali. È questa la prima volta in cui nella successione dei feudatari di Favara si incontra il nome dei De Marinis. Che Filippo De Marinis avesse posseduto qualche feudo nelle vicinanze di Favara, nulla di strano, e a ciò conveniamo in virtù della lettera che la regina Bianca gli mandò nei momenti di pericolo; ma che avesse posseduto il feudo propriamente detto di Favara, non lo crediamo per quanto abbiamo sopra detto. Ancora nella recemptio si legge: Beriengarius de Perapertusa pro turri Fabariae. Dato, come abbiamo visto, che il castello e il feudo non potevano che appartenere allo stesso proprietario, ci domandiamo: cosa sarebbe mai la torre cui accenna l’amplissima? perchè ci parla di torre e non di castello? Non ci sarebbe stata differenza tra una cosa e l’altra? Secondo noi la torre non sarebbe altro che il castello di Favara, diversamente, volendo pigliare ad licteram quello che dice la recemptio, dovremmo dire che né il castello, né il feudo appartennero al Perapertusa. Ma l’archivio di Stato, le lettere della regina Bianca, l’espressione stessa dell’amplissima Turris Fabariae, l’epigrafe che si trova nel castello, i documenti che ci offrono il Barberi e altri storici confermano che la terra e la rocca appartennero a Bernardo Berengario. Il castello di Favara era di un’importanza tale che non poteva affatto venire dimenticato nell’elenco dei castelli del tempo; e se colui che scrisse la recemptio attribuì al Perapertusa la torre di Favara, per necessità di cose intendeva parlare del castello. D’altronde noi sappiamo dall’Amico (Dizionario topografico della Sicilia) che la fortezza si è diminuita nei suoi estesi fabbricati, poiché comprendeva anche un altro forte terminato ai quattro angoli con torri, l’ultima delle quali fu demolita, con parte della cinta di muri merlati, dopo il 1820 (su questo punto occorre fare delle correzioni). Ma è ancora la regina Bianca che ci dà mezzo a risolvere la questione, e precisamente con la lettera del 2 Giugno indirizzata da Troina al Perapertusa, in risposta ad una sua, con cui la pregava di mandargli forze per riprendere la torre della marina, e questo perché il giorno dopo la regina doveva cavalcare per Randazzo, già ridotta all’obbedienza. Osserviamo che la regina dice al Perapertusa che gli manderà forza per conservare quissu paysi. Quale paese? Girgenti? No, altrimenti avrebbe detto chitati, come si legge in tutte le sue lettere precedenti; Naro nemmeno, poiché ancora si conservava fedele alla regina; e allora possiamo benissimo affermare che la regina parla senz’altro di Favara, perché era il solo che amministrava il Perapertusa, e siccome quando dice che manderà truppa per conservari quissu paysi non aggiunge affatto per ricuperare anche la torre, s’intende che l’una significa l’altro, cioè che la torre ribellatasi non era altro che il castello di cui il Perapertusa era il proprietario e il paysi il feudo dove si trovava il castello.
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12 - Assassinio nella chiesa madre
Una mattina nebbiosa, umida e nuvolosa di oltre cento anni fa, esattamente il 28 aprile 1907, alle ore 7,30, un continuo rincorrere per le strade e soprattutto verso la madrice ha rotto la solita monotonia iniziale di una delle tante giornate favaresi. Durante la messa, con la chiesa piena di fedeli è stato commesso un efferato omicidio. Un ignoto con un revolver ha sparato al petto ad un certo Carmelo Petruzzi detto Calabriseddu, marito di Antonia Jacono. L’evento ha fatto rabbrividire tutti, tanto più che il povero Petruzzi era un giovane trentenne stimato per buono e laborioso. Il povero Petruzzi era andato in parrocchia per ricevere il precetto eucaristico pasquale ed invece ha ricevuto piombo. Cadde agonizzante sopra la sedia della chiesa. Ci fu gran spavento e i preti rimasero interdetti dal parlare, così come la madrice rimase interdetta all’esercizio del culto per alcuni giorni. Un secolo fa nessuno ricordava un simile fatto accaduto in Favara, neppure per fatti narrati e leggende antiche. Lo hanno portato a braccia in casa sua e, cosa strana, nessuno ha saputo dire o ha visto in faccia l’assassino. Si disse più tardi che l’assassino di Carmelo Petruzzi sia stato il fratello di Salvatore Giglia detto Bajo trovato cadavere il 2 aprile a S. Pietro, a Burgelamone, orribilmente sfracellato e bruciacchiato col petrolio. Si disse che Petruzzi abbia assassinato il Giglia Bajo e che con solenne chiassosa vendetta il fratello l’abbia vendicato. Poi si disse che il Giglia Bajo si era presentato alla Giustizia confessando il suo delitto e tutti i precedenti, dichiarandosi reo forzato, violentato dalla natura dell’omicidio del proprio fratello, rinvenuto cadavere fumante, ancora col petrolio che lo consumava e con la testa schiacciata fra due pietre, in una zona fra Burgelamone e S. Pietro. Corsero molte voci che mutarono e si contraddissero ad ogni momento. Ma si sa, non è fatto recente in Favara che, come una freccia dall'arco scocca, vola veloce di bocca in bocca.
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13 - Nel 150.mo anniversario dell'unificazione dell'Italia - “Li mii priggiuni” Settemmiru 1863 di Antoninu Lia
(a cura di Gisella Liga (per parte del nonno materno Vincenzo Giudice "baruneddru", discendente dallo stesso ceppo da cui è discesa donna Gesuela, figlia di Gaspare, di Favara)
Nel lontano 2001, ritrovai fra le scartoffie di famiglia un quaderno manoscritto che alla fine riportava: “Fini de mii priggiuni”, Partanna Mondello, settemmiru 1863, Antoninu Lia (Antonino Liga). Attraverso documenti risalii al personaggio: mastro Antonino Liga, mio bisnonno, figlio di Giuseppe (morto nel 1836) e Caterina Alaimo. Mi decisi, allora, di trascrivere quel quaderno. Le sensazioni intime che provai durante la trascrizione furono profonde: un esulto del cuore, un eccitamento di gioia, quasi una beatitudine. Man mano che trascrivevo sentivo vicino la presenza del mio bisnonno, sentivo la sua voce rileggere, con affanno e scoramento le strofe ed io ero con lui e lui con me. Forse il fato aveva fatto sì che il bisnonno mi scegliesse per tramandare ai posteri le sue tristi vicissitudini. Forse la generosità celestiale, per ripagarmi della prematura orfanitudine, mi ha reso questo privilegio, io, l'unica ad avere la possibilità di ascoltare la sua voce, di sentirlo vicino, anche attraverso l'odore di quelle vecchie carte. Di estrazione borghese, Antonino nacque nell’ottobre del 1819 nella Borgata ”Villa Partanna” e morì nel 1905. Sposò Giuseppa Di Martino dalla quale ebbe tre figli Giuseppe (1872 – mio nonno), Caterina (1875) e Gioacchino (1878). Uomo di fede, animo sensibile e generoso, come attestano i giornali di quel periodo, Antonino è stato attento alla realtà del suo tempo ed alle ingiustizie sociali. Nella seconda metà dell’800 fu promotore, insieme al principe di Scalea e ad altri rappresentanti la comunità della Borgata, di azioni volte ad attenzionare l’amministrazione municipale, alla bonifica del pantano di Mondello che fu utilizzato, dalle ben note speculazioni, poste in essere dalla corte Borbonica di Ferdinando I, prima a riserva di caccia e di pesca e poi per le coltivazioni di cotone e carciofi, successivamente divenuto un acquitrino eutrofico dal quale esplodeva periodicamente la malaria. Febbri malariche si aggiunsero alle ricorrenti epidemie di colera che flagellarono l’Europa e la Penisola Italica e, dal 1837, si diffusero anche in Sicilia, in particolare a Palermo con esiti nefandi, sulla popolazione locale. Il 13 gennaio 1848 Antonio Liga accorse, con 56 uomini, tutti della Borgata, a Palermo per sostenere con la propria vita quel soffio rivoluzionario antiborbonico che esplose in seguito al proclama della Fieravecchia del 12 gennaio 1848. L’undici settembre 1849 venne prelevato dalla Forza borbonica insieme ai due fratelli più grandi, Stefano e Rosario e, dopo un sommario processo conclusosi con l’accusa di rivoluzionari, vennero condannati. Stefano venne fucilato; Rosario, già di salute cagionevole, morì dopo tre mesi di borboniche torture; Antonino venne condannato alla pena capitale (fucilazione), poi commutata in 25 anni di carcere duro, dei quali ne sconterà quasi 11 (11 settemmiru 1849 - Isola di Favignana - Lampedusa - 16 giugnettu 1860 ritorno a casa natìa). L’11 giugno 1860, con l’entrata di Garibaldi a Palermo, la forza militare borbonica stanziata a Favignana abbandò la fortezza e fuggì per il continente e i relegati furono lasciati in abbandono. Dopo 10 anni 10 mesi e 5 giorni, al ritorno a casa trovò vivi soltanto tre della sua famiglia, la madre e due fratelli. Nacque in lui il bisogno di scrivere, (o probabilmente di ricopiare il diario resoconto dei suoi giorni di prigionia). Annotò e descrisse con minuzia e lucidità il suo stato di prigioniero in un elaborato comprendente 293 ottave siciliane in dialetto che titolerà “Li mii Priggiuni” (1863 ). Il manoscritto ripercorre, come un diario, lo scorrere del tempo da relegato, ora a Favignana, ora a Lampedusa, a volte lento, a volte esasperato, a volte rassegnato, a volte esagitato, a volte delirante, a volte illuminato solo dalla fede in Dio, a volte noioso e pesante. Non posso quantificare la sua produzione letteraria, in quanto a me sono pervenuti solo due quaderni olografi; il resto con molta probabilità è andato perduto. Il disinteresse all'identità, alla conoscenza dei fatti, tutto calpestato dal dilagante materialismo, dalla superficialità, dalla mancanza di curiosità e dalle conseguenti incrostazioni del tempo hanno fatto sì che la sua produzione letteraria andasse perduta. Ciò che rimane sono pochi manoscritti in dialetto, per la maggior parte in versi; ed io ho avuto la fortuna di trascriverli, ecco qui un estratto:
La rivoluzioni di Palermu di sittemmiru 1866
Chi gran fracassu di genti pirversi Chi curri curri, chi cosa ci fui Cu nesci fora, cu va comu spersi Cu trasi dintra la porta la chiuri Tanti linguaggi, discursi diversi Finalmenti un si raggiuna cchiui Dui centu milli a Palermu abbitanti Di miu pariri sù tutti mancanti.
