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Memorie storiche di Favara di Carmelo Antinoro

PERSONAGGI

 

Indice

Ambrosini Alessandro (avvocato, militare, figura poliedrica)

Ambrosini Gaspare (costituzionalista, deputato)

Ambrosini Vittorio (giornalista, militante, politico)

Bruccoleri Giuseppe (avvocato, giornalista)

Cafisi Stefano (possidente, arrendatario)

De Vecchi Vincenzo (garibaldino - segretario comunale di Favara)

Girgenti Antonio (questuante dei frati minori)

Giudice Gesuela (filantropa)

Guarino Gaetano (farmacista, sindaco)

Indelicato Vincenzo (pittore adornista)

Internicola Michele di Antonino (prefetto)

Internicola Michele di Pietro  (marinaio, viaggiatore)

Maniglia Francesco (maestro elementare e in calligrafia - fotografo)

Marrone Calogero (impiegato Comuni di Favara e Varese, Giusto fra le Nazioni)

Miccichè Gaetano

Morello Baganella Salvatore (tenore e pittore)

Palermo Camillo (insegnante, artista)

Parlato Valentino (giornalista)

Portolano Paolo (banditore)

Russello Antonio (scrittore)

Sajeva Domenico (giornalista)

Scaduto Francesco (docente, senatore)

Valenti Eugenio  (medico, storico)

 

 

Ambrosini Alessandro

 

 

Ambrosini Alessandro è nato a Favara il 6 febbraio 1891, terzo di sette figli del maresciallo dei RR. CC. Giovanni Battista (1846-1907) di Nola, in servizio a Favara, e della direttrice didattica favarese Carmela Lentini.

Frequentò le scuole elementari a Favara ed il ginnasio-liceo a Girgenti, dove si diplomò con menzione d'onore. Proseguì gli studi presso l'Università di Palermo, dove si laureò con lode nella facoltà di giurisprudenza. Combattente nella prima guerra mondiale, fu ferito e decorato con la Croce al merito. Vinse giovanissimo il concorso in magistratura e fu giudice ad Agrigento, Palermo, Torino e Bengasi.

Passato all'Avvocatura di Stato, pervenne ai più alti gradi.

Fu avvocato di Stato a Bengasi e Tripoli, ove operò con saggezza e intelligenza, sostenendo i diritti della popolazione locale, dalla quale ebbe numerosi attestati di stima e di fiducia.

Fu a capo dell'Avvocatura dello Stato della Libia, successivamente di quella distrettuale di Palermo e, quindi, avvocato generale a Roma.

Per i meriti acquisiti fu insignito di vari titoli, fra i quali quelli di Cavaliere di Gran Croce della Repubblica, Commendatore dell'Ordine della Stella d'Italia ed Ufficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro.

Il 30 giugno 1926 sposò Maria Lucchesi figlia del cav. Francesco, da Naro, del nobile casato dei Lucchesi Palli, donna di animo nobile, forte e gentile ed ha avuto sette figli, tutti laureati e professionalmente avviati nelle più alte cariche pubbliche e private.

Integerrimo nell'assolvimento dei doveri professionali, civici e morali, severo anche con se stesso, ma sempre aperto e disponibile con il prossimo, perseguì con costante impegno i valori della famiglia, della Chiesa e dello Stato.

Affezionato al paese, anche in età avanzata, amava tornare ogni anno a Favara, nella campagna di contrada Saraceno, ove trascorreva i mesi estivi con la famiglia.

Morì il 31 luglio 1992 alla veneranda età di 101 anni.

 

 

Ambrosinio Gaspare

(costituzionalista, deputato)

 

 

 

 

 

Ambrosini Gaspare è nato a Favara, nel cortile Legname, il 24 ottobre 1886, figlio del maresciallo dei RR. CC. Giovanni Battista (1846-1907) di Nola, in servizio a Favara, e della direttrice didattica favarese Carmela Lentini. Gaspare è stato primogenito di sei figli (cinque maschi e una femmina).

Nel 1908 si laurea in giurisprudenza e nonostante un concorso vinto per entrare in magistratura, preferì restare in ambito accademico. Dal 1909 fu docente universitario di diritto costituzionale. Nel 1935, dopo aver insegnato a Messina e Palermo, si trasferì a Roma per insegnare diritto coloniale.

Schierato politicamente al centro, Ambrosini durante il ventennio ebbe una posizione di neutralità nei confronti del fascismo. Già durante l'occupazione alleata della Sicilia, fu contro il separatismo, e fautore dell'autonomia dell'isola, e divenne uno dei padri dello Statuto speciale siciliano.

Il 24 luglio 1937 ha sposato Francesca Scaduto Mendola figlia dell’esimio professore di diritto ecclesiastico Francesco Scaduto e Angela Mendola, nipote dell’illustre barone Antonio Mendola.

Nel 1946 si candidò alla Camera dei Deputati con la Democrazia Cristiana, risultando eletto all'Assemblea costituente e partecipando in maniera considerevole, con la "Commissione dei 75", alla nascita della costituzione italiana. Fu componente della Seconda Sottocommissione, componente del Comitato di redazione, componente della Commissione speciale per l'esame del disegno di legge costituzionale che ha prorogato il termine di otto mesi per la durata dell'Assemblea Costituente dal 19 febbraio 1947 al 31 gennaio 1948, componente della Commissione speciale per l'esame delle leggi elettorali, componente della Commissione speciale per riferire sul disegno di legge che ha modificato il Decreto Legislativo 10 marzo 1946, per l'elezione della Camera dei Deputati, componente della Commissione speciale per riferire sul disegno di legge riguardante norme per la compilazione delle liste elettorali nella provincia di Gorizia, componente della Commissione speciale per l'esame del disegno di legge che ha dettato norme per la limitazione temporanea del diritto di voto ai capi responsabili del regime fascista.

Nel 1947 fu nominato presidente della Commissione degli affari esteri da Alcide De Gasperi.

Il 15 novembre 1955, venne eletto giudice della Corte Costituzionale dal Parlamento, di cui fu presidente dal 20 ottobre 1962 al 15 dicembre 1967. Venne poi rieletto il 12 ottobre 1966.

Non ebbe figli naturali. Morì a Roma il 17 agosto 1985 alla veneranda età di 99 anni.

 

 

Ambrosini Vittorio

(giornalista, militante, politico)

 

 

 

 

 

Ambrosini Vittorio (Favara, 26 febbraio 1893 - Roma, ottobre 1971) figlio del maresciallo dei RR. CC. Giovanni Battista (1846-1907) di Nola, in servizio a Favara, e dalla direttrice didattica favarese Carmela Lentini.

Vittorio fu un personaggio singolare che attraversò lo scenario combattentistico di entrambi i conflitti mondiali, con ripetuti spostamenti su opposti schieramenti politici. Attraversò i due conflitti mondiali ed il dopoconflitto con prese di posizione alternanti e contraddittorie. Già nel 1913 era a Berlino quale corrispondente del Giornale di Sicilia. Nel 1915 era un interventista di sinistra. Dopo Caporetto è andato volontario nei reparti d'assalto, col grado di capitano alla fine della prima guerra mondiale. Nel 1919, immerso nell'ambiente futurista, assieme ad altri Arditi futuristi, fra cui Giuseppe Bottai e Mario Carli, fondò l'Associazione fra gli Arditi d'Italia. Era il periodo di forte legame fra ex Arditi futuristi ed il giornale Il Popolo d'Italia di Benito Mussolini. Chi spezzò il legame fu Mario Carli col suo famoso articolo Arditi non gendarmi nel giornale di Associazione fra gli Arditi d'Italia intitolato l'Ardito, dopo l'assalto squadritistico alla Camera del Lavoro di Milano (era pure presente Filippo Tommaso Marinetti), dando le premesse di appoggio carismatico alla fondazione degli Arditi del Popolo di Argo Secondari del 1922.

Ambrosini, scrisse pure su Roma futurista ed era su posizione di confuso socialismo rivoluzionario. Fondò la sezione degli ex Arditi di Palermo e nell'aprile del 1919 i primi Fasci di Combattimento mussoliniani in Sicilia. Nell'immediato prosieguo partecipò al tentativo di golpe ante-litteram con Argo Secondari, tentando di spingere all'insurrezione ed alla presa di potere i militari di stanza a Pietralata, episodio dai contorni molto confusi.

Vittorio Ambrosini e Giuseppe Mingrino erano fra i nomi di spicco del Fronte Unito Arditi del Popolo, anche se non si possono annoverare fra i maggiori capi militari del movimento, ma pare abbiano avuto rapporti di collaborazione con la polizia segreta fascista.

Nell’estate del 1919 l'Associazione Arditi, con tre dei più autorevoli membri e dirigenti: Mario Carli, Cesare Maria De Vecchi e Vittorio Ambrosini, malgrado il personale interessamento di Mussolini, non volle aderire al fascio delle forze interventiste per orientarsi verso il movimento socialista. Ambrosini scrisse una lettera all'Avanti con cui annunciava la rottura di buona parte degli arditi futuristi con Mussolini, ma la risposta dei socialisti (almeno quella ufficiale) fu di invettive contro Ambrosini ed Argo Secondari, ponendo fine al mai iniziato legame fra gli ex Arditi ed arditi futuristi coi socialisti. Nella pratica, però, le cose andarono diversamente, perché molti socialisti entrarono nel fronte unito Arditi del Popolo, fra questi anche persone di enorme caratura come Guido Picelli, deputato al parlamento e capo carismatico del fronte unito Arditi del Popolo parmense.