Mancanti è lu guvernu pi sua parti E’ sugnu incertu si ciappi piaciri Mi parsi cumminata a ncegnu ed arti Quantu a Palermu dava dispiaciri Pirchì guidannu giusti li so carti Pinzava primu e putiva impiriri Nun succidìa stu dannu, un cera nenti Nun succidìa lu straggiu di nnuccenti!
Mancò lu Municipiu chiù di tutti Tuttu Palermu sta cosa vidìa Pi certi cosi netti nezzi sdignò a tutti E’ li cosi chiù ntrassanti un li vidìa Pi annona ùn pinzò mai, a boni pridutti Sulu era datu alla galantaria Nun sedinu picciuna ‘ntrà sti seggi Sedinu pila bianchi ch’annu preggi.
Pi d’omini chi fannu spisa inchiazza Omini dotti e patri di famigghia Nun giuva sempri giucari la mazza Chi tanti voti lu cori assuttigghia L’omu fugatu ‘nfuria e ammazza Ed unu sulu cu centu la pigghia Lu populu in palermu iu sacciu duci Sapennulu guidari si cunnuci
Lu nobbili e lu civili mancò puru Chi putìa dari bastanti riparu Un populu ugnuranti chi è a lu scuru Lu puteva guidari ‘ntra lu chiaru Nun si truvava li spaddi a lu muru Nun si pigghiava stu muccuni amaru Manca populu bassu pi gnuranza Manca pi vilirtà, pi stravacanza.
Mancanti è lu partitu di Borbuni Chi è cosa chiara e si vidi prisenti Sciumi chi duna acqua a dui vadduni Nun li po’ fari tutti dui cuntenti Un’omu divi sirviri un patruni Si voli figurari ‘ntra li genti Nun avi affari u paschuinu ‘ntra u iocu Mancu mmiscari l’acqua cu lu focu.
Circassi ogni cetu a riparari Quantu ‘un accanza chiù lu malamuri Sti quattru iorna ch’avemu accampari Succhiannu sempri feli di tutt’uri La machina cussì ‘un po’ caminari Su nè scienti lu so diritturi Di sta manera stamu sciarriati E’ spissu nnammazzamu a scupittati.
E semu figghi tutti d’una terra! Tutti un linguaggiu e nuddu lu capisci Tutti fratelli, e nni facemu guerra Ugnunu a lu so statu mpuvirisci Ugnunu a l’arti sua forti s’afferra Lassa la Nazioni chi fiurisci E si nuatri nni sapemu amari Ugnunu senti gustu a lu campari.
Partanna Mondello 30 Settemmiro 1866
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14 - Memoria di un turbine a Favara (Estratto da una memoria dell'arciprete di Favara Giuseppe Cafisi (1727-1802)
Il 10 marzo 1772 un fortissimo turbine si è abbattuto su Favara devastando costruzioni e campagne, con danni anche alle persone. Alle ore 19 e mezza dopo un insolito freddo, che fin dalla mattina di quel giorno fatale si era fatto sentire, cominciò a cadere una copiosa gragnuola accompagnata da fulmini, e tuoni, che gagliardamente s’ingrossò al punto da pareggiare prima le nocciole, poi le noci, e infine le arance. Andarono in frantumi quasi il terzo delle tegole delle case, e le vetrate delle finestre delle case di Favara. Tre o quattro minuti prima di arrivare il turbine, alle 20,30, la grandine, anche se non copiosa, fece la comparsa a sud nel paese e cadde così grossa e con tal violenza da provocare deplorabili danni. Ora, prima di accennare gli effetti, se ne descrive la sua prima comparsa sul nostro mare. Si alzarono su quelle acque tre colonne, una alla Pietra Patella, un’altra alla foce del fiume Naro, e la terza al di là della chiesa di S. Leone, lanciando fulmini e tuoni. Unitesi le due estreme a quella del mezzo, se ne formò una sola. Dopo un’ora uscì completamente dal mare indirizzando il corso verso la sventurata Favara. Il suo gran cilindro aveva un diametro ora di 100, ora di 300 piedi, aspirando tutto, e denudando il terreno, come quando con la falce si miete l’erba, rovinando tutto, alberi e fabbriche. Era veramente uno spettacolo che lasciava inorridito ogni osservatore. Alberi di enorme grandezza cadevano a terra mostrando le lunghe e grosse radici strappate dal suolo. La prima casa che incontrò, fabbricata appena dieci mesi prima, restò diroccata fin dalle fondamenta. Rovesciò tante altre case, rovinò molti tetti e fra questi, quelli della chiesa di S. Francesco (oggi non più esistente), quella delle Grazie della Portella, cui sconquassò pure il campanile, e quella di S. Calogero, ove cadde la pesante statua del Santo. Quest’ultima chiesa era piena di gente, ma per fortuna non accadde alcun danno. Anche la chiesa madre fu colpita. Qui fece ballare le tegole sull’alto tetto, i sedili sul pavimento e fece vacillare il pulpito, ma non le candele accese all’altare, ove era riposta la sacra Pisside. Grande fu qui lo spavento, che provò quella gente ivi accorsa poco prima per il timore della grandine, ma fu maggiore, quando sopraggiunsero per il terrore del turbine donne scarmigliate e confuse e uomini stremati. Non può facilmente descriversi uno spettacolo così spiacevole, la confusione, i pianti, ed il timore della morte produssero degli svenimenti, e per tre donne gravide si temette l’aborto. Frattanto non sembra credibile, per chi ha visto i tanti edifici rovinati, che siano morte solamente due persone, una ragazza d’anni sette, colpita da una trave del tetto e una giovane di 25 anni, che fu trovata sotto le pietre con un crocifisso nelle mani. Si trovò ancora sulle rovine di sua casa una madre col bambino in braccio, ma con poco danno per entrambi. Ma oltre il gran danno che fece la gragnuola nel paese è incomparabilmente maggiore quello, che ne patì la campagna, i seminati, le vigne, l’erba per il pascolo e le piante degli orti. Uccise volatili, accecò pecore e offese uomini.
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La nave "Città di Palermo" in partenza da Palermo nel 1935 |
15 - Scomparso in mare
All'alba del 5 agosto 1933, intorno alle 5,00 quando la nave "Città di Palermo" era in prossimità del porto di Napoli si presentava al capitano Francesco Matarazzo un cameriere con due passeggeri, dichiarando di aver trovato in abbandono, sull'estrema prua, una giacca ed un cappello di paglia. Nella tasca interna della giacca la carta d'identità appartenente a Marotta Innocenzo di Gerlando nato il 30 aprile 1902 a Favara, celibe, di professione barbiere, residente a Casteltermini, via Regina Margherita n. 15. Le ricerche effettuate per rintracciare il passeggero, ripetute per tre volte, anche dopo ormeggiata la nave, risultarono vane e poiché risultava che il Marotta si era effettivamente imbarcato a Palermo, ne veniva dichiarata la scomparsa in mare. Dagli atti dello stato civile risulta che Innocenzo era figlio di Gerlando e Marianna Pullara, residenti in v. bersagliere Urso a Favara.
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16 - La cisterna dei morti di colera in piazza d'Armi
Durante il colera del 1837 che invase Favara, si proibirono le sepolture all’interno delle chiese ricadenti dentro il centro abitato e tutti i cadaveri vennero portati nella chiesa dei frati francescani (da non confondere con la chiesa attuale), sulla collina S. Francesco.n Presto le cripte della chiesa si riempirono, al punto che i corpi degli estinti rimasero insepolti sul pavimento della stessa chiesa. Stante l’urgenza, il sindaco, con promessa d’acquisto fatta al proprietario di un giardinello limitrofo, disponeva l’uso immediato di una grande cisterna interrata (che serviva per l’approvvigionamento idrico del convento francescano) per la tumulazione dei cadaveri e presto veniva trasformata in immane fossa comune. Stante ai documenti la cisterna doveva (anzi, dovrebbe, visto che è ancora esistente) avere la dimensione di 33 m. (non si capisce, però, se riferita al diametro o alla circonferenza. Dopo vari reclami da parte del proprietario, nel 1839, l’Amministrazione Comunale acquistava il giardinello (che, considerando lo spazio occupato dalla preesistente chiesa e convento, grosso modo coincide con lo spazio dell’attuale piazza D’Armi, dietro l’attuale convento. Tra la fine di aprile e la metà di luglio del 1891 il Comune faceva esumare i resti mortali esistenti fra i crollanti muri dell’antica chiesa e ne disponeva la collocazione nella cripta appositamente costruita sotto la navata della chiesa S. Antonio da Padova afferente l’attuale convento francescano. Qualche anno fa, al centro della piazza d’Armi era sprofondato per circa un metro l’imboccatura della cisterna scavata nella viva roccia.
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17 - Il cimitero sotto la madrice di Favara
Nella metà degli anni “60 del secolo scorso, lo zelante arciprete di Favara Giuseppe Minnella Rizzo, con l’intenzione di realizzare una sala ricreativa per ragazzi, sotto la cappella del SS. Crocifisso, faceva aprire una breccia nel muro retrostante l’abside della stessa. Con probabile meraviglia per gli operai, venne fuori una enorme quantità di ossa umane miste a terra vegetale. Io ho visto quella scena da bambino ed è stata inquietante. Ma perché quei resti umani in quel posto?. Forse non tutti sanno che i cimiteri in Sicilia sono nati, nella stragrande maggioranza dei casi, nella seconda metà del 1800. Quello di Piana Traversa, nella fattispecie, ha visto la prima sepoltura (allora tutte nel nudo terreno) il 28 febbraio 1877, mentre quello detto “Nuovo”, di c.da Sanfilippo, è della fine del 1800. Negli anni precedenti tutti i nostri antenati vennero seppelliti sotto le chiese, senza alcuna epigrafe o iscrizione che li ricordasse. Le chiese vennero utilizzate a turno per questo triste rito. Nei secc. XVI e XVII quelle maggiormente utilizzate erano S. Nicolò e S. Rocco, mentre nei XVIII e XIX erano la madrice e quella del SS. Rosario. Alla fine del 1800, quando si decise di costruire la nuova madrice venne demolita quella preesistente, compreso l’oratorio del SS. Crocifisso, ad essa collegato, realizzato nella seconda metà del 1700 sull’area dell’attuale cappella del Crocifisso. Nella fase di demolizione e ricostruzione furono raccolti i resti umani e interrati sotto la nuova cappella.
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18 - Opunzie galeotte
Nel 1869 nella frequentatissima strada che dal viale Itria conduceva alle acque di Giarritella e nella strada di rimpetto la ex chiesa di S. Rocco (dove anticamente era stata piantata una croce di ferro, fra le Vie Cappello e Molino, al cui posto oggi si trova un pilastro con sopra la statua di Gesù, folte opunzie (fichi d’india) ed alberi di fico delimitavano la proprietà di don Gaspare Dulcetta e rendevano quel luogo pubblico insicuro e di ricovero per malfattori. Non a caso, in questo luogo avvenivano spesso reati (Favara in fatto di delitti non era seconda a nessun altro Comune, se ne contarono: 146 nel 1867, 162 nel 1868 e 123 nel 1869). Il 30 dicembre 1869, dopo diversi reclami, il sindaco Gerlando Vaccaro ordinò al Dulcetta la recisione degli alberi fino alle radici o la realizzazione di una cinta muraria alta non meno di due metri e mezzo, a contorno dei suoi terreni (che per circa il 70% comprendevano l’isola contornata dalle vie Cappello, S. Rocco e V. Emanuele, oggi interamente urbanizzata).
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19 - Prima automobile a Favara
Qualcuno si è mai chiesto chi (e quando) ha introdotto la prima automobile a Favara? È accaduto in una giornata fredda d’inverno, esattamente il 3 marzo (lunedì) 1902. L’ha fatta arrivare col treno, da Palermo ad Aragona Caldare, Stefano Cafisi (di Giuseppe), allora proprietario del castello. Dalla stazione di Aragona Caldare è venuta con le proprie ruote fra tante difficoltà dovute principalmente alla strada non adatta. Faceva da chauffeur un certo Indelicato. Portata in piazza Cavour per essere depositata in uno dei magazzini di Cafisi è stata presa d’assalto da tanti bambini e curiosi. Il mercoledì successivo fece la prima sortita in piazza, con alla guida Emanuele Graziano, genero del Cafisi. L’automobile era una FIAT, un meccanismo imperfetto, ancora in fase embrionale. Il giovedì successivo ha percorso alcune vie di Favara. In piazza si è fermata per guasti; poi è arrivata fino al boccone del povero, percorrendo per la prima volta la strada rotabile Itria-S. Francesco. Prima saliva al passo di un’ordinaria carrozza, allo scendere sembrava una locomotiva a vapore.
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20 - Le ossa dei colerosi sotto l’usbergo dei frati Minori
Agli albori dello sviluppo urbano di Favara, durante il periodo di missione dei fraticelli francescani, dal 1530 al 1574, il primo nucleo, sorto ai piedi del castello, fra le vie del Transito e S. Nicolò, che contava meno di cinquecento anime, si è quadruplicata. All’inizio i frati minori presero stanza nel convento del Carmine, anticamente dedicato a S. Antonio da Padova e poi all’Annunziata. Nel 1574 lo abbandonarono e si trasferirono sull’ameno pianoro della collina che ha preso il nome del fraticello d’Assisi, dove eressero, alla sua gloria, un altro conventino con la chiesa sotto il titolo di S. Antonio Abate, mentre il convento del Carmine veniva occupato dai Carmelitani. Tra la seconda metà di novembre 1625 e la fine agosto 1626 la peste fece registrare un congruo numero di vittime ed i corpi furono inumati sulla collina S. Francesco, nella terra a sud-est dell’attuale piazzale, che nel corso dei secoli assunse il triste nome di “terra dei morti”. Nonostante tutto, la presenza del piccolo convento sull’omonima collina, tra la seconda metà del 1600 e la seconda metà del 1700, ha foraggiato la formazione di un nucleo di abitazioni, un villaggio che sembrava destinato a crescere. Purtroppo la sorte di questo borgo non è stata prospera, perchè il Comune nei periodi epidemici di colera del 1637 e del 1867, ha utilizzato quella collina per la sepoltura dei morti. Col passare degli anni il convento ha subito degli alti e bassi; i forti miasmi che scaturivano dai cadaveri mal sepolti ammorbavano l’aria e più volte i frati furono costretti a lasciare il loro convento. Anche le famiglie che da tanti decenni abitavano il piccolo borgo, nel tempo, sono stati costretti a trasferirsi all’interno dell’abitato. Si legge, in proposito, in una delibera consiliare del 29 dicembre 1889: ..... allettati dalla bella e salutare posizione i Favaresi a poco a poco tra la seconda metà del 1600 formarono un grazioso villaggio sulle amene pendici di quella collina ed i nostri vecchi ne ricordano ancora gli avanzi. Dapprima nel 1837, poi nel 1867, per ragioni di sicurezza, vennero interdette le sepolture nelle chiese all’interno dell’abitato è fu utilizzata la chiesa ormai in rovina sulla collina di S. Francesco, o meglio, nella terra dei morti. In particolare nel 1867 i morti furono tanti (oltre 800), al punto che rimasero insepolti e ammonticchiati a cataste all’interno dei muri crollanti della chiesa, con conseguenze che sono facili immaginare. Nel 1855 il Comune fece realizzare uno studio da parte dell’ing. Salvatore Gravanti per la realizzazione di un cimitero sulla collina, ma non ebbe seguito per la presenza di roccia affiorante. Dal 1867 al 1891 (nonostante il cimitero di Piana Traversa già costruito nel 1877) le ossa degli estinti di colera rimasero esposte alle intemperie e quel luogo diventò, soprattutto per i bambini e ragazzi, un luogo di terrore, il luogo dei fuochi fatui. Solo nel 1891, dopo la costruzione del nuovo (quello esistente) convento e la chiesa di S. Antonio Abate dei frati minori, il guardiano del convento e il sindaco di Favara pervennero a un accordo per eliminare quella vergogna e dare sepoltura a ciò che rimaneva degli estinti. Il sindaco ha ceduto un ritaglio di terreno che faceva parte dell’attuale piazzale dietro il convento ed il guardiano del convento fr. Fabrizio Fleres - bella figura di monaco (sic!), di cui parlerò nella prossima pubblicazione - ha autorizzato il Comune a costruire sotto la navata della chiesa un ossario, una grande cripta atta ad accogliere le ossa. Fino agli ultimi lavori di restauro della chiesa, una lapide ricordava (non si capisce perché è stata soppressa) l’avvenimento con la scritta:
QUI SOTTO L’USBERGO DEL S. P. FRANCESCO VENERATE RELIQUIE DEI DEFUNTI ESUMATE DAL VICINO DEMOLITO CIMITERO ASPETTANDO LA RESURREZIONE DEI GIUSTI << >> PIETOSI UNA FERVIDA PRECE PER LE LORO ANIME BENEDETTE 1899
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21 - Dall'assedio di Famagosta a Favara
Cipro era uno dei tanti regni latini sorti nel Medio Oriente dopo la conquista cristiana della Terra Santa. In questa società coloniale, riprodotta secondo il sistema feudale europeo, principi, cavalieri e vassalli avevano un’alta coscienza di classe rispetto ai nativi comunemente definiti greci. Nelle corti si parlava francese, gli uomini si dedicavano ai prediletti tornei e le dame leggevano avidamente i romances che arrivavano dall’Europa. Questa dolce vita durò un paio di secoli e, a poco a poco, i rozzi cavalieri crociati si trasformarono in raffinati gentiluomini. A ciò aveva contribuito l’innesto con la più evoluta civiltà bizantina, ma anche il rapido intensificarsi dei matrimoni misti favorito, oltre che dalla comprensibile scarsità di donne latine, dal fascino esercitato dalle bellezze locali. I cupi castelli crociati erano stati ingentiliti e arredati sontuosamente, i cavalieri privilegiavano i burnus di seta alle pesanti armature e portavano la kefiah sull’elmo, mentre le dame portavano il velo e usavano esotici profumi. Gli incroci di sangue che si erano susseguiti avevano insomma dato vita a una società multietnica che costituiva una sintesi felice delle rudezze occidentali con le mollezze orientali. Gli Stati latini erano dunque il risultato delle crociate, un evento epocale di cui gli storici europei, afflitti da complessi di colpa ignorati da altri popoli per i quali i diritti di conquista erano ancora considerati sacri, solevano dire tutto il male possibile. In realtà, i regni cristiani dell’Outre-mer portarono in quelle regioni una diffusa prosperità che non si vedeva dal tempo della dominazione romana ed esse torneranno a impoverirsi dopo la loro scomparsa. Gli abitanti di Famagosta (antica Gazmagusa) furono gli ultimi sopravvissuti di questa società fagocitata dall’Islam. Nei palazzi e nei castelli delle famiglie più antiche si conservavano le vecchie tradizioni, e nei salotti ingentiliti dall’abbondanza di damaschi, di cuscini e di profumi sopravvivevano i rituali dell’amor cortese. Le belle dame dai profili esotici, rese più seducenti dai costumi orientaleggianti, trascorrevano ore liete fra intrighi amorosi e amene letture. Leggevano ancora le chansons de geste, si esprimevano nel dolce francese d’Outre-mer e i loro cavalieri si vantavano orgogliosamente di possedere il sangue più antico fra tutte le corti europee: quello dei biondi sovrani merovingi che avevano mandato i loro figli cadetti alla conquista del Santo Sepolcro. Un piccolo e suggestivo residuo del mondo medievale che sarà spazzato via per sempre dalle orde turchesche. Venezia con un fortunoso colpo di mano, nel 1473 entrava in possesso dell’isola di Cipro, preziosa non solo perché costituiva uno dei centri vitali del commercio tra Europa ed Asia, ma anche per le sue ricche produzioni: metalli, indaco, zucchero, vini e sale. Per questo, nonostante la difficoltà di conservare l’isola, posta a duemila miglia dalla madrepatria, in quel lago ottomano che era diventato il Mediterraneo, Venezia difendeva con le unghie e con i denti Cipro, piegandosi perfino a pagare alla Sublime Porta un tributo annuo di ben 8500 ducati. Per l’impero ottomano Cipro costituiva una costante minaccia alla sicurezza delle coste della Morea, della Siria, dell’Asia Minore e dell’Egitto; rendeva malsicuro il possesso di Rodi, e quando Selim II l’Ubriacone, succeduto a Solimano il Magnifico nella guida dell’impero ottomano, decise di riprendere la guerra in Occidente e di estendere ancora di più il potere della Mezzaluna, il primo obiettivo che si pose