Nello stesso anno Ambrosini scrisse diversi lavori per l'Avanti attaccando Mussolini ed i futuristi, ricevendo lodi da Amadeo Bordiga. Entrò, poi, nella Guardia Rossa di Milano, di cui si hanno pochissime informazioni e, in concomitanza col biennio rosso di Torino, fondò gli Arditi Rossi. Dei rapporti fra Ambrosini ed il gruppo soviet ne parlò Giuseppe Berti, militante e storico delle vicende del PCI., additando quasi il capitano Ambrosini quale infiltrato della polizia, cosa che periodo fu assolutamente indimostrata e falsa. In quel lasso di tempo nel giornale Soviet venne pubblicato l'intervento di Ambrosini e le sue posizioni si poterono riassumere come d’appoggio ai consigli di fabbrica, al metodo rivoluzionario dei soviet.

Nel periodo del biennio rosso, Ambrosini strutturò gli Arditi Rossi col giornale L'Ardito Rosso, edito presso il fascio giovanile socialista di Milano. Il PSI non ebbe struttura paramilitare di autodifesa e risultava inadeguato sia a guidare i fermenti rivoluzionari dell'epoca che a difendere le sedi e le manifestazioni dagli attacchi squadristi. Le spinte di Bordiga e della federazione giovanile del PSI non sortirono effetti a livello di organismi centrali del partito per cui c'era tutta una fioritura di formazioni di difesa proletaria che agivano in modo scoordinato anche se, in casi puntuali, infliggevano dure lezioni agli squadristi: gli Arditi Rossi erano una di queste.

Nel febbraio 1921 venne attaccata e distrutta dagli squadristi la sede Il Lavoratore di Trieste, e finirono in carcere Giuseppe Tuntar ed i compagni triestini. Nel frattempo Ambrosini, deluso per la non forte adesione del PCI, a livello di organismi centrali, alla strutturazione degli Arditi Rossi ed in quanto gravato da numerosi mandati di cattura, continuò le sue peregrinazioni. Fuggì a S. Marino. Si mise a disposizione della neonata frazione comunista del PSI e tentò di raggiungere D'Annunzio per prendere Fiume, ma non riuscì nell’intento a causa dei mandati di cattura che gli impedivano movimenti sul territorio nazionale. Si recò ripetutamente a Vienna, città riconosciuta da tutti i servizi segreti quale crocevia per la connessione con la rivoluzione Bolscevica ed i suoi emissari. A Vienna la polizia indicò Ambrosini appartenente ad un fantomatico gruppo affiliato alle ancor più fantomatiche Bande Rosse di Pietroburgo, assieme a Nicola Bombacci.

Fra i dirigenti del PCI, Ambrosini e Nicola Bombacci fecero parte della minoranza favorevole agli Arditi del Popolo seguendo nettamente le indicazioni dell'Internazionale comunista. Gramsci vedeva di buon occhio il Fronte Unito Arditi del Popolo, e aveva cercato di incontrare Gabriele D'Annunzio quando si era reso conto del senso in cui stava stava evolvendo l'impresa di Fiume.

I militanti comunisti, contravvenendo alle indicazioni del partito, ma seguendo quelle dell'Internazionale divennero numericamente il gruppo più consistente del Fronte Unito Arditi del Popolo.

Ambrosini, fedele alla linea dell'Internazionale, pubblicò il libretto Per la difesa e la riscossa del proletariato italiano, in cui continuò a dissentire la linea Bordighiana sui metodi di autodifesa proletaria e, dopo il congresso di Roma del 1922, si dimise dal PCI.

A Vienna, all'inizio del 1923, fondò il nuovo raggruppamento dal nome PCI Unificato non riconosciuto dal PCI. Ambrosini entrò nel Circolo proletario Andrea Costa e nel comitato degli esuli ma ne fu ben presto espulso. Si avvicinò a personaggi legati al dissenso fascista, ma era ancora individuato dai servizi polizieschi come emissario dell'Internazionale.

Alla fine del 1923 Nicola Bombacci fece un singolare discorso in parlamento in cui si ipotizzava un'alleanza fra fascismo e Russia sovietica mentre era presente a Vienna Attilio Tamaro delegato del P. N. F. per vedere se c’erano condizioni per una alleanza fra Russia, Italia e Germania; Ambrosini fu un tramite per queste manovre.

Ambrosini, tornato in Italia nel 1924 al momento dell'omicidio di Giacomo Matteotti, assunse posizioni contro i socialisti ed accettò incarichi come agente provocatore da Crispo Moncada, scrivendo contemporaneamente su l'Epoca, quotidiano di Giuseppe Bottai, e su l'Intellettuale del fascismo legato all'ambiente futurista ed ardito futurista.

Ambrosini era ancora fra i fondatori della rivista La Sintesi, così titolata in riferimento ad un discorso di Mussolini del 7 giugno 1924 in cui indicava una via politica di congiungimento fra i due grossi movimenti rivoluzionari del dopoguerra: il fascismo ed il bolscevismo. La rivista Sintesi venne sciolta nel 1926 ed Ambrosini fondò Movimento Impero Lavoro e scrisse sulla rivista Lo Stato Sindacale. Svolse, nel contempo, un lavoro di tramite fra ambienti fascisti ed addetti all'ambasciata sovietica.

La vicenda di Ambrosini nel periodo, ed in parte anche nel prosieguo fu, in certo qual modo, simile a quella di Nicola Bombacci e nel fuoriuscitismo francese si intrecciò con quella di Giuseppe Mingrino, già deputato socialista negli anni “20, schierato nell'appoggiare gli Arditi del Popolo. Ambrosini e Mingrino furono gli unici due autorevoli nomi, legati agli Arditi del Popolo, che ebbero connivenze col fascismo, o peggio, ne diverranno agenti provocatori, mentre Nicola Bombacci, dopo varie giravolte, si riavvicinò al fascismo nel suo momento più tragico, sperando ancora di riportarlo alle origini rivoluzionarie. Occorre rimarcare i legami fra Bombacci e Mussolini che perdurarono durante tutto il regime, fino ad essere giustiziati assieme.

Ambrosini andò a Parigi nel 1926 assieme ad Alfredo Gerevini (al soldo dei servizi riservati italiani), infiltrato nel gruppo sindacalista rivoluzionario Filippo Corridoni, prendendo contatto con Giuseppe Mingrino ed insieme facendo da delatori e, soprattutto, da agenti provocatori nell'ambiente dei fuoriusciti.

Ambrosini, tornato in Italia, fu spedito al confino dal regime fascista per aver fatto il doppio gioco, e vi rimase fino al 1931, quando venne liberato. Subito dopo iniziò a collaborare con la polizia politica fascista; riprese le amicizie coi vecchi compagni antifascisti e cominciò ad inviare informative su questi ultimi ai servizi del regime. Detta collaborazione continuò fino al maggio del 1943. A Roma, nel 1936, fu editore di Lo Stato Corporativo, ma, allo scoppio della guerra, collaborò con i fascisti dissidenti di Felice Chilanti che nel prosieguo divenne uno dei capi della più forte compagine della Resistenza romana Bandiera Rossa Roma.

All'inizio del 1942 venne fatta una denuncia secondo la quale un gruppo di una settantina di fascisti di sinistra stavano preparando un colpo di mano per eliminare i fascisti reazionari, Ciano compreso, e alla guida di questo gruppo avrebbero dovuto esserci Ambrosini e Felice Chilanti.

Dopo la guerra Ambrosini iniziò ad organizzare un comitato di difesa per quelli su cui pendeva il sospetto di essere stati spie fasciste.

Fondò Il tribuno socialista ed il Gruppo politico indipendente Italiani di Sicilia di Africa e del Mediterraneo. Si candidò all'Assemblea Costituente senza essere eletto, assumendo anche la difesa di Amleto Poveromo, uno degli assassini di Giacomo Matteotti. Nel 1958 si candidò col MSI da cui si staccò passando alla destra democristiana.

Ambrosini si muoveva freneticamente, facendo e disfacendo, passando da una parte all'altra, ordendo strane trame. Nel 1956 fu presidente dell'Ente Nazionale Difesa Civile d'Italia, presidente dell'Ente Italiano Assistenza per il Ceto Medio, Proletariato intellettuale e Sottoproletariato, nonché direttore del periodico La difesa dell'Italia e degli Italiani.

Indro Montanelli ha scritto a Leo Longanesi di essere stato sfidato a duello dall'avvocato Vittorio Ambrosini a causa di un suo articolo sul Corriere della sera.

Il 14 dicembre 1960 Ambrosini ha scritto ad Almirante, al ministro dell'Interno Franco Restivo e al deputato comunista Achille Stuani, dicendo di essere a conoscenza di alcuni retroscena della strage di Piazza Fontana, facendo il nome di Ordine Nuovo, dicendo che gli attentatori andavano ricercati nel gruppo di dissidenti usciti dal MSI, andati in licenza premio in Grecia. Nel luglio 1970, interrogato dai magistrati, ritrattò tutto. Ma un anno dopo, incontrandosi con Stuani, confermò di essere al corrente di fatti gravi.

Nel settembre 1971 Ambrosini venne ricoverato in ospedale per sospetto infarto. Il 21 ottobre morì suicida, lanciandosi dal settimo piano della clinica (la sua camera era però al quinto), dopo aver lasciato un biglietto di addio, ma le circostanze della sua morte non sono state mai chiarite e molti dubbi ancora oggi rimangono sul suicidio.

 

 

Bruccoleri Giuseppe

(avvocato, giornalista)

 

 

 

Bruccoleri Giuseppe (15.12.1871 - 10.1.1946) primogenito di quattro figli di Domenico e Giovanna Piazza e discendente dai coniugi Matteo Brucculeri nato intorno al 1682 e Francesca nata intorno al 1694, presenti a Favara all'inizio del 1700.

Appena laureatosi, per motivi professionali si trasferì in Girgenti e nel 1908 a Roma.