fu la conquista di questa Isola. Fu così che una forte flotta ottomana si concentrò a Negroponte (antica Eubea) per tagliare la strada ad eventuali aiuti veneziani. Venezia ordinò a Cipro di resistere ad oltranza, decretando una straordinaria leva di milizie di terra e di mare nei suoi domini di terraferma; ma la Serenissima non se la sentiva di affrontare da sola l’impero ottomano all’apice della sua potenza, e poi il problema di Cipro interessava tutta la Cristianità e la sicurezza dell’intero Occidente. Un esercito di 80 mila uomini, al comando del capo supremo dell’esercito imperiale, Mustafà Pascià, poté tranquillamente sbarcare sulle spiagge indifese tra Limassol e Larnaca di Cipro. Nicosia, principale fortezza dell’isola, posta a difesa del capoluogo, capitolava dopo due mesi di lotta, il 7 settembre 1570. Tutti i difensori superstiti furono trucidati o deportati come schiavi. In un solo giorno furono più di 15 mila le vittime. Davanti ad un esempio così terribile, Kirenia, la terza fortezza di Cipro, si arrese senza sparare un sol colpo. Rimaneva ai veneziani solo Famagosta, posta all’estrema sponda orientale dell’isola. Famagosta era un antico borgo bizantino che era stato conquistato da Riccardo Cuor di Leone nel 1191 al tempo delle crociate e poi affidato ai cavalieri templari, i quali l’avevano abbellito con chiese e palazzi in puro stile gotico, trasformandolo in un importante centro commerciale difeso da un robusto sistema di fortezze. La dinastia crociata dei Lusignano, sovrani di Cipro e di Gerusalemme, che aveva regnato a lungo sull’isola, la preferiva a Nicosia. L’ultima regina, la romantica Caterina Cornaro, prima di ritirarsi nella quiete di Asolo, l’aveva donata nel 1489 a Venezia e Cipro era così diventata l’avamposto dell’impero coloniale di San Marco nel Mediterraneo. Famagosta era difesa da settemila uomini e da 500 bocche da fuoco. Le fortificazioni, opera del celebre architetto Sammicheli, erano frutto delle più avanzate concezioni belliche: la cinta rettangolare delle mura, lunga quasi quattro chilometri e rafforzata ai vertici da possenti baluardi, era intervallata da dieci torrioni e coronata da terrapieni larghi fino a trenta metri. Alle spalle le mura erano sovrastate da una decina di forti che dominavano il mare e la campagna circostante, mentre all’esterno erano circondate da un profondo fossato. La principale direttrice d’attacco era difesa dall’imponente massiccio del forte Andruzzi, davanti al quale si protendeva, più basso il forte del Rivellino. Per spaventare i difensori Mustafà Pascià inviava a Famagosta, racchiusa in una cesta, la testa del governatore di Nicosia, Niccolò Dandolo, ma il capitano generale di Famagosta, Marcantonio Bragadin, di antico e nobile casato veneziano, respinse ogni intimidazione di resa. Bragadin ed i suoi uomini erano convinti che Venezia non li avrebbe lasciati in balia dei turchi e che sarebbero arrivati i sospirati soccorsi. Il 22 settembre 1570 il blocco di Famagosta era completo. Un esercito di 200 mila uomini l’assediava per via terra, una flotta di 150 navi per via mare. I turchi completavano l’accerchiamento della città fino ad un tiro di cannone. Sulle alture circostanti millecinquecento cannoni ed alcuni obici giganteschi tenevano sotto il loro micidiale tiro sia la fortezza che i quartieri cittadini. Invano i veneziani cercarono di salvare i più importanti monumenti e le chiese, ricorrendo a travate di sostegno e cumuli di sacchetti di sabbia: tutto crollò o bruciò irrimediabilmente e la popolazione, terrorizzata, si rifugiò nella fortezza aggravando la già precaria situazione dei combattenti. Tra gravi privazioni e sofferenze, scarseggiarono viveri e munizioni. Passò così l’inverno 1570. Nella primavera del 1571 Mustafà Pascià, che fino ad allora si era illuso di far cadere Famagosta per fame, decise di passare all’offensiva. All’alba del 19 maggio i millecinquecento cannoni turchi scatenarono un bombardamento di potenza inaudita che si prolungò senza sosta, notte e giorno, per millesettecentoventotto ore, sino alla fine della battaglia, con una tattica di demolizione sistematica delle postazioni difensive e di debilitazione psicofisica degli avversari. Ma poiché le 170 mila cannonate non bastarono a piegare Famagosta, Mustafà Pascià passò alle mine, con un impiego di esplosivo senza precedenti. I turchi scavarono nottetempo lunghissimi cunicoli sotto il fossato fino alle fondamenta dei forti, minandole con forti cariche esplosive. Vasti tratti di postazioni saltarono per aria sotto i piedi dei veneziani, mentre i turchi attaccavano selvaggiamente a più ondate. L’8 luglio caddero su Famagosta 5 mila cannonate e fu il preludio ad un ennesimo attacco generale che l’indomani si scatenò più massiccio che mai, contro il forte del Rivellino. Per arrestare i turchi, Bragadin non esitò a dar fuoco alle polveri ammassate nei sotterranei della piazzaforte, sacrificando trecento soldati veneziani ed il loro comandante, Roberto Malvezzi. Con loro sotto le macerie del forte rimasero sepolti migliaia di ottomani. A difendere Famagosta rimanevano ormai duemila uomini, in gran parte feriti, debilitati dalla fame e dalle fatiche. Da tempo, esaurite le vettovaglie, militari e civili ricevevano come razione giornaliera un poco di pane malfermo ed acqua torbida con qualche goccia di aceto. La situazione era disperata, anche se finalmente la Santa Lega contro il turco veniva sottoscritta il 20 maggio da tutti gli Stati interessati, ma la flotta spagnola arriverà a Messina, dove si erano date appuntamento le navi alleate, solo alla fine di agosto, quando ormai Famagosta veniva costretta alla resa. Il 29 luglio i difensori respinsero un’altra terribile offensiva del nemico: decine di migliaia di turchi si alternarono all’attacco che continuava ininterrotto per oltre 48 ore, fino alla sera del 31. Per la prima volta, dopo 72 giorni, i cannoni ottomani finalmente tacquero; centinaia e centinaia di turchi giacevano sul campo di battaglia e sotto le mura della fortezza, tra gli altri, lo stesso figlio primogenito di Mustafà Pascià. Il primo agosto rimasero solo munizioni per una giornata di fuoco, mentre i difensori ancora validi erano ridotti a settecento (in media uno ogni 50-60 metri del perimetro difensivo). Mustafà, ignorando le misere condizioni degli assediati e preoccupato per le gravi perdite subite, offrì ai veneziani patti insolitamente generosi ed onorevoli. Marcantonio Bragadin, presagendo quanto sarebbe accaduto in caso di resa, respinse l’offerta. La maggior parte degli ufficiali, dei soldati, la stessa popolazione invocavano la fine della impari battaglia. I rappresentanti dei cittadini, il vescovo, i magistrati, appositamente convocati, optarono tutti per la resa. Il 4 agosto, dopo dieci mesi di assedio, i turchi poterono entrare a Famagosta. Come previsto da Bragadin, Mustafà Pascià esasperato per la morte del figlio e dalla mancata espugnazione di Famagosta, soprattutto dopo aver accertato l’esiguità numerica dei veneziani, non rispettò i patti e fece massacrare a tradimento tutti gli ufficiali e deportare come schiavi i soldati. Bragadin, dopo tredici giorni di atroci torture, venne scuoiato vivo; lentamente staccarono dal suo corpo vivo la pelle, spogliandola in un sol pezzo, a cominciare dalla nuca e dalla schiena, e poi il volto, le braccia, il torace e tutto il resto. La pelle riempita di paglia venne esposta a guisa di trofeo sull’antenna più alta della nave di Mustafà Pascià. Durante il periodo dell'assedio a Famagosta venne alla luce un tale Vincenzo Bronzo, dalla cui unione con una certa Caterina, nacque Costantino fra il 1591 e 1596. Questo Costantino Bronzo, non si sa per quale arcano motivo, lo ritroviamo a Favara nel primo quarto del sec. XVII, dove il 24 giugno 1623 sposò la girgentana Francesca Puma, da cui sono venuti alla luce Agata il 17 8 1628, Gerlando il 25 2 1634 e Francesca il 14 9 1636, morta il 13 11 1637 e sepolta nella madrice. Gerlando Bronzo l'8 novembre 1658 sposò Antonia Caracausi da Grotte, da cui sono nati Rosalia Margherita il 20 11 1659; Antonina il 13 10 1662; Agata il 16 1 1665; Grazia il 13 11 1667; Francesco il 2 5 1669; Natale Stefano il 22 12 1670; Francesca Paola il 14 11 1675. Gerlando Bronzo, il 7 gennaio 1687, in seconde nozze, ha sposato Vita Giovanna, da cui, però, non ha avuto figli. Dei figli di Gerlando Bronzo e Antonia Caracausi si sono sposate: Margherita (con Sciumè Nicolò da Racalmuto nel 1678, da cui non risultano figli nati a Favara), Antonina (con Nobile Gaspare nel 1683, da cui ha avuto 10 figli), Agata (con Rizzo Francesco nel 1687, da cui ha avuto 6 figli) e Francesca (con Gucciardino Michelangelo nel 1691, da Racalmuto da cui ha avuto 10 figli). La famiglia Bronzo si è estinta per mancata discendenza mascolina.
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22 - Ex feudo Deli, natura incontaminata?
Passava una locomotiva per Favara e lambiva l’abitato ad oriente, oltrepassava il vallone, s’insinuava per la c.da Rinella, sfiorava la necropoli ed entrava nelle viscere delle rocche di Stefano. Oltrepassata la galleria, abbandonava il territorio di Favara ed entrava in quello di Naro, attraversando l’antico feudo Deli. Qui i viandanti potevano godere la vista della natura incontaminata, un’oasi di pace, dove le pochissime presenze antropiche s’inserivano e vivevano in perfetto equilibrio col creato. Quei luoghi, nonostante la presenza devastatrice dell’uomo, ancora oggi restano quasi incontaminati, soprattutto quelli di difficile accesso, tranne che per i bordi dell’antica strada ferrata, dove l’ambiente viene ripetutamente violentato da discariche abusive, comprese le carcasse di automobili. Purtroppo il vituperio ed il degrado dell’ambiente è strettamente proporzionale al grado di civiltà degli indigeni ed ancora la strada da percorrere è molto lunga per capire che la natura col tempo si riprende ciò che gli viene tolto.
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Via Roma 1904 ca. già via Vittorio Emanuele |
23 - A strata nova
Nel ventennio che seguì l'annessione della Sicilia al Regno d'Italia, avvenuta nel 1866, a Favara, come in altri Comuni, ci fu un fermento urbanistico mai avvertito prima. Fino a quel periodo il paese era diviso in due grossi quartieri dalla cosiddetta via Lunga: a sud quello della Madrice e a nord quello di S. Antonio. Non era un caso se questa via era chiamata "Lunga": percorreva l'intero paese da est a ovest, dalla "valle degli orti" alla "pietra della croce" e lo tagliava nettamente in due: una sorta di decumanus maximus. Contrariamente, però, alla centuriazione e all'urbanistica cittadina romana, non c'era un vero e proprio cardo. L'asse mediano nord-sud che collegava i due quartieri era rappresentato dalla via del Carmine e dalla via Fasulo, la prima a nord dalla via Lunga e la seconda a sud. Le due vie erano sfalsate nei punti d'innesto con la via Lunga, per la presenza del belvedere del collegio di Maria. Nel 1870, sotto la sindacatura del notaio Gerlando Vaccaro, parte del terrapieno costituente il belvedere del collegio di Maria venne sventrato e lì venne realizzata una nuova strada di collegamento fra i due quartieri che assunse, volgarmente, il nome di "Strata nova". La via del Carmine non svolse più quel ruolo di arteria di collegamento che fino a quel periodo aveva avuto. Dopo la morte del Re d'Italia Vittorio Emanuele II di Savoia avvenuta il 9 gennaio 1878 la "Strata nova", la via Fasulo ed a seguire l'asse viario che arrivava alla periferia sud del paese (inizio dell'attuale via Roma, presso l'innesto con via San Calogero) venne chiamata via Vittorio Emanuele. La via Lunga mantenne questo toponimo fino al 1881 circa, ma poi venne rinominata via Umberto. Limitatamente al tratto terminale sud del paese, che nel frattempo si era espanso grazie a nuove costruzioni, nei primi anni del 1900, la via Vittorio Emanuele venne rinominata via Roma.
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24 - L'antica pescheria che non c'è più
Anticamente, prima della realizzazione della pescheria, il pescivendolo appena arrivato a Favara, si presentava all’autorità municipale per la meta (il prezzo di vendita). Questa autorità era come una lupa affamata, un’idra dalle cento teste. Il sindaco, l’assessore al ramo e gli altri assessori, il capo delle guardie di consumo facevano aspettare un’ora e più il pescivendolo e il popolo per lo smercio del pesce. Sceglievano i migliori bocconi per loro e il pescivendolo spesso doveva far molte regalie. Poi si aspettava il veterinario che non si sa quali malattie doveva constatare nei poveri pesci. Sulla rimanenza poi si assegnavano prezzi bassi e il popolo favarese correva per comprare. La calca spesso sfociava in una indegna lotta, un putiferio, un vocio colorato di bestemmie e poi anche pugni e qualche volta coltellate. L’uomo per bene, per la sua pace, spesso rinunciava all’acquisto. Il pesce diveniva così merce per privilegiati. Finalmente quando alcuni dei consiglieri comunali si videro nella quasi impossibilità di arraffare la merce proposero la libera meta e così quando Favara sembrava finalmente uscita dalla schiavitù i pescivendoli, stanchi delle vessazioni, non si fecero più vedere a Favara. Quando la pesca era abbondante ed a Girgenti non si riusciva a venderlo tutto, i pescivendoli portavano il sopravanzo a Favara, senza qualità e freschezza. Così Favara cominciò a vedere il pesce raramente e di cattiva qualità. Anche per la carne la situazione non era migliore: ogni venerdì veniva abbattuto un bue vecchio o ammalato e spesso nulla. Intorno al 1870, per sopperire a questa mancanza alle spalle di una viuzza dietro la madrice venne realizzata la pescheria comunale (in via Mercato dei pesci) La pescheria funzionò fino alla fine degli anni “60-inizio anni “70 del secolo XX, poi finì diroccata (nella foto si vede l'area di risulta).
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Bera Pietro di Luigi classe 1922 distretto di Brescia 66° Fanteria |
25 - Il milite ignoto ha un nome (di Franco Pullara)
Per un errore nella disposizione delle salme di tre militari morti nel 1943, rispetto ai registri comunali, il Milite Ignoto potrebbe non essere ignoto. Questa che vi raccontiamo è una storia incredibile dove gli errori della burocrazia giocano un ruolo predominante. I fatti ebbero inizio il 15 luglio del 1943. Gli americani erano già sbarcati in Sicilia, quando tre militari italiani, fuggiti da Punta Bianca, furono accolti, in contrada San Benedetto, da un’anziana coppia favarese, che offrì loro una minestra di lenticchie e pochi abiti civili, sufficienti solo per uno dei tre giovani. Dopo essersi rifocillati, abbandonarono la casa rurale dirigendosi verso la vicina ferrovia. Ad un certo punto, un gruppo di soldati tedeschi su una jeep armata di mitra, anche loro in fuga, si accorse della presenza dei tre. I tedeschi prima li superarono, poi improvvisamente arrestarono la corsa dell’automezzo e aprirono il fuoco, uccidendoli. Per una ingiustificata paura di ritorsioni, poi, i tre militari furono seppelliti dai contadini, non dove trovarono la morte, ma nella vicina contrada Quattro Strade, in territorio di Aragona Caldare. Quattro mesi dopo, il sindaco di Aragona rendeva noto al suo collega di Favara che erano state “rinvenute seppellite le salme di due militari ed un civile non identificabile”. Ed è sempre il sindaco di Aragona a rendere noti i nomi dei due militari, Motcovick Mario fu Stefano e Bera Pietro di Luigi classe 1922 distretto di Brescia 66° Fanteria. Il terzo cadavere è del militare che ha ricevuto gli abiti civili dalla coppia di anziani di Favara. A questo punto nella storia delle tre vittime di guerra entrano gli errori della burocrazia che diventeranno una costante fino ai nostri giorni. Tumulati al cimitero di Piana Traversa, a Favara, nei registri comunali e sulle lapidi i nomi vengono storpiati: Motcovick in Matteovich (nei registri) e Matteo Vich (sulla lapide); Bera viene cambiato in Berna. Secondo le prove in possesso del professore Gaetano Schifano, appassionato ricercatore di militari e civili dispersi, anche la posizione occupata nei loculi del cimitero rispetto ai relativi registri comunali risulta non corretta. Tornando alla nostra storia, è l’ottobre del 1948, quando i familiari di Pietro Bera riportano a Brescia i resti mortali del proprio congiunto. A questo punto resterebbero a Favara, Motcovick ed il militare con gli abiti civili, diventato il Milite Ignoto. Purtroppo i fatti dicono diversamente. Alle sette di mattina del 27 aprile 1995, la sezione che accoglie i soldati viene demolita, presente alla estumulazione delle salme è il professore Schifano. Dovevano trovare, la salma di Motcovick con la divisa militare e quella del commilitone diventato Milite Ignoto con gli abiti civili. Furono ritrovati due cadaveri con le divise miliari. Nel 1948 il padre di Pietro Bera non portò nella città d’origine il proprio figlio, ma il militare non identificato, quello che doveva essere per Favara il Milite Ignoto.