Di quest’uomo geniale la tradizione, ormai sbiadita e negligentemente trascurata, nulla o quasi nulla ci dice. Eppure il suo nome, in molte opere di politica e di economia, nonché di storia della Sicilia appare sovente citato, specialmente in virtù di un’opera da lui pubblicata nel 1913 e intitolata “Sicilia d’oggi”. Le analisi che egli faceva con acume e profondità di giudizi e di conoscenza sopra i più interessanti problemi dell'Isola sono state molto apprezzate e tuttora largamente condivise.

L'avv. Bruccoleri era un democratico convinto che divideva le sue attività tra le faccende professionali del foro ed il giornalismo; e fu in questo suo indirizzo che ben presto venne conosciuto come esperto di economia e di politica, di sociologia e di psicologia. Gli equilibrati e forti articoli, pubblicati sui giornali più diffusi, gli procurarono ben presto la stima d’un Luzzatti, d’un Einaudi e d’un Colajanni.

Durante la sua dimora in Girgenti assolse con spirito di vera democrazia ed alto senso di giustizia, vari incarichi, fra cui quello di membro della Congregazione di Carità e di vice pretore. Nel numero 13 del 26 ottobre 1913 di “La Verità”, quindicinale che si pubblicava a Favara, il direttore responsabile, presentando l’avvocato Bruccoleri qual candidato alle elezioni politiche di quell’anno fece una rassegna dei meriti intellettuali di questo favarese che, sebbene usciti in un momento di spinta elettoralistica, non si distaccano da una base obbiettiva costituita dalla elevata mente e dai convincimenti democratici, in conformità dei quali il Bruccoleri parlava, scriveva ed agiva. Si legge in quel giornale: “Pubblicò articoli sulla riforma elettorale, sui nostri costumi politici, sul congresso contro la delinquenza, sull’analfabetismo, con i quali rivela profondità di studi sociologici e padronanza di psicologia. Gridava contro la trascuratezza dei governi verso le scottanti questioni siciliane che richiedevano interventi improrogabili. Ognuno poi ricorda il poderoso articolo pubblicato sul “Giornale di Sicilia” e diretto a Sua Eccellenza Giolitti, a proposito dello scioglimento del Consiglio provinciale”.

Bruccoleri affrontava, con la sua imparziale critica, i metodi politici che riguardavano soprattutto la strategia di quello che Salvemini aveva definito “il ministro dalla mala vita”; i brogli elettorali del tempo e quel “patto gentilone” che il Giolitti, allo scopo di ottenere una maggioranza nelle elezioni del 1913, contrattò con Vincenzo Gentilone. Il patto ebbe come conseguenza l’annullamento del famoso “non expedit” e fu come l’arrivo alla prima tappa del risveglio politico in massa dei cattolici dopo il Risorgimento, ed insieme di una presa di posizione nella vita pubblica italiana che arriverà sino ai nostri giorni, apportando uno stato di corruzione e di generale malessere a tutti noto forse non mai sofferto dall’Italia lungo tutta la storia.

Nessun liberale conservatore fu talmente illuminato da comprendere che i tempi erano mutati, che forze nuove premevano per conquistare un posto dignitoso nella vita associata, e queste nuove forze erano quelle di proletariato, sostenute e guidate dai socialisti e verso le quali il Giolitti aveva detto: “Nessuno si può illudere di potere impedire che le classi popolari acquistino la loro parte d’influenza economica e di influenza politica”.

Quando nel 1905 entrò in crisi l’industria zolfifera l’avvocato Bruccoleri pubblicò una serie di arti sulla “Tribuna”, su “L’Ora”e sul “Giornale di Sicilia” diretti a tutelare gli interessi della Sicilia, compromessi dalla concorrenza americana, in un primo tempo, e poi contro i grossi industriali che tentavano di avvantaggiarsene; con la sua censura riuscì a far riformare il progetto di legge.

Anche dopo il suo trasferimento a Roma la Sicilia e le sue disastrate condizioni restarono vive nella sua mente e continuò con la sua attività giornalistica a difendere i diritti dell’isola. La “Tribuna”, la “Rassegna contemporanea”, la “Rivista Popolare”, il “Giornale degli Economisti”, la “Riforma Socialè”, costituirono i campi di battaglia dove discuteva e criticava le questioni politiche ed economiche del tempo. Si accostava con rara competenza sia ai problemi zolfiferi ed il  commercio dello zolfo con l’estero sia all’aumento del prezzo del minerale cui seguiva un aumento del salario dei lavoratori delle miniere sia, infine, ai temi dell’agricoltura della Sicilia e fra questi quelli agrumari. Quando la Russia parve chiudere le porte ai nostri agrumi, l’avv. Bruccoheri sul “Giornale di Sicilia” fece uno studio completo del problema; lo esaminò sotto tutti gli aspetti e ne additò i rimedi che vennero riconosciuti esatti e accolti, riuscirono a porre riparo alla grave crisi che stava per sorgere.

Ecco il giudizio che Napoleone Colajanni diede del libro “Sicilia d’oggi” del Bruccoleri: “Il libro del Bruccoleri dopo tante pubblicazioni sulla Sicilia riesce soprattutto utile come sintesi e critica delle pubblicazioni precedenti, per lo spirito pratico cui è improntato, per la conoscenza precisa delle varie quistioni economiche dell’isola; specialmente di quella zolfifera ed agrumaria, e delle cooperazioni trattate sistematicamente e con vera competenza e imparzialità, per la intenzione tradotta in atto di tenersi lontano dalla retorica intesa soltanto a lusingare le masse ed a procurare popolarità. E di questo sano e lodevole proposito ne avrà prova chi leggerà ad esempio i capitoli consacrati al latifondo, alla cooperazione, ed alle affittanze collettive; nelle quali l’autore, di sentimenti democratici, facilmente avrebbe potuto lasciarsi trascinare, se non possedesse la preziosa facoltà di inibizione, a condannare o ad esaltare con offesa alla realtà ed alla verità e sono davvero interessanti le pagine nelle quali vengono sistematicamente esposti i rapporti e le ripercussioni della cattiva divisione della proprietà fondiaria sulla vita politica ed amministrativa dell’isola”.

Siamo convinti di non esagerare se riteniamo che l’elettorato favarese perdette una felicissima occasione per non aver mandato al parlamento questo battagliero e grande intellettuale, della cui opera si sarebbero giovate non solo Favara e la provincia di Girgenti, ma anche l’intera Sicilia, poiché la sua competenza la sua sincerità, soprattutto, nel servire la causa della giustizia e dell’equità, erano doti connaturate con sua la persona morale.

Il Bruccoleri, forse per effetto di concorso, ricoprì il ruolo di primo segretario della Società delle Nazioni con sede a Ginevra.

La residenza di famiglia dell'avv. Giuseppe Bruccoleri fu il palazzo situato all'angolo fra la piazza Mazzini e la via Margherita, utilizzato dopo la vendita al Comune, dapprima come Municipio, poi come scuola, successivamente come pretura ed infine come ufficio tecnico comunale.

 

Testo tratto da: Salvatore Bosco, Il proletariato a Favara - lotte, scioperi ed altre manifestazioni dal 1890 al 1960, Ediz. Sicilia Punto L, Ragusa.

 

 

Cafisi Stefano

(possidente, arrendatario)

 

Stefano Cafisi 1773-1833

 

 

Cafisi Stefano fu senza dubbio il componente più importante dell’unico ceppo dei Cafisi (estinto ormai da oltre 30 anni), per avere determinato l'arricchimento della sua e delle successive generazioni.

stefano Cafisi nacque a Favara il 20 dicembre 1773 dal medico Salvatore e donna Isabella Franco.

all’inizio dell’800 fu segreto dello Stato di Favara, amministratore delle zolfare di pertinenza del duca di Terranova e marchese dello Stato di Favara d. Diego Pignatelli, commissario generale degli Stati di detto duca.

Sposatosi il 16 agosto 1817 con Giuseppa Lombardo di Calogero e Giuseppa Giudice, lui quarantaquattrenne, lei quindicenne, abitarono nello stesso palazzo in cui dimorò il nonno notar Grazio.

Divenne procuratore dei beni ricadenti nel territorio comunale in potere del marchese di Favara Giuseppe Pignatelli Aragona, duca di Terranova, in conformità alla procura data in Palermo nel 1825, con la quale ebbe facoltà di poter autorizzare atti recognitori e sciogliere dalla solida obbligazione le persone, intervenendo come gabelloto dello Stato di Favara.

Dopo quattro anni dalla procura arrivò la svolta decisiva per la vita sociale ed economica di Stefano.

A partire dal 1812, anno delle regie confische, i feudi inalienabili che prima erano assegnati ai signori blasonati divennero alienabili e in tale occasione Stefano venne nominato amministratore delle regie confische come pro-segreto dell'amministrazione della vendita pubblica. Fu così che il 16 aprile 1829 il duca di Terranova vendette a Stefano tutti i censi dello stato di Favara compreso alcuni immobili come il castello chiaramontano con l'annesso ed attivo carcere civile, criminale e delle donne.

Il Cafisi fu così l'ultimo arrendatario dello Stato di Favara. Nonostante la misura delle proprie ricchezze, di gran lunga superiore a quella di altre famiglie nobili e che secondo una stima approssimata ammontava a 128.000 onze (n un periodo in cui il bilancio medio annuale del Comune di Favara era di circa 3000 onze), non ottenne però alcun titolo nobiliare. Si fregiò, comunque, del modesto appellativo di barone, che riportò in quasi tutti gli atti pubblici e nelle scritture private.

Giunto alle soglie dei 60 anni a Stefano cominciarono a venir meno le forze fisiche e fu così che nel giorno di martedì 7 maggio 1833 alle ore 18, in presenza del notaio e diversi testimoni, infermo di corpo, ma sano di mente, incapace di vergar la penna per il tremore che la malattia gli aveva prodotto, coricato nella camera dell'arcova del suo palazzo, il cui balcone tutt'ora si affaccia sulla piazza Cavour, dettò il suo lungo testamento, esprimendo la propria volontà sulla tumulazione del proprio corpo nella gentilizia di famiglia all'interno della preesistente madrice di Favara.