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L. V.Bertarelli nel suo studio del Touring Club Italiano on la segretaria Lena Papi - 1912 ca. |
26 - Note di una passeggiata ciclistica nel 1898 (Tratto da L. V. Bertarelli, Sicilia 1898 Note di una passeggiata ciclistica, a cura di Vittorio Cappelli, Sellerio editore Palermo, 1994)
“La suprema poesia di un paese come la Sicilia strappa al viaggiatore capace di intenderla dei brandelli del suo essere, e li trattiene dove il caso lo ha condotto a peregrinare. Siracusa e Girgenti, Selinunte e Taormina, l’Etna e Segesta sono amanti esigenti. Esse ci rubano per sempre un po’ della nostra anima, incatenano in eterno un po’ dei nostri ricordi. A compenso del loro sorriso, filtrano in noi, imperituro, un desiderio tormentoso di correre di nuovo ai loro incanti”. Sono queste le parole con cui Luigi Vittorio Bertarelli (1) volle incorniciare i suoi ricordi del suo viaggio in bicicletta, nel 1898, per alcuni luoghi della Sicilia (2). Tra il suo peregrinare, dopo avere visitato le zolfare di San Cataldo che lo avevano tutto rimescolato per le scene tragiche a cui aveva assistito, Bertarelli iniziava a pedalare rabbiosamente dirigendosi verso Girgenti. Quel giorno tutto gli andava di traverso, tranne il vento, il maledetto ponente che lo investiva diritto di fronte, fisso ed implacabile. La strada era completamente deserta, il terreno in qualche parte incolto, coperto di palme nane, i campi bordati di lunghe righe di agavi spinose, il cui scapo fiorito si alzava in fusti sottili e graziosi fino ad otto metri. Nell’aria ardente, che bruciava le fauci, tutto oscillava: dove una tumefazione del terreno portava la strada un po’ in su e l’occhio correva tangente alla curva che saliva, ivi il tremolio dell’aria calda era così vivo, che un fiume invisibile scorreva sulla terra. L’arsura traspariva dalle foglie anelanti, dai legni screpolati, dal suolo pieno di fenditure, dai colori, dal silenzio, dal cielo infuocato. Era un paesaggio africano. Non s’incontrava mai nessuno. O purtroppo si, qualcuno o qualche cosa s’incontrava. Incontrai dapprima una carovana sinistra: un uomo, certo un picconiere, stracciato come Giobbe, che accompagnava una dozzina di ragazzi carichi come muli, i carusi assoldati in qualche paese e che esso conduceva al lavoro. Più avanti, in mezzo alla strada, mi arrestai esterrefatto a un’orrida carogna di cavallo. Tre gambe erano volte in alto, stecchite e tese, la quarta era a due passi più lontano. Dei corvi disturbati volavano via crocidando; un nugolo nero di mosche e mosconi, ronzanti come uno sciame d’api, si abbatteva continuamente e si staccava dall’animale. Esso era ormai scarno a metà e disseccato. Forse era lì da quindici giorni; alcune costole avevano forato la pelle e sporgevano, dure, come una rastrelliera schifosa; il grosso capo disteso a terra, attaccato a un collo divenuto esile come un braccio, faceva spavento. Più lungi ancora, molti chilometri più avanti, passava una diligenza che, in qualche maniera, camminava ancora sulle quattro ruote sbilenche, al trotto dei suoi cavalli sfiancati. Due carabinieri trottavano avanti, due erano all’interno e tra di loro una torva figura di indigeno prigioniero. Triste convoglio! Passo, poco dopo, in Favara, forse il paese più malfamato della Sicilia. Un maggiore dell’esercito mi disse che per tutto il tempo che esso era stato di guarnigione a Girgenti, alla festa patronale di Favara si usò distaccare una compagnia di soldati in aiuto ai carabinieri. Mezza compagnia stava di riserva, l’altra occupava gli sbocchi del paese, perquisendo tutti per togliere ogni arma. Eppure ad ogni festa qualcuno restava sul terreno, con una coltellata nel petto. Si dice che un Borbone di Napoli, verso metà del “800 aveva sul serio proposto, molto paternamente ai propri ministri di circondare Favara di uno steccato e dare fuoco al paese e ai suoi abitanti per distruggere la razza! È possibile che il clima torrido e la razza indomita contribuivano a mantenere usi e costumi feroci, ma non poteva essere altrimenti, né poteva l’educazione penetrare laggiù, dove pure così nobilmente si provava dal popolo il sentimento dell’onore e della lealtà, quando in terreni fertili, con popolazione laboriosa e sobria, la distribuzione della ricchezza era tale, che invisibili latifondisti che ignoravano le loro proprietà, piccoli usurai nascosti e amministrazioni comunali in mano ai partiti, secondate dalla debolezza o dalla connivenza del governo, facevano sì che tranne per i privilegiati, la vita fosse di uno squallore che conduceva necessariamente all’abiezione. Diverse locande, indicate per le migliori in città agricole di 20 e più migliaia d’abitanti erano, in generale, casupole dove stava scritto: Qui si fa da mangiare. Si entrava e si anticipavano i pochi soldi necessari, perché i padroni erano così poveri che non avrebbero potuto comprare la pasta, le uova e quello che si chiedeva, e si aspettava con pazienza che lo scarso pranzo venisse cucinato. Ciò poteva richiedere da una a due ore. Non c’era da arrabbiarsi: era l’uso. A Siculiana mi indicarono una locanda, l’unica del paese. Era un androne terreno senza finestre, aperto sulla strada con un gran portone. Un antro cieco e profondo quindici metri. I due terzi, verso il fondo, servivano da stalla a una dozzina di muli; il terzo anteriore era un pandemonio di legna, fieno e paglia, cesti, otri, giare, due capre e un fornello da un lato. In mezzo a questo diavolio passavano i muli per entrare in stalla lasciando abbondanti tracce. Vidi anche un’orrenda megera sgangherata, spettinata, stracciata, più sporca dell’immondezzaio in cui si agitava. Povere scimmie! Chi mai vi calunniò tanto dicendo che l’uomo e la donna derivano da voi? Eppure quella era l’ostessa che doveva con le sue luride mani cucinarmi il pranzo! Ci volle una mezzora per combinare il mangiare: pasta, uova, patate, uva … e basta. Mentre si disponeva il pranzo volli vedere la camera. Mi condussero nell’antro, fin quasi in fondo. Credevo di asfissiare per il fetore. Poi su per una scaletta di legno a una stanzetta sui tetti, che serviva da sfiatatoio alla stalla. Là dentro c’era un magazzino di canne, di otri, di lanterne, delle lunghe filze di caciocavallo, tre o quattro galline e una branda con un saccone tutto cavo nel mezzo. Ma, soprattutto, c’era un puzzo ammorbante di stalla e pollaio. Sgombrate, lavate, scopate, pulite o porci animali! Pagherò quello che volete, ma cambiate questa stalla di Augìa! Fortunato Giobbe sul letamaio, lui, almeno, era all’aria aperta! Non m’intesero neppure. Dopo avere anticipato alla megera il denaro per la spesa, mi sedetti sul portone ad aspettare. Il sole era caduto e, sul crepuscolo tutti, dopo il lavoro dei campi, tornavano a casa da cinque, dieci chilometri di distanza. Chi portava giare d’acqua, chi otri di vino, chi fasci d’erba secca o lunghe canne dei fiori d’aloe, chi cesti di fichi d’India. Certi cantavano, la mano sulla bocca, canzoni moresche lente e melanconiche. Dappertutto era un vociare continuo, confuso, sgarbato, incomprensibile, come di gente che gridava per farsi intendere, di dar di gomiti per farsi largo, di urtare per attirare l’attenzione. Era tutto un mondo diverso dal nostro, più vivo, più grossolano, più violento: una tribù selvaggia di arabi trapiantati in Italia. Udii uno scalpitare di cavalli: entrarono in paese due campieri fieramente impostati su dei superbi animali, col fucile attraverso l’arcione. Due passi dopo di loro, solo e senz’armi, un signore. Che dico signore? Un signorotto fiero, bello provocatore, sprezzante: nulla da invidiare a don Rodrigo. Poi, più dietro ancora, quattro sue guardie armate, in montura sgargiante, anch’essi splendidamente montati. La cavalcata mi passò accanto di trotto serrato, senza curarsi di me, senza scansarmi di una linea. Io, che ero seduto, per un capello non andai con le gambe in aria. Ah, se avessi avuto quel … barone tra le mani! Ma io solo, pare, mi sdegnavo della sua non curanza per i piedi del prossimo. Tutti quanti si scansavano senza nulla dire. Il barone è d’un altro mondo, al quale non si appartiene né si può appartenere: lo stesso senso con cui suppongo i cani debbano guardare noi uomini. Tale è il punto a cui si trovano queste popolazioni. Quanta strada ancora perché divengano coscienti! Quella sera mangiai di grande appetito, poi mi coricai. Cominciarono a latrare dei cani, dieci, cinquanta, cento cani, un concerto infernale di cani. Che notte!
(1) Luigi Vittorio Bertarelli (Milano, 21 giugno 1859 – 19 gennaio 1926) è stato un geografo e speleologo italiano. Nel 1894 fu, insieme con Federico Johnson e con altri cinquantacinque velocipedisti, uno dei soci fondatori del Touring Club Ciclistico Italiano, che diverrà poi Touring Club Italiano nel XX secolo, di cui fu anche il primo presidente. Grazie alle molteplici iniziative da lui intraprese con il valido aiuto di Arturo Mercanti, che dal 1906 al 1915 fu Segretario Generale dello stesso T.C.I., il numero degl'iscritti superò ben presto la cifra di centomila. Diresse la compilazione della Guida d'Italia del Touring Club Italiano edita in 17 volumi a partire dal 1914, della Carta d'Italia del Touring Club Italiano in 58 fogli e dell'Atlante Internazionale del Touring Club Italiano;
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Bartolomea Vaccaro di Antonio e Rosa Lena Vaccaro |
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27 - Storie dimenticate
Ci sono grandi storie che appartengono all’umanità; ci sono microstorie che appartengono ad una piccola comunità, e poi ci sono storie afferenti la stretta cerchia familiare, quelle destinate a perdersi nel tempo di una o due generazioni. Queste ultime, tranne particolari eccezioni, non le riscontreremo sicuramente nei libri di storia, però, com’era in uso nei tempi passati, quando si consumavano particolari drammi che toccavano il cuore di una ristretta cerchia familiare, quel particolare ricordo veniva impresso nella lapide a perenne (si fa per dire) ricordo. I cimiteri, in questo senso, sono dei libri aperti, a cui però, col tempo, vengono strappate inesorabilmente pagine fino alla totale cancellazione. La storia riguarda Bartolomea Vaccaro, quarta di otto figli di Antonio e Rosa Lena Vaccaro, nata il 26 marzo 1886 e strappata alla vita il 24 gennaio 1910 a meno di 24 anni. Bartolomea morì dopo aver dato alla luce il figlio Vincenzo il 13 gennaio 1910 che, ahimè, pure lui morì poco dopo tempo, il 20 ottobre 1913. Vincenzo era nato dal matrimonio di Bartolomeam nel 1909m con Calogero Salamone di Vincenzo e Rosalia Piscopo. Calogero Salamone l’anno successivo si risposò con Giovanna Avenia. Antonio Vaccaro, sindaco di Favara e capitano morto nella I Guerra Mondiale, fratello di Bartolomea e la mamma Rosa vollero porre questa lapide con queste toccanti parole. Nella lapide del piccolo Vincenzo - ormai non più esistente al cimitero di piana Traversa a causa della estumulazione della salma - riportava la scritta: FUI VINCENZINO SALAMONE VACCARO QUATTRO ANNI NON VISSI E IN CIELO MI VOLLE LA MAMMA CHE IO NON CONOBBI ANSIOSA DI PRODIGARE TUTTI QUEI BACI CHE NON POTÈ DARMI QUAGGIÙ 13 GENNARO 1910 20 NOVEMBRE 1913
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28 - Radio Faraci: una voce fuori dal coro a Favara negli anni “70 (di Giuseppe Maurizio Piscopo)
La storia di radio Faraci ha avuto particolare rilevanza per il ruolo che ha rivestito negli anni “70 dello scorso secolo, come strumento di contro-informazione. Il fenomeno delle radio libere a Favara è stato così importante che il giornale L’Ora ha dedicato un paginone del suo inviato Umberto Rosso dal titolo: “Favara unita dalle radio”. Il periodo di radio Faraci corrisponde agli anni più violenti della storia d’Italia. Questa radio ha segnato una intera generazione di giovani che magari non divennero tutti militanti di qualche partito, ma di certo rimasero simpatizzanti ed elettori di sinistra. A parlarci di radio Faraci è il professore Giuseppe Alonge docente di Italiano, Latino e Storia nel liceo M. L. King di Favara.