 Stefano Cafisi è morto il 9 maggio 1833. 

 

 

De Vecchi Vincenzo

(garibaldino - segretario comunale di Favara dal 1879 al 1907)

 

 

 

Vincenzo De Vecchi, nacque a Venezia il 15 maggio 1839 da Antonio e Antonia Noro. Il padre si dedicò all’arte vetraia, la stessa esercitata dalla famiglia della sua amata e che lui stesso esercitò fino a quando si trasferì a Favara, dal figlio, intorno al 1899, dove morì nel 1903, nell’avanzata età di 90 anni. Le spoglie di Antonio furono tumulate nel cimitero di Piana Traversa, in una colombaia nel muro di cinta nord, a destra guardando la chiesa.

Tra il 1848 e il 1849 la famiglia visse il bombardamento e l’assedio di Venezia, visse nel disagio economico e, solo grazie all’impareggiabile tenacia di Antonia Noro che, procacciando, con fatica, lo stretto necessario per la famiglia, il marito ammalato, pian piano, ha potuto relativamente sollevarsi in salute, riprendendo la sua industria e i suoi affari. Tuttavia per varie vicende politiche ed economiche la famiglia si disgregò ed ogni componente, per procacciarsi i mezzi di sussistenza, prese una propria strada. In gioventù Vincenzo fece parte della massoneria veneziana, in un periodo in cui l’appartenenza era considerato reato, così come per la carboneria.

Nel 1859 Vincenzo compiva 19 anni di età e da un momento all’altro aspettava la chiamata alle armi, ma era deciso a non prestare il servizio militare sotto l’odiato straniero. La città era stretta da un fitto cordone di polizia che controllava ogni movimento, ma il padre, con una organizzazione segreta, trovò il modo farlo allontanare da Venezia. All’alba del 23 dicembre 1858 Vincenzo partì. Nella primavera del 1859 si arruolò volontario, sotto falso nome, nell’esercito, in Toscana. Nel mese di settembre venne a conoscenza che a Vignola reclutavano volontari per la formazione di un battaglione di bersaglieri. L’11 settembre 1859 si presentò e fu arruolato. A comandare il battaglione era il maggiore Menotti, figlio di quel grande patriota che fu Ciro Menotti. Una domenica, all’improvviso, venne Garibaldi, allora comandante dell’esercito dell’Emilia. Passato in rassegna il battaglione, Garibaldi proferì parole di lode per l’aspetto dei soldati e per il loro contegno, ricordandogli e erano stati chiamati per l’onorevole compito di liberare Venezia dal barbaro nemico. Le parole di Garibaldi riempirono di entusiasmo i bersaglieri. Qui Vincenzo ebbe modo di intrattenersi e parlare con Garibaldi. In questo periodo conobbe i commilitoni favaresi Giovanni Lombardo e Antonio Butticè, oltre a Finazzi di Girgenti, anch’essi arruolati volontari.

Il 1 marzo 1860 Vincenzo venne promosso caporale. Conseguentemente all’annessione dell’Emilia al Piemonte il battaglione di cui faceva parte venne assorbito dall’esercito regolare piemontese. Il 16 aprile successivo Vincenzo venne promosso sergente e trasferito al 27.mo Battaglione, di cui fece parte fino al 14 ottobre 1865, giorno in cui si congedò in Girgenti. In questo battaglione conobbe tre soldati favaresi, fra cui Giuseppe Urso caduto in combattimento contro gli austriaci a Custoza, per il quale, in occasione del censimento della popolazione nel 1881, si adoperò per dare il nome alla via (via Bersagliere Urso), a monte del paese, che dal Calvario si va a congiungere con la via V. Emanuele.

In questi anni di bersagliere Vincenzo prese parte al combattimento per espugnare la Rocca di Civitella del Tronto dove, per la sua posizione strategica, si era asserragliato un manipolo di soldati dell’esercito borbonico. Poi il 27.mo Battaglione venne mandato negli Abruzzi per reprimere il brigantaggio. Non si trattava di briganti isolati o piccole bande, ma di unità militarmente organizzate formatesi dagli avanzi dell’esercito borbonico, rimasti fedeli al Re di Napoli che, incalzati dai bersaglieri, si sciolsero, rifugiandosi nello Stato Pontificio per poi ricomparire, a sorpresa, al momento opportuno. Come scrisse Vincenzo, le popolazioni di quei paesi soffrirono molto i danni cagionati dai briganti per i loro saccheggi, ma anche per il selvaggio vandalismo perpetrato dai soldati che venivano mandati lì come liberatori. In quei monti sconosciuti per i soldati, continui erano gli agguati, con risultati a volte dolorosi. Tutto destava sospetto e i sospettati molte volte venivano soppressi.

Il 15 maggio 1865 si trovò a Favara nella qualità di sergente della prima Compagnia del 27.mo Battaglione Bersaglieri, in ferma per quattro anni. In quel tempo era obbligatorio, ogni domenica, andare a messa, nella matrice e, in una di queste occasioni, il suo sguardo incrociò quello di Carmela Sajeva che ogni domenica si recava a messa accompagnata dal padre e dalle sorelle. La madre della ragazza era morta due anni prima e lei, essendo la più grande, aveva dovuto sobbarcarsi maggiormente ai lavori di casa. Da quel giorno ogni domenica i due giovani si incontravano con lo sguardo e pur non potendo scambiare una parola, gli occhi e i cuori sembravano voler parlare. De Vecchi pur aspettando, a breve, il congedo militare, era stato preparato per la formazione a sottotenente. A Torino aveva sostenuto gli esami e la cosa lasciava ben sperare. Di contro, però, l’idea di allontanarsi definitivamente da Favara lo turbava e, mentre si trovava sotto il peso di una decisione se scegliere di continuare con la vita militare o restare a Favara, si consigliò col sacerdote Angelo Giudice, il quale gli disse che al Municipio di Favara era vacante il posto di commesso di segreteria. Il 1 ottobre 1865 venne assunto come commesso di segreteria. Il 15 ottobre 1865 si congedò e l’indomani occupò il posto di commesso. Con l’animo pieno di speranze si dedicò allo studio, col fermo proposito di migliorare il proprio stato lavorativo.

Nel maggio 1866 un fatto nuovo venne a turbare l’equilibrio che De Vecchi si era, nel frattempo, creato e cioè la guerra fra l’Italia e l’Austria e l’occupazione della sua città natale. La Patria chiamava i propri figli a raccolta, i quali correvano ad arruolarsi volontari sotto il comando di Garibaldi. De Vecchi chiese un congedo per arruolarsi ed adempiere al sacro dovere. Con l’animo pieno di entusiasmo, ma con lo schianto al cuore lasciò Favara promettendo alla sua amata di ritornare se la guerra lo avesse risparmiato. Il 12 maggio 1866, dopo aver preso un congedo per la durata della guerra, partì da Favara per arruolarsi, a Como, nel 5° Reggimento volontari italiani, comandati da Garibaldi.

Il 21 luglio 1866 prese parte della battaglia di Bezzecca.

Vincenzo venne congedato a Rovereto il 29 settembre 1866 e fece ritorno a Favara il 20 marzo 1867 dove riprese il proprio lavoro. Giacché percepiva un misero stipendio di 38 lire e 33 centesimi al mese, a cui aggiungeva altre 30 lire con l’insegnamento di calligrafia e ginnastica nelle scuole elementari, nonostante l’impegno assunto con quella giovinetta, a cui aveva vincolato il proprio destino, De Vecchi non si sentiva per nulla pronto a chiedere la mano alla ragazza amata. Cercò, quindi, di migliorare la propria posizione lavorativa, studiando per poter prendere la patente di segretario comunale, ma per la quale occorrevano due o tre anni. Nel frattempo al padre di Carmela Sajeva arrivavano richieste di matrimonio per la figlia e questa regolarmente li rifiutava. Come diceva il proverbio amore, bellezza e denari non si possono nascondere, nonostante il riservatissimo contegno di Vincenzo e Carmela, in paese si cominciò a vociferare e ciò, anche se la ragazza non usciva mai di casa, tranne che per andare a messa le domeniche e rigorosamente in compagnia di familiari. Il venticello che soffiava in paese arrivò all’orecchio del padre e i dubbi che poteva avere presto divennero certezze coi rifiuti della figlia alle richieste di matrimoni, specialmente l’ultimo, arrivato da Comitini, che era un buon partito. Fu allora che il padre mise alle strette la figlia per sapere quanto ci fosse di vero sulle dicerie e la figlia rispose che al momento per lei era lontana l’idea del matrimonio e che, in ogni caso, avrebbe sposato Vincenzo De Vecchi e nessun altro. Per distoglierla dalla sua decisione furono adoperati tutti i mezzi disponibili, compreso quello di denigrare il De Vecchi sulle ignote origini, per la sua meschina posizione sociale ed economica, ma fu tutto inutile. Alla fine, il padre, per instillare nell’animo della figlia il dubbio sulle buone intenzioni del suo amato, le disse: Giacché quel giovane ha tale pretesa perché non l’ha manifestata nelle vie regolari come pratica ogni onesto galantuomo?. Vincenzo De Vecchi, a quel punto, per interposta persona, chiese a Domenico Sajeva la mano della figlia Carmela, informandolo, pure, che in caso di risposta negativa a qualunque costo quella ragazza sarebbe stata sua moglie. La risposta fu negativa con grande amarezza per Carmela e per Vincenzo. Sentitosi messo alle strette Vincenzo, avendo avuto da lei firmata la promessa di matrimonio, si presentò innanzi l’ufficiale dello Stato Civile del Comune per la richiesta di pubblicazione di matrimonio. Concluso il periodo delle pubblicazioni, il 27 marzo 1868, alle ore 10, conformandosi alle sue istruzioni la sua amata, vestita da contadina, uscì dalla casa paterna e, accompagnata da due fide donne, si recò al Municipio, dove, assieme a Vincenzo, si recarono innanzi l’ufficiale dello Stato Civile notar Biagio Miccichè, che molto aveva fatto per tale evenienza, il quale compì il matrimonio civile.

Successivamente i due si sono recati nella casa che Vincenzo aveva presa in affitto. Appena arrivati bussò Giuseppe Indelicato, zio materno di Carmela, il quale manifestò la convenienza di completare il matrimonio col rito religioso prima della loro unione, offrendo, nel frattempo, la casa propria per alloggiare la ragazza. Essendo nella ferma intenzione di volere effettuare il matrimonio secondo le regole sociali, Vincenzo acconsentì e il 30 marzo il matrimonio venne completato col rito religioso. Vincenzo e Carmela iniziarono così la loro vita coniugale nella loro modestissima casa con sei sedie, un tavolino e un letto, ma con la quiete nel cuore e con la volontà e la fede di affrontare gli eventi.

Vincenzo visse il luttuoso periodo del colera a Favara nel 1867 e per il suo impegno ricevette una menzione da parte del Ministero dell’Interno. Ha assistito, col personale di segreteria, il sindaco notaio Gerlando Vaccaro che per i servigi prestati ricevette la croce di cavaliere.

Alla fine del 1870 il Comune di Favara versava in una pessima situazione finanziaria per dazi non esatti e così, per tre anni, dal 1871 al 1873, Vincenzo decise di assumere la direzione della riscossione dei dazi di consumo.

Il 26 aprile 1874 il Consiglio comunale promosse Vincenzo a vice segretario con lo stipendio di 810 lire all’anno.

Il 6 ottobre 1874 prendeva il diploma di abilitazione all’ufficio di segretario comunale e il 9 febbraio 1879 veniva nominato segretario comunale a Favara, a seguito del collocamento a riposo del titolare Pasquale Licata, con uno stipendio annuo di lire 900, poi elevato a lire 2090.

Assunse la direzione delle operazioni dei censimenti ufficiali della popolazione favarese nel 1882 e nel 1902 ed il Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio volle assegnargli una medaglia di bronzo la prima volta e ed un diploma di benemerenza per la seconda.

Contestualmente al ruolo di segretario comunale ha svolto il compito di segretario della Commissione Mandamentale per l’accertamento delle imposte sui fabbricati e ricchezza mobile, delle opere pie Cascio, Bunone Impenni, Giudice e dell’ospedale civico. Dal 1880 al 1907 ha ricoperto la carica di Ufficiale dello Stato Civile.

Vincenzo godeva della grande stima e considerazione di Salvatore Cafisi e della moglie Girolama Mendola al punto di avere affidata, in certe occasioni, la chiave della cassaforte o per risolvere certi affari di famiglia. Li conobbe tramite l’amico Gaetano Mendola che assieme alla sorella Girolama tennero a battesimo una figlia di Vincenzo.

Il 28 novembre 1904 Girolama Mendola vendette a Vincenzo De Vecchi la casa di via del Rosario, dove è andato ad abitare.

Il 13 aprile 1906 ottenne dalla Giunta Municipale, un congedo di due mesi per esaurimento nervoso dovuto all’intenso lavoro di segretario comunale e li passò in assoluta tranquillità nelle sue terre di contrada Petrusa.

Il 1 gennaio 1908, con parole di encomio del presidente del Consiglio Angelo Giglia ed altri consiglieri in una seduta pubblica del Consiglio Comunale, venne collocato a riposo dal Comune. Per l’occasione gli venne consegnata una pergamena di benemerenza per gli illuminati servigi svolti con energia, sagacia, costanza. Nel corso del servizio prestato Vincenzo ricorda nel suo diario che in rarissimi casi ha visto agire per il bene pubblico, in molti casi con secondi fini, con furberia di coloro che avevano il maneggio, con tristi conseguenze per l’interesse pubblico. Vincenzo lasciò l’impiego per la stanchezza, ma anche perché, con disgusto, scorgeva che l’amministrazione della cosa pubblica a Favara avrebbe condotto il Comune nella deplorevole condizione in cui poi è caduto. Ha lasciato l’impiego con coscienza di avere adempiuto al proprio dovere e di avere agito per il bene pubblico, a volte a proprio danno.

Il 31 gennaio 1922 Vincenzo De Vecchi, vedendo la moglie aggravarsi in salute, decise di andare a vivere a Girgenti, in casa del figlio Antonio. Dopo pochi giorni, il 23 febbraio spirava Carmela Sajeva e il 27 giugno 1924 anche Vincenzo, nella casa del figlio, in via F. Crispi a Girgenti.

 

 

Girgenti Antonio

(questuante dei frati minori)

 

Antonio Girgenti 1908-1979

 

 

Girgenti Antonio è nato l'11 luglio 1908. Personaggio abbastanza conosciuto nell'ambiente favarese negli anni "60 dello scorso secolo.

La popolazione lo chiamava Fran dò e giornalmente lo si incontrava per le strade durante le sue questue.

Col solito asinello scendeva dal convento dei frati minori francescani sulla collinetta S. Francesco, vestito con saio da frate, ma in realtà non fu mai frate.

Fran dò è morto il 6 marzo 1979. La famiglia volle ricordarlo con la scritta incisa nella lapide funeraria: Fran Antonio Girgenti.

 

Giudice Gesuela

(filantropa)

 

Gesuela Giudice 1853-1934

Donna Gesuela seduta a sx, con la madre, il fratello al centro e il padre seduto

 

 

Giudice Gesuela è nata il 21 novembre 1853 da Gaspare e Giuseppa Miccichè. “La Signorina” com’era da tutti chiamata, faceva parte di un illustre casato, tra i più ricchi di Favara. Viveva sola in poche stanze del secondo piano del sontuoso palazzo ereditario in usufrutto del padre Gaspare, sito in via Pirandello.

Donna Gesuela era distaccata da ogni bene terreno e viveva nella sofferenza, portando con se, sin dalla nascita una cronica infermità che le rendeva difficile e penoso il cammino. Nascondeva con francescana letizia il suo male, custodendolo come prezioso tesoro in piena uniformità al volere di Dio. Militò con perfetta letizia nel 3° Ordine di S. Francesco e le poche cartelle di rendita che possedeva venivano bruciate dal fuoco della carità senza che essa se ne rendeva conto.

Anima purissima edificava e confortava con la parola e con l'esempio di una vita tutta candore e tutta zelo.

Assieme ai fratelli Giovanni e Giuseppe elargì ingenti somme per la costruzione della nuova chiesa madre (quella attuale). La cupola, non prevista nel progetto originario, è stata un desiderio di donna Gesuela, così come l’organo (ancora esistente, recentemente restaurato) pare sia stata una sua silenziosa donazione.

In piena proprietà donna Gesuela aveva il giardino di S. Calogero che voleva donare ai padri salesiani, ma il pio desiderio non venne mai accolto dalla Congregazione dei figli di don Bosco per mancanza di personale.

Gesuela amò i giovani e fece di tutto perchè sorgesse in Favara un oratorio festivo, per questo fu ben lieta di donare parte di detto giardino per la costruzione dell’oratorio “mons. Giudice”, del quale oggi non esiste più traccia.

In mezzo alle ricchezze fu modello di povertà francescana e meritò il nome di «madre dei poveri». Zelantissima del culto divino profuse tesori per le chiese. Devotissima di Maria Santissima Ausiliatrice curò la celebrazione del 24 del mese e volle le immagini alla chiesa madre ed al collegio di Maria che amò come la pupilla degli occhi.

Morì col desiderio di avere i Salesiani a dirigere le sue opere predilette, lasciando preziosa memoria di elette virtù.

Alla sua morte, avvenuta il 28 agosto 1934, ad 81 anni di età, dal suo esile corpo religiosamente composto nella maestà della morte, si sparse un profondo profumo. Le persone presenti, fra cui Giuseppa Mendola, in un primo momento rimasero sbigottite e disorientate, ma poi si accorsero, vivamente commosse, che quello era il segno della santità

 

Dai ricordi personali scritti da Gaetano Miccichè (di Stefano e Giuseppa Mendola) consegnatimi dalla gent.ma figlia signora Graziella spos. Fanara.

Sopra un ritratto di Gesuela infante e una foto di Gesuela assieme alla madre Giuseppa Miccichè, al fratello comm.re Giovanni e al padre dott. Gaspare.

 

 

Guarino Gaetano

(farmacista, sindaco)

 

 

 

Guarino Gaetano è nato a Favara il 16 gennaio 1902 da Salvatore e Lucia Magro (riconosciuta come figlia propria da Stefano Dulcetta). La famiglia è stata innestata in Favara da Gaetano senior (nonno di detto Gaetano) sposato con Rosa Vasco e figlio, a sua volta, di Salvatore e Maria Scrima del quartiere di S. Cita a Palermo.

Gaetano studiò in Palermo e dopo la maturità classica, nel 1928, conseguì la laurea in farmacia. Negli anni universitari cominciò a scrivere articoli per l’Avanti.

Dal 1928 al 1930 lavorò come tirocinante a Burgio, dove conobbe la sua futura moglie.

Negli anni “30 tornò a Favara dove acquistò una farmacia esercitandone la professione.

Nel 1943, dopo lo sbarco in Sicilia degli americani, si iscrisse al Partito Socialista Italiano e divenne segretario comunale del PSI a Favara. Venne nominato sindaco di Favara su proposta del prefetto di Agrigento il 2 ottobre 1944  ma si dimise dall'incarico il 15 settembre del 1945.

Guarino lottò contro i grandi proprietari terrieri che sfruttavano la locale manodopera.