Quando nasce radio Faraci? Radio Faraci nasce nel 1977 ed è l’espressione del movimento sessantottino, che va dal 1967 al 1977. A Favara arriva nel 1977 ma già altrove in Italia e in Sicilia erano entrate in tutte le frequenze le cosiddette Radio Libere. La prima radio libera in Sicilia nasce nel 1970 nel Belice in particolare a Partinico ad opera del sociologo Danilo Dolci che dal Trentino si era trasferito al Sud, in quell’area che era stata colpita dal terremoto la notte tra il 14 e il 15 Gennaio del 1968. Per sollecitare le istituzioni ad intervenire e denunciare lo stato di abbandono in cui versava l’area terremotata inventò una radio che restò accesa appena 27 ore e in quelle ore il cronista Danilo Dolci denunciò i delitti culturali, morali e politici che si stavano consumando in quei giorni in quel territorio. La sua radio fu così violenta nel linguaggio e spregiudicata nel fare i nomi, che dopo 27 ore di trasmissione i Carabinieri corsero e si affrettarono a sequestrarla. È l’inizio delle radio libere in Sicilia. Alcune sono semplicemente commerciali e i programmi sono solo musicali, espressione delle Hit Parade di quel periodo, programmi intervallati da pubblicità a pagamento che per alcune emittenti diventò un vero e proprio business. A fronte delle radio commerciali, cominciano a nascere le radio di movimento che sono la voce delle lotte degli studenti e degli operai. Processano ininterrottamente la classe politica al governo responsabile della condizione economica e sociale del Paese dove ignoranza, sottosviluppo, sfruttamento ed emigrazione dal Sud la fanno da padroni. Le radio di movimento non hanno alcun finanziamento e non sponsorizzano e pubblicizzano prodotti di nessun genere, perché queste sono le tessere del mosaico capitalista ritenuto, dal movimento, l’unico reo della sub condizione umana, costretta a vivere di stenti e disperazione. Le radio di movimento funzionano col contributo dei militanti per dare voce alla lotta di classe del movimento operaio, dei contadini, degli studenti e delle donne che già hanno dato vita al movimento femminista per rivendicare parità di diritti, di dignità e di eguaglianza con il suo simile: l’uomo.
Inizialmente un gruppo di giovani si riunisce nel cortile Copernico per ascoltare musica e per parlare di politica. I giovani del futuro movimento scambiavano le proprie idee o passeggiando o stando seduti sui gradini delle costruzioni che sorgono lungo il corso principale, il sabato diventava più numeroso perché rientravano, alla fine della settimana, gli studenti universitari che frequentavano a Palermo o a Catania. Più passavano i giorni e più cresceva il numero, allora chiamato contestatori della società. E così, che si ritenne opportuno trovare un locale dove potersi incontrare, discutere, ciclostilare i volantini, progettare manifestazioni e organizzare il dissenso. Furono trovati due ampi vani a piano terra nel Cortile Copernico, traversa del corso principale del paese. Il proprietario era un vecchio compagno dissidente del PC, che fu felice di locarlo agli extraparlamentari, così si sentì anche lui dissidente ed extraparlamentare. Il collettivo proletario quindi aprì in Cortile Copernico nell’autunno del 1976. Io ero rientrato dalla Sardegna per trasferimento al Liceo Scientifico di Casteltermini. Quindi da Giugno del ’76 ad Ottobre passai il mio tempo a conoscere la situazione politica del mio paese e incrociavo i contestatori che facevano riferimento chi a Lotta Continua, chi a Il Manifesto, chi al PDUP. Decidemmo di affittare un locale per progettare un programma di lotta. È doveroso ricordare che il gruppo iniziale era costituito da: Pasquale Castellana diplomato, Saro Moscato universitario, Franco Moscato, fratello di Saro, studente del professionale, Franco Zarcone giovane disoccupato, i fratelli Lillo e Totò Liotta studenti universitari, Antonio Marotta universitario in Medicina, Lorenzo Di Caro giovane pensionato per un incidente sul lavoro all’età di 15 anni, Diego Matina studente, Cosimo Cassaro dipendente SIP, Carlo Marotta imprenditore, Angelo Castronovo studente, Enzo Di Caro studente, Antonio Di Stefano universitario, Lillo Infurna universitario, Antonio Pecoraro maestro. Come gruppo ci si incontrava il sabato, ma durante la settimana i meno impegnati si incontravano per discutere seduti o per ascoltare musica psichedelica e canzoni di lotta preferibilmente di Francesco Guccini, gli Inti-Illimani, Claudio Lolli, Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Maria Carta che saranno poi gli autori delle nostre ore musicali nella futura Radio Faraci.
A chi venne l’idea di fare una radio? Ad un certo punto ci si accorse che i volantini anche se venivano distribuiti per il corso principale o in Piazza Cavour avevano sempre gli stessi lettori. Studenti, pensionati e giovani nullafacenti che frequentavano questi luoghi che sono stati l’eterno spiazzo per le persone di tutti i tempi. Per potere parlare alle casalinghe, agli uomini e a tutti quelli che non gradiscono passeggiare o fermarsi in Piazza Cavour a discutere, sull’onda delle radio libere si pensò di fornirci di questo strumento per allargare il dissenso e coinvolgere più protagonisti. A Favara già esisteva una radio ben collaudata che era lo specchio della società borghese allora dominante e padrona. Radio Favara 101, così si chiama ancora adesso, prima trasmetteva dal centro del paese poi si trasferì nei locali del convento di San Francesco e da lì informava e sollazzava gli ascoltatori con musica leggera, con interviste ai notabili e alla classe dirigente del paese fatta di democristiani e socialisti. La pubblicità era regolarmente a pagamento. Un’altra radio sorse sul corso principale ed era sul modello della 101 con pubblicità e musica a richiesta e Hit Parade del giorno: Radio Centrale. Quando si parlò al collettivo di radio, a nessuno venne in mente una radio diversa da quella dei movimenti di protesta, per cui già a priori sapevamo tutti che non sarebbe esistita la pubblicità a pagamento, che la musica sarebbe stata quella delle canzoni di lotta, della contestazione, della cultura alternativa, dell’emancipazione della donna, e pertanto il costo della gestione era a carico dei militanti. L’idea della radio non fu di un singolo compagno, ma pian piano era maturata l’idea di una radio tutta nostra, per fare controinformazione e denunciare la situazione economica prodotta e gestita dai partiti dominanti.
Chi scelse il nome di Radio Faraci? Un nome venne proposto da tanti e da tutti. Alla fine fu accolta la proposta di Diego Matina con un nome che rispondeva alla collocazione geografica del paese di Favara: Radio Faraci per ricordare che ad Ovest del nostro paese c’è la collina di Caltafaraci che in stretto siciliano noi pronunciamo “cantafaraci”. Al collettivo mi sono permesso di illustrare perché quella collina si chiamasse Caltafaraci ed ancora oggi si trova nel territorio di Agrigento. Il nome cantafaraci ho informato l’assemblea, nella tradizione popolare, veniva detto quando dalla montagna Favara giungevano i lamenti dei torturati dal faraone di Agrigento, appunto Faraci. La tortura consisteva nell’introdurre nel ventre di un cavallo di rame il condannato a morte e ai piedi del cavallo veniva acceso un fuoco. Il condannato man mano si scaldava il rame, cominciava ad emettere prima grida e poi lamenti che uscendo dalla bocca del cavallo sembravano un canto. Nel borgo Favara, posto a valle, quel lamento veniva percepito dalla gente che ironicamente esclamava: Canta Faraci! La denominazione della radio forse è inappropriata dissi a tutto il collettivo, ma il Faraci della radio non canta ma si ribella e denuncia le malefatte dei potenti del nostro tempo. In sintesi radio Faraci era ed è stata la voce degli esclusi, di chi non aveva avuto fino al quel momento la parola e la voce per ribellarsi.
So che il trasmettitore venne fornito da Radio Sud Palermo e il mixer di sei canali da un tecnico di Caltagirone Con l’accordo di tutti i compagni iniziò la corse alla realizzazione di Radio Faraci. In poco tempo i fratelli Carlino Pippo e Carmelo, studenti universitari uno alla facoltà di Ingegneria e l’altro in Architettura trovarono il trasmettitore che venne fornito da un compagno di Radio Sud Palermo; il mixer di sei canali venne procurato da Cosimo Cassaro che con il suo lavoro alla SIP venne a contatto con un compagno di Caltagirone e Pasquale Castellana, uno dei pochi a disporre di una macchina lo andò a ritirare dopo che noi avevamo raccolto un po’ di soldi per comperare l’usato.