Il 10 marzo 1946 si svolsero le elezioni comunali a Favara e Guarino, sostenuto oltre che dai socialisti anche dal partito Comunista Italiano e dal partito d'Azione, vinse le consultazioni con il 59% dei voti e fu eletto sindaco.

Dopo appena 65 giorni di sindacatura, il 16 maggio 1946 fu ucciso con un colpo di pistola alla testa. I responsabili del suo omicidio non furono mai arrestati. La vedova di Guarino ed il figlio andarono a vivere a Parigi.

 

Foto tratta dal libro di Calogero Castronovo: Favara - L'assassinio di Gaetano Guarino, ediz. Compostampa, 2005.

 

 

Indelicato Vincenzo

(pittore adornista)

 

 

 

Vincenzo Indelicato è nato a Favara il 7 febbraio 1843 dall'unione del muratore Carmelo e di Maria Cibella. Nel 1875 sposò Rosaria Termini, da cui ha avuto otto figli, di cui due morti prematuramente. Ha lavorato come pittore adornista, dipingendo a Favara alcune delle volte di edifici signorili, fra cui: il Palazzo Miccichè, il palazzo di Gaspare Giudice, la villa Piana (soffitti non più esistenti) e il secondo piano del palazzo di piazza Cavour (ora Palazzo di Città) nel 1886-1887, del barone Antonio Mendola. Mentre dipingeva nel Palazzo Mendola, conobbe il pittore Giuseppe Falchetti da Caluso (TO), il quale convinse l'Indelicato ad andare con lui a Torino. In questa città non fece la fortuna tanto agognata e la famiglia, in Favara, cominciò a provare la fame.

Tornato da Torino, il pittore adornista Vincenzo Agrò, l’antico pittore di casa Mendola, indusse l'Indelicato a fare una visita al barone Antonio Mendola, che, durante il triste periodo torinese, in maniera molto riservata aveva aiutato la famiglia in difficoltà.

Vincenzo Indelicato ha fatto un piccolo schizzo della facciata della chiesa dell'orfanotrofio, compreso cinque cartoni degli intagli.

Nel 1896 il barone ha pattuito col pittore Gregorietti di Palermo la pittura della volta della biblioteca (sulla collina S. Francesco), per tramite il cognato cav. Stefano Cafisi. Baldassare Airò, impiegato di casa Mendola, sentendo ciò, si è fatto avanti e lo ha scongiurato di fare lavorare suo cugino Vincenzo Indelicato. Il barone strappò villanamente il contratto col Gregorietti e si rivolse all’Indelicato, il quale promise di venire in agosto, invece lo piantò e se ne andò in Ravanusa dal barone Sillitti.

Intorno al 1895-1896, col figlio maggiore Carmelo, si è recato a Buenos Aires dove incontrò la primavera sul Rio della Plata e dove ci passò l’estate. Dopo due estati consecutive, una in Europa ed una in America, fece ritorno, ma, benché valente artista, tornò povero, nudo e affamato.

Dopo avere lucrato poche migliaia di lire, è ripartito per Firenze per le sue solite eccentricità o manie di cambiare paese; poi è andato a Tunisi, avendogli il Comune o gli artisti, o altri, apprestato il viaggio. Fece ritorno a Firenze, ma, ridottosi al verde, tramite l'ingegnere minerario governativo di quella città, si rivolse al barone Mendola, il quale gli ha inviato 500 lire, ma questa volta, con le garanzie del caso, col regolare la questione dopo la sua venuta in Favara, combinando alcuni lavori.

Saputo del ritorno dell'Indelicato a Favara all'inizio di ottobre 1897, il barone ha fatto apprestare un lauto pranzo con pasta al ragù di vaccina e costolette di castrato alla milanese.

Si chiedeva il barone Mendola: "Come può un pittore ornatista vivere e mantenere la famiglia numerosa di otto persone con lavoro ad intermittenza, in paesi dove si spende poco nelle decorazioni degli appartamenti? Sono problemi molto gravi, rattristanti ed affliggenti. Indelicato avrebbe dovuto utilizzare col lavoro tutto il suo tempo, dipingendo quadretti, piatti, tamburelli, specchi, per venderli man mano".

Per estinguere il debito delle 500 lire il barone ha incaricato il pittore Indelicato di effettuare alcuni lavori. Fra questi la pittura della volta del piccolo museo, annesso alla biblioteca sulla collina S. Francesco (l'edificio oggi è utilizzato a scuola materna e non vi è più treccia dei dipinti perché i solai sono stati ricostruiti). Il barone ha pregato l'Indelicato di fare un lavoro che contasse, tutto compreso, lire 200. Delle dette 200 lire ne avrebbe pagato 100 e le altre 100 da detrarre dalle lire 500 di debito. Il 6 ottobre Indelicato ha fatto erigere il ponte per dipingere la volta del museo; il 12 ottobre ha mostrato al barone lo schizzo. Il barone ha detto che c'era troppa roba, che sorpassava le 200 lire e che da un padre di sei figli non esigeva tutto questo e, se cose avesse voluto fare in più, sarebbe stato meglio riservarle per la volta della biblioteca. Indelicato ha risposto: “Mi lasci fare!”

Il 17 novembre Indelicato ha finito di dipingere la volta che, a parere del barone, è riuscita splendida. Il 7 dicembre si è dato mano alle pitture degli scaffali del museo in ebano, alternato di parti lucide e opache, con qualche tocco d’oro e di bronzo. Ha dipinto e ridipinto molte volte le portiere come nel suo antico costume di continui tentativi e pentimenti.

Indelicato ha iniziato la pittura della volta del museo l’8 ottobre ed ha terminato il 17 novembre, impiegando 40 giorni. La stanza, compresi i complimenti, è stata pagata 250 lire invece di lire 200.

La Pittura degli scaffali fu iniziata il 19 novembre e terminata, inclusa la verniciatura e doratura, il 6 dicembre; in totale 15 giorni lavorativi, per un costo di lire 5 al giorno e 2 lire al figlio, per un totale di 105 lire.

Il 9 dicembre si è cucita la tela iuta per inchiodarla al soffitto della biblioteca, in modo tale da apparecchiarla e ingessarla con colla. Vincenzo Indelicato, nel frattempo ha schizzato il quadrone e l’ornato, per fare i cartoni e gli spolveri. Come fece per il museo, il barone ha dato facoltà al pittore Indelicato di dipingere la volta della biblioteca per lire 300, da pagarne 150 lire e le altre 150 sul debito della cambiale di lire 500. Il questo disegno il barone ha previsto di fare un quadrone rappresentante la scienza in figura di donna con la fiaccola di tutte le scienze: le lettere, le arti ed industrie umane, ornati a piacere.

Tra la fine del 1898 e gli inizi del 1899 Vincenzo Indelicato ha disegnato il pulpito della nuova matrice di Favara e, l'anno successivo, venne realizzato dal mastro falegname Antonio Amico ed il figlio Giuseppe. Dopo i lavori detto disegno è stato portato nella biblioteca del barone Mendola.

Vincenzo Indelicato, come ha scritto il barone Mendola nei suoi diari: " ... era uomo di pessimo carattere e adoperava continuamente la sua linguaccia infernale; era superbo, ambizioso, si procacciava la propria rovina per troppo agognare; era senza cuore, ateo e senza fede, ingrato, bestemmiatore e sempre col veleno dell’invidia e della scontentezza del proprio stato. Carico di numerosa famiglia, sfiduciato di Dio e di tutti, tirava la vita disperata ed in strettezze; malediceva tutto e restava maledetto e distrutto lui stesso".

Vincenzo Indelicato si è ridotto poverissimo, afflitto, abbattuto, macilento nel corpo e nell’anima anche per un male inguaribile che da tempo erodeva la povera moglie. Si è ridotto da adornista a tingitore e nella casa Fanara ha tinto gli usci e i balconi ed ogni altra imposta.

Il 23 marzo 1905 è morta la moglie Rosaria Termini. Successivamenti è partito per Napoli, per stare con le due figlie femmine divenute suore o figlie della Carità.

Dei figli di Vincenzo Indelicato, a Favara è rimasto solo Carmelo che ha sposato Maria Pirrera.

Per Natale 1906 Vincenzo Indelicato è andato in casa del barone Mendola; era disperato, al verde di lavoro! Si era sbarazzato di buona parte dei figli ed oramai si trovava solo in casa con due fanciulli, bisognosi di servizio come lui e, forse, più di lui. La necessità del denaro lo turbava, lo rendeva infelice e lo riduceva alla disperazione. Voleva vendere al barone un’opera tedesca, di ornamenti pittoreschi, cosa a lui carissima: segno che era arrivato all’apice della miseria. Gli ha detto che aveva già venduto tutto, mobili, arredi, biancheria. L’opera l'avrebbe ceduta a qualsiasi prezzo. Il barone rispose che non era l’uomo di profittare della ristrettezza altrui per pagare l’opera a stile usuraio, che l’opera era inutile per lui e che la biblioteca, non è stata accettata dal Comune, che libri ne possedeva di troppo e di nuovi non sapeva che farsene. La vera ragione era che non voleva affatto avere da fare con lui perché da sempre era stato cagione di dispiaceri e amarezze per il barone.

Nell'ultimo periodo della sua vita Vincenzo Indelicato si è trasferito a Genova, in casa del figlio Lidio ed il 9 luglio 1924 si è spento nell'ospedale S. Martino di detta città.

 

 

Internicola Michele di Antonino

(prefetto)

 

 

 

Internicola Michele (di Antonino) nacque a Favara il 26 1 1880 da Antonino e Maria Grillo. Quando Michelino aveva 22 anni correvano chiacchiere maldicenti sul conto di Assuntina Vita figlia del medico Calogero Vita e di Margherita Giglia sorella del sindaco Angelo Giglia. La ragazza, assai vispa, la sera del 3 dicembre 1901 è scappata di casa e si è rifugiata in una vicina, da dove ha fatto chiamare Michelino per mandare ad effetto la fuitina. La vicina ,invece di avvisare Michelino, riferì l'accaduto al dottor Vita, creando un parapiglia. Antonio Vita, zio della ragazza, aiutato dallo spirito di vino che massimo la sera soleva tenere in corpo, fece un tale chiasso da rendere manifesto lo scandalo. Donna Margherita Giglia andò a riprendere Assuntina per riportarla in casa e lì per lì voleva far di mano, ma gli fu impedito. Appena rientrata in casa, per tutta la notte diede una solenne lezione ad Assuntina e le voci, i pianti, i singhiozzi si protrassero sino al mattino. C’era un’altra voce in giro per Favara, cioè che la sera del 3 dicembre, alla chiamata della vicina di casa, andarono i due Internicola, il padre Antonino ed il figlio Michelino. Chiamarono testimoni e poi invitarono Margherita Giglia a venire a riprendersi la figlia Assuntina. Non si capisce se c'era o no intesa tra l'Assuntina e gli Internicola, il fatto certo era che Internicola, con o senza premeditazione, ha menato gran clamore intorno al fatto, e ciò ha nuociuto alla famiglia Vita, ha creato una specie di costrizione morale, quasi che il matrimonio fra Michelino e Assuntina si fosse reso obbligatorio. A seguito di quanto accaduto il dottor Calogero Vita ha ricevuto Michelino coi suoi più stretti parenti, lo ha presentato alla figlia, facendo ricevere alla stessa, dal futuro sposo, un costoso anello con diamanti. Nel contempo pare che Calogero Vita fosse deciso ad allontanare Assuntina da Michelino e di portarla a Napoli per rinchiuderla in collegio. Cose strane! Se il matrimonio si era concluso, perché allontanare la figlia, dividerla dal suo promesso? Fenomeni umani che non si spiegano.

Nel 1902 Michelino Internicola si è laureato avvocato nella regia università di Palermo ed ha rinunciato all'impiego del marchese Cafisi per esercitare liberamente la professione in Favara. Alla fine di dicembre 1902 il dr. Calogero Vita è andato a Napoli a riprendere Assuntina per fidanzarla e sposarla con l'Internicola.

La sera del 6 gennaio 1903 Antonino Internicola, padre di Michele, pieno di gioia è andato a leggere al barone Mendola un telegramma arrivatogli da Roma, nel quale si diceva vinto il concorso per il posto di segretario di prefettura del figlio Michelino. La futura suocera di Michelino era inferocita, avversa al matrimonio e il figlio suo, Gaetanino Vita, non ne perdeva pelo. Benché giovinetto, da collegio, conservava e dimostrava l'odio ispiratogli dalla madre. Gaetanino teneva il broncio, non ha voluto stringere la mano o volgere una parola benevola al novello cognato. Assuntina era contrariata, bistrattata, bastonata e vilipesa tutti i giorni.

Il 18 gennaio 1903 Michelino veniva immesso in carriera per pubblico concorso.

La sera del 7 febbraio, alle ore 5,30 Michelino e Assuntina si sono sposati con gran corteo di civili e con gran codazzo di popolo, col favore della bella giornata ed il clamore dei precedenti fatti amorosi.

Vi era una contraddizione. La famiglia Vita e il sindaco Giglia ostili. Quest'ultimo mandò un piccolo dono di 12 cucchiai d'argento dorato in scatola ed un biglietto, scusandosi di non poter fare visita e intervenire alle nozze per il lutto che gli permise di festeggiare la sua ottenuta commenda. Intanto un gran concorso, un'affluenza straordinaria di doni agli sposi, insomma un mare di contraddizioni in famiglia. L'avv. Vullo con la moglie venuti apposta da Girgenti, nonostante il lutto di suo padre.

Il piccolo Gaetano Vita, nuovo cognato, guardava in cagnesco l'Internicola. Cose assai curiose. Alla fine di febbraio i due sposini partirono per Bivona, giusto l'avviso arrivato con telegramma da Roma, per il posto di sottosegretario di sottoprefettura in quel gelido paese.

Michelino Internicola ha prestato servizio, oltre che nella sede di Bivona, Motta San Giovanni (RC) nel 1905, Cianciana nel 1907 come Regio Commissario, nelle sedi di Agrigento, Trapani, Alcamo (prima Commissario Straordinario e poi Sottoprefetto), Matera, Imola (Sottoprefetto), Abbiategrasso (Sottoprefetto), Monza, Como, Genova  (Viceprefetto).

Il 16 dicembre 1926 Michelino ha ricevuto la nomina di primo prefetto di 2ª classe della Provincia di Terni, dove è rimasto in carica fino al 15 settembre 1927 e a disposizione fino al mese di marzo 1930. Dal novembre 1927, come commissario prefettizio, amministrò l’ospedale pediatrico napoletano, la cui struttura operava in sedi variamente disseminate sul territorio cittadino, sia nel settore pediatrico che in quello della prevenzione della tubercolosi. Nella fattispecie fu commissario per la temporanea gestione degli Ospedali Riuniti dell'Opera Pia "Pausilipon Ospedali per Bambini" di Napoli e dall'ottobre 1928 commissario prefettizio per il Comune di Torre Annunziata (ottobre 1928 - febbraio 1929).

Nel marzo 1930 venne collocato a riposo per ragioni di servizio.

Michele Internicola fu "Grande Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia".

 

 

Internicola Michele di Pietro

(marinaio, viaggiatore)

 

 

 

Della nascita di questo personaggio nulla conosciamo. Sappiamo con certezza che era figlio di Pietro e, con molta probabilità, Anna Ciulla. Non si esclude la nascita da una unione illegittima.

Come ci rivela il barone Antonio Mendola nei suoi diari intimi, per necessità di avverso fato, perché stretto dalla miseria, Pietro dovette affidare ad altra famiglia il proprio figliolo Michelino.

Michelino Internicola alla fine del 1800 era sottotimoniere nella real nave Governado in Venezia, con la quale solcava i mari di tutto il mondo. Dai vari paesi dove si fermava mandava oggetti al barone Mendola per il suo museo e questo gli forniva il denaro bisognevole.

Nel 1899 ottenne la promozione a secondo capo timoniere. I primi di agosto 1899 partì per il Benadir (Somalia). Nel mese di settembre era ad Aden, in Arabia.

"Povero Michelino! - scriveva il barone - Ha un bel cuore, sente nostalgia; giovanissimo, abbandonato dal padre naturale Pietrino Internicola, vive in mare, lontano dai suoi patrii lidi, vive infelice e sente tutto il peso della propria infelicità. ... Considero i suoi patimenti d’esilio, tra gente barbara, le inclemenze del mare e del clima e, quel che è più, il deserto dell’anima sua, l’aridità del suo povero cuore, privo degli amici, dei paesani e degli intimi affetti di famiglia".

Parte del materiale del museo del barone Mendola (oggi di proprietà del Comune di Favara) è stato mandato da Michele Internicola dalle varie parti del mondo. Nel 1901, da Venezia, gli ha mandato delle belle conchiglie provenienti dal mar Rosso e cose procacciate in Africa come le ganasce di un pescecane e un arco completo con cinque frecce, di cui solo una munita di ferro, le altre senza lancia. C’erano anche armi, lance, pugnali, ornamenti di donne selvagge, collane e goliere di ossa ed altro, orecchini, anelli, braccialetti, uno scudo, scarpe e foglie secche.

Quelle rare volte che Michele Internicola tornava a Favara non perdeva occasione di andare a trovare il suo stimato barone. L'affetto che il barone nutriva per Michelino era tale che un bel momento cominciò a carezzare l'idea di dargli in sposa una sua protetta: Peppina Menotti, una trovatella (o, cosa molto probabile, una sua figlia illegittima). Detta idea però fallì, perché Peppina, allora rinchiusa nel collegio nell’istituto femminile Principe delle figlie della Carità in Aragona, in una conversazione privata col barone manifestò la propria volontà di voler abbracciare la fede.

Dalle lettere che Michelino inviava al barone dalle varie parti del mondo: da Trinidad alle Antille, da Buenos Aires all’America del sud, dalla Cina al Giappone, esprimeva una sofferenza interiore e una palese noia. Il barone cercava di rincuorarlo; gli diceva di pensare al rimpatrio e che in mezzo ai patimenti e alla solitudine in fondo vedeva un mondo nuovo, anzi tutto il mondo.

Nel 1904 Michelino  inviava al barone una cassetta dal Giappone con due piccoli vasi in porcellana, egregiamente miniati con figure di drago. Gli raccontava dei suoi viaggi di circumnavigazione, uscendo dallo stretto di Gibilterra fino a New York e poi per il golfo del Messico fino alle Antille. Costeggiando l’America Meridionale, passava per lo stretto di Magellano, in Patagonia, inoltrandosi nel Pacifico, nel paradiso delle isolette oceaniche della Polinesia e Micronesia, fino al Giappone; da lì, per il mar Giallo, in Cina e in Corea. Poi dall’Indostan alla Sumatra, da Ceylon alle coste dell’Australia, per il mar Rosso e per il canale di Suez, fino al rientro per il mediterraneo. Aveva sempre cose nuove da raccontare su cose, piante, animali, paesi, costumi, razze e uomini diversi.

Un giorno ha portato al barone una scatola con ruderi, frammenti, cocci di stoviglie e lapilli vomitati dal vulcano La Pilée, che in un momento cadaverizzò la bella cittadina di S. Pierre nella Martinica. Gli ha dato anche un quaderno sulle reminiscenze di alcuni dei suoi viaggi fino al Giappone e alla Cina e una relazione scritta nel maggio 1902 sull’isola della Martinica, dopo il terribile disastro del vulcano La Pilée.