La radio ebbe sede a Favara nel cortile Priolo la parte alta di via Zanella, centro storico della città. Che atmosfera si viveva nel 1977 all’interno della radio? Radio Faraci viene montata in cortile Priolo, vicino la chiesa San Vito, in una casa di proprietà del Signor Giuseppe Fanara. Quando cominciò a trasmettere, nel Febbraio del ’77 gli ascoltatori si accorsero subito che questa era una radio diversa, aperta a tutti, purché venissero rispettate le regole di una radio di movimento e di lotta. Vennero donne, anziani, vecchi compagni minatori, i quali invece di stare seduti in Piazza Cavour venivano ad ascoltare un po’ di musica che Lillo Bellomo e Calcedonio Zarcone offrivano facendo sentire canti di minatori e vecchie nenie delle nostre antenate. Ricordo che una sera si è esibito dal vivo il gruppo popolare favarese ed altri musicisti. Gaetano Ricotta e Salvo Patti universitari a Bologna quando si trovavano in paese o a Bologna facevano sentire la loro voce intervenendo sui problemi del momento o mettendoci addirittura in collegamento con Radio Onda Rossa. Atmosfera di novità e di festa si respirava dentro Radio Faraci. Era una conquista del movimento ed era la voce del movimento stesso. Il massimo del coinvolgimento della città e delle aree circostanti fu quando i compagni di Radio Popolare di Milano ci informarono che stava arrivando Roberto Mander per raggiungere il confino di Linosa, accusato per la strage di Piazza Fontana avvenuta nel 1969 assieme a Pietro Valpreda. Al seguito di Roberto Mander c’era tutta la stampa nazionale: da Paolo Liguori (oggi uomo di punta di Mediaset), allora con lo pseudonimo di straccio firmava gli articoli su lotta continua. Miriam Mafai moglie di Giancarlo Pajetta corrispondente dell’Unità, Stefano Chiodi che scriveva articoli per il periodico L’Europeo e L’espresso e decine di compagni milanesi e romani. Anch’io accompagnai Roberto assieme ad Enzo Di Caro e da lì scrissi degli articoli per il quotidiano dei lavoratori che era l’organo di avanguardia operaia e poi di democrazia proletaria. Per le forze dell’ordine Radio Faraci era complice e connivente con i terroristi nazionali. La situazione precipitò quando il 16 Marzo del ’78 a Roma in Via Fani si consumò la strage delle guardie del corpo e il sequestro di Aldo Moro. Radio Faraci che faceva da ponte con Radio Popolare, Radio Onda Rossa di Bologna e le radio di movimento romane divenne il centro di informazione per aggiornare le condizioni di Mander. Fu un vero e proprio terremoto. Seguimmo con ansia ed attenzione sia i terribili fatti nazionali che quelli locali. Ci apostrofarono terroristi e di conseguenza il controllo era diventato più rigoroso. Furono due mesi di sgomento, apprensione e di naturale condanna del criminale gesto delle Brigate Rosse. La gente aveva difficoltà a distinguerci dalle BR perché noi eravamo extraparlamentari dell’ultrasinistra, per cui per l’opinione pubblica non c’era alcuna differenza. Il massimo della rabbia esplode il 9 Maggio quando viene trovato a Roma il cadavere di Moro e sulla linea ferroviaria Palermo-Trapani il cadavere di Peppino Impastato. Radio Faraci si mette subito in contatto con Radio Aut ma al telefono rispondono voci a noi sconosciute e subito abbiamo capito che erano dei poliziotti che presidiavano lo studio della radio. La sera i partiti dell’arco costituzionale hanno organizzato la manifestazione e noi ci siamo aggregati sia per protestare contro le BR sia contro la mafia sicuramente l’assassina di Impastato. 2/3 del corteo favarese si mise dietro lo striscione di Democrazia Proletaria, la lista in cui era candidato Peppino a Cinisi e io, Peppe Alonge, a Favara. L’onorevole La Russa, Filippo Lentini e il PC alla fine della sfilata per la città non ci hanno fatto salire sul balcone del comune assieme a loro per il comizio conclusivo e la condanna degli attentati mafioso-brigatista. Per loro noi di DP ed Impastato eravamo brigatisti e quindi terroristi per cui non avevamo diritto di parola. La rabbia è esplosa anche nei compagni più riflessivi e pacati. Impastato dicevano era un brigatista ed è morto mentre preparava un attentato sul binario da dove sarebbe passato il treno Palermo-Trapani. Da quel momento le radio di movimento approfondiscono le cause della morte di Peppino Impastato e per noi fu subito, senza ombra di dubbio, delitto di mafia, camuffato per atto terroristico. Il tempo è galantuomo e subito si seppe che Impastato prima fu ucciso in un casolare e poi fu fatto brillare sulla ferrovia: ucciso due volte. Peppino io l’avevo incontrato in una riunione di radio libere collegate alla FRED (Federazione Radio ed Emittenti Democratiche), prima a Bagheria e poi ad Enna dove mi avvicinò e volle sapere notizie sulla lista di DP e soprattutto della gestione del sequestro Moro.
Perché la radio chiuse nel 79? Il periodo di vita di Radio Faraci corrisponde agli anni più violenti della storia d’Italia. Dal 9 Maggio in poi il nostro tragitto è stato Favara-Cinisi per partecipare al funerale e alle varie manifestazioni pertinenti la morte di Peppino. Intanto il Signor Fanara ci invitò cortesemente a liberare l’immobile perché l’avrebbe dovuto restaurare per adibirlo a civile abitazione. La verità era tutt’altra. La gente gli rimproverava di avere affittato una casa a dei brigatisti e non degli amanti della musica di Claudio Villa e Luciano Tajoli. Sloggiammo e trovammo una soluzione nel quartiere Palma Oliva notoriamente conosciuto come la piccola Mosca di Favara. È stata chiamata così perché il quartiere era abitato da minatori e alle elezioni le sezioni del quartiere erano un voto plebiscitario per il PCI. Quartiere rosso dunque. L’estate del ’78 di Radio Faraci è segnata da questa pausa e per riprendere le trasmissioni a fine anno da un altro punto della città, molto più difficile, vista la posizione del quartiere per cui le onde sonore non possono coprire tutta la città. Intanto, in quel mese di Settembre mi sono dovuto allontanare perché mia madre era stata colpita da un tumore ai polmoni per cui dal Settembre del ’78 all’8 Marzo del ’79, giorno del suo decesso, sono stato travolto da una impensabile tragedia della quale fui io il massimo responsabile della gestione per tentare l’impossibile per un’eventuale guarigione. Intanto la morte di Moro, lo sbandamento del movimento a livello nazionale si è ripercosso anche sulle radio. Nelle grandi città le radio resistettero ancora per un po’, ma furono costrette ad abbassare i toni o addirittura vennero bloccate dalla magistratura. Radio Faraci rimase in vita un paio di anni, ma credo che abbia lasciato il segno in una intera generazione di giovani che magari non divennero tutti militanti di qualche partito ma di certo rimasero simpatizzanti ed elettori di sinistra.
Radio Faraci trasmetteva sui 103,00 MHz. Furono trasmessi parecchi dibattiti sui grandi temi come l’aborto, il nucleare, il divorzio, i problemi della carenza idrica. Come reagiva la gente a questi dibattiti? Radio di movimento vuol dire anche coinvolgimento degli ascoltatori alla realtà quotidiana dibattendo i problemi che allora erano i più scottanti: il divorzio, l’aborto, l’occupazione, il nucleare e qualche anno più tardi i missili di Comiso, il Sud e l’abbandono delle campagne, l’eterno problema dell’acqua. La gente telefonava, chiedeva spiegazioni e proponeva soluzioni.
Radio Faraci e radio Aut di Cinisi. Che rapporto c’è stato tra le due radio di contro-informazione? Il rapporto tra Radio Faraci e Radio Aut s’intensificò nella primavera del 1978 quando DP riuscì a presentare la lista per il rinnovo dei consigli comunali a Cinisi e Favara. Fu una campagna rovente primo perché era in corso il sequestro di Aldo Moro e poi perché il 9 Maggio vennero uccisi sia Moro che Impastato. Il 25 Aprile del ’78 venne a sostenere le liste siciliane di DP, come detto a Cinisi e Favara, il professore Pino Ferraris, docente di storia contemporanea all’università di Torino e Camerino. La mattina aveva comiziato a Cinisi, la sera i compagni con una macchina lo accompagnarono a Favara dove alle 20 in Piazza Cavour parlammo ad una folla di migliaia di persone. Mi venne spontaneo chiedere a microfono aperto che impressione avesse avuto della realtà di Cinisi. Mi rispose con queste testuali parole:- “Se Impastato non lo fanno fuori prima sicuramente a Cinisi prenderemo il consigliere”. Impastato non venne mai a Favara e i nostri Rapporti furono di movimento e di lunghezze di onda. Dopo la morte ci fu tutt’altro rapporto con Cinisi, con la mamma di Peppino e con Giovanni.
Peppino Impastato e Danilo Dolci con la radio dei poveri Cristi avevano capito che la Sicilia stava per essere soffocata dalla mafia e da una certa classe politica. Entrambi sono stati massacrati dal potere. Ecco quello che i siciliani non hanno capito: chi sta veramente dalla loro parte… Giuseppe Impastato e Aldo Moro muoiono lo stesso giorno 9 maggio 1978. Sulla stampa sono apparsi grandi articoli per la morte di Aldo Moro e un trafiletto su Peppino Impastato… Peppino ebbe rapporti politico culturali con Danilo Dolci e prese spunto da Danilo l’idea della radio come strumento di comunicazione e di denuncia. I responsabili della miseria della Sicilia erano la DC e quelli come Gaetano Badalamenti. Nell’estate del ’78 come radio, come DP e come movimento venne un gruppo folk da Cinisi creato da Peppino. Ricordo, che la ballata che cantarono all’inizio e alla fine dello spettacolo si concludeva così: “Una data unni scurdamu, chiddra di lu 9 Maggio”. Ovviamente la coincidenza della morte di Peppino nello stesso giorno della morte di Moro fu fatta passare in silenzio, il suo valore e il suo messaggio. C’è voluta tutta la cultura e la forza dei democratici e della scienza del Dottor Professor Ideale del Carpio, medico legale del policlinico di Palermo per sbugiardare la versione ufficiale delle forze dell’ordine sulla morte di Peppino Impastato. Del Carpio accertò con la sua autopsia che già sulle rotaie della ferrovia Peppino era morto, ucciso con diversi colpi di arma da fuoco. Poi c’è voluta la determinazione di Umberto Santino, storico e militante palermitano per dimostrare che la versione dei servizi segreti, i quali dicevano che Impastato era un terrorista, era solo un’invenzione politica per allontanare i sospetti dai reali mandanti ed esecutori del delitto: La mafia su ordine di Badalamenti. Oggi dopo 50 anni in tutte le scuole il 9 Maggio viene ricordato Impastato come martire della mafia e da allora scuole, vie e quanto altro hanno preso la denominazione di Peppino Impastato vittima della mafia. Finita la DC nessuno si ricorda più di Moro, dovrà finire la mafia invece per dimenticare Impastato.
Guido Pollice, Roberto Chiodi e molti altri giornalisti sono passati dalla radio? Paolo Liguori, Stefano Chiodi e Pino Ferraris vennero a Favara e dai microfoni di Radio Faraci hanno salutato i compagni e i lettori di Favara.
E’ vero che questa radio faceva paura ai politici ? La prova che Radio Faraci fosse temuta dal potere l’abbiamo avuta la sera del 9 Maggio 1978 quando ci hanno negato la parola in Piazza Cavour alla fine di una manifestazione di cui i 2/3 del popolo di Favara era dietro lo striscione di DP con la scritta: “Peppino Impastato sarai vendicato dalla giustizia del proletariato”.
Avete mai ricevuto minacce alla radio? Le minacce furono un fatto quotidiano: telefonate anonime, macchine graffiate, ma la vera minaccia l’ho subita nell’Aprile del 1981 durante la campagna elettorale per il rinnovo dell’Assemblea Regionale, come sempre per noi infuocata e personale, quella volta era candidato Lorenzo Di Caro, per non candidare sempre Peppe Alonge, ma comunque io ero quello più in vista e la notte del 30 Aprile del 1981 ci hanno tagliato 800 ceppi di vigna piantata da due anni e che quell’anno avrebbe prodotto il primo raccolto. “Così impari mi dissero con una telefonata anonima”.
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