Durante un periodo di permanenza a Favara, Michelino aveva espresso il desiderio di porre fine ai suoi viaggi e stabilirsi definitivamente nel suo paese natio con un lavoro dignitoso. Per la verità Michelino nutriva speranze di un lauto aiuto economico o un lavoro da parte del barone. Il barone aveva promesso qualche aiuto, ma non gli aveva mai promesso doni di migliaia di lire. Col tempo sfumava questa speranza e Michelino cominciava a guardare il barone come un mancatore.  In prossimità di un nuovo viaggio di circumnavigazione il barone augurava buone cose a Michelino, parlandogli del lato bello di questi viaggi. Michelino mostrava indignazione.

Per un anno non si sono più scritti e visti con Michelino. Solo il 13 dicembre 1905 giunse al barone una cartolina illustrata del 30 novembre, da Juva.

Il 31 gennaio 1906 il barone rispondeva: “Carissimo amico ... non so se più ci rivedremo. Voi certo state bene nonostante l’esilio e il disagio degli oceani. Vi auguro sempre salute, forza ed ottimo avvenire. Spesso ho pensato e penso a voi ed altri pochi amici, che mi restano e mi conforto. Quasi tutti i miei vecchi amici coetanei sono partiti per l’eternità e non mi resta che la speranza di rivederli tra non molto in un mondo migliore. Addio mio buonissimo amico; non so se anche questo è l’ultimo addio. Io comprendo le vostre sofferenze morali e materiali, così lontano dalla patria; ma almeno vedete tutto il nostro mondo, cosa concessa a pochissimi.”

Successivamente altre lettere Michelino ha scritto da Manila; poi ha inviato un suo ritratto fotografico fatto in Cina, una relazione dalla Birmania, dove descriveva Banghok come città delle acque, dei canali, dei fiumi, come città incantata, un giardino, una ricchezza di fiori, di piante, di gemme, di ori straordinari. Descriveva la sontuosità dei templi di Budda, dei palazzi del re, dei suoi elefanti bianchi e dei tram elettrici.

Altra lettera ha mandato da Aden e due cartoline illustrate dalla Somalia. Ha scritto da Colombo, descrivendo la città come una delle più ricche e belle di Ceylon. Ha mandato un ragguaglio della vasta e magnifica Bombay. Gli parlava di cimiteri, di crematori e di torri, sulle quali si esponevano i cadaveri per darli in pasto agli uccelli.

In una lettera confidava al barone di essersi ufficialmente spiegato per le nozze con una signorina, ma sul bello delle speranze, cadde il sogno.

Dopo due anni di circumnavigazione sulla real nave Calabria, il 27 febbraio 1907, quando meno me se lo aspettava, il barone veniva visitato da Michelino Internicola.

Nella prima metà del mese di ottobre 1907, durante i soliti viaggi, Michelino scriveva due lettere, in cui diceva di essere passato dalla real nave Calabria, in qualità di capo timoniere nella torpediniera n. 95 e da questa a Commissario Ufficiale di seconda classe e che verso la fine del mese sarebbe passato all’amministrazione dello Stato in qualità di ufficiale di ordine di terza classe, nell’Intendenza di Finanza e così lasciare definitivamente la marina.

Dopo queste lettere nulla si è più saputo di Michelino. Il barone è spirato dopo tre mesi.

 

 

Maniglia Francesco

(maestro elementare e in calligrafia - fotografo)

 

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Mangiata dei santi del 19 Marzo 1897 per la festa di S. Giuseppe.

2

Foto di Francesco Maniglia

3

Piazza Cavour del 1885 ca.

4

Piazza Cavour del 1885 ca.

 

 

Maniglia Francesco, primogenito di nove figli, nacque a Favara il 1 maggio 1857 da Rosario e Agata Lentini. Il padre era calzolaio e sacrestano alla madrice, attività quest'ultima, ereditata, a sua volta, dal di lui padre Francesco nato a Palma di Montechiaro da mastro Gioacchino e Calogera Montalto. Nel 1893 sposò Assunta De Vecchi, figlia di Vincenzo (segretario comunale a Favara, oriundo di Venezia ) e Carmela Sajeva, da cui nacquero Rosario e Agata.

Francesco Maniglia merita essere ricordato per il suo hobby di fotografo iniziato in età giovanile, perché attraverso la sua attività ha lasciato a Favara una notevole documentazione fotografica, oggi testimonianza di una cultura storica in certi casi scomparsa.

Le foto del maestro Maniglia riguardano vedute, scorci di paesaggi, manufatti e monumenti, scene di carattere popolare, di vita quotidiana e legate ad eventi festivi, cerimoniali, luttuosi, etc., compreso ritratti.

Tra le vedute più conosciute sono da annoverare quelle di piazza Cavour, ma anche scene popolari legate soprattutto alle feste di S. Giuseppe, che in essa si svolgevano. Fra queste "la mangiata dei santi" del 19 Marzo 1897, eseguita un quarto d'ora prima del crollo del palchetto della mangiata (v. f. 1). In detta foto si intravedono gli archi, i palchi della banda. Il sistema di illuminazione con i fanaletti e le palle di vetro. L’ossatura del fuoco artificiale (casteddru focu). Le tende bianche che difendevano dal sole i banchi di vendita del torrone e delle cubaite.

Si ricorda anche la foto della domenica ultima di carnevale, con carro in piazza, del 28 Febbraio 1897. In quella circostanza, spalancatosi il portone di casa Fanara, nella piazza Cavour, verso le 3 p. m. è sortita la carrozzata. Il carro aveva la forma di una grande cesta vestita di canne, sormontata da un grande manico intessuto di fiori, con sopra 20 o 22 maschere e banda musicale.

Si ricordano due fotografie della consacrazione della madrice del 10 Ottobre 1897; la foto degli Stabilimenti Mendola del 14 dicembre 1897; due fotografie del 10 settembre 1902 del corteo funebre per i funerali di Gaetano Mendola (fratello del barone Antonio) davanti la madrice e al quadrivio Itria.

Si ricordano pure le foto ritratto dell'agosto 1902 ritoccate a chiaro-scuro di 25 ritratti dei 25 sindaci, in parte ancora oggi visibili nella sala d'ingresso al primo piano del Palazzo Comunale di Piazza Cavour.

Le fotografie di Francesco Maniglia sono ormai entrate a pieno titolo nel novero delle fonti storiche di Favara. Molto spesso l'immagine fotografica diventa simbolo di un evento, la testimonianza diretta di un evento e ricoprire il ruolo di vero e proprio "agente di storia".

Come scritto dal barone Antonio Mendola nei suoi diari (19 Marzo 1897): Queste fotografie sono dei ricordi che col tempo lungo divengono preziose e valgono a trasmettere il colore locale, il colore del tempo e gli usi del popolo. Da qui ad un secolo chi può prevedere i mutamenti!. Forse parrà strana la fotografia seppure esisterà ancora.

 

 

Marrone Calogero

(impiegato Comuni di Favara e Varese, Giusto fra le Nazioni)

 

Calogero Marrone 1889-1945

 

 

Marrone Calogero è nato a Favara l'8 maggio 1889 da Salvatore e Filippa Paci. Il 21 dicembre 1911 è stato iniziato, col grado di apprendista, nella loggia massonica Giuseppe Petroni di Favara dove, il 24 novembre 1921 è stato elevato a compagno d'arte e maestro.

Nel 1919 ha sposato la parente Giuseppa Marrone di Domenico e Brigida Pirrera, da cui sono nati Filippina nel 1921, Salvatore nel 1923, Brigida nel 1925 e Domenico nel 1928.

Dopo essere stato impiegato al Comune di Favara, Marrone vinse un concorso nel Comune di Varese, dove si trasferì con la famiglia nel 1931.

La carriera a Varese è stata rapida: applicato di prima classe nel '31 all'ufficio elettorale, certificati e passaporti di Varese; dal '34 dirigente l'ufficio anagrafe; dal '37 capo dello stesso reparto con dodici impiegati. "Ottimo funzionario - si leggeva nel rapporto municipale del 9 febbraio 1942 - sia per doti intellettuali che per attività pratica, qualità direttive ed organizzative". Un funzionario esemplare, punto di riferimento per migliaia di cittadini, dall'8 settembre 1943 pedina fondamentale dell'antifascismo varesino che fra ostacoli di ogni genere, diversità di vedute, scarsità di determinazione e di mezzi, aveva cominciato ad abbozzare una strategia organizzativa.

Varese, città di frontiera, subito dopo l'armistizio e le prime stragi naziste sul lago Maggiore, era stata presa d'assalto da migliaia di fuggiaschi, soprattutto ebrei, giunti da ogni parte d'Italia ma anche da giovani di leva che avevano guardato alla vicina Svizzera come alla terra promessa.

Calogero Marrone, profondamente convinto del dovere di ogni italiano di combattere i nazifascisti con ogni mezzo ed in ogni circostanza, aveva trasformato il suo piccolo ufficio in una specie di campo di battaglia. Al posto della penna e il calamaio, i timbri, le cartelle anagrafiche.

Il 31 dicembre del '43, dopo oltre tre mesi e mezzo dall'inizio della sua attività benemerita, il lavoro di Marrone s'interruppe per una delazione, partita quasi certamente dal municipio, forse addirittura dal suo ufficio. Si disse, nell'immediatezza del fatto, che il responsabile potesse essere stato un impiegato dell'anagrafe. Voci sfumate, mai riscontrate. Accusato di fornire carte d'identità falsificate ad ebrei e antifascisti che avevano potuto così sfuggire alla ferocia nazifascista. Una lunga, penosa detenzione in tre carceri, poi l'orrore del campo di sterminio.

La tragedia è maturata il 4 gennaio1944 quando, nel tardo pomeriggio, nell'appartamento di Calogero Marrone si è precipitato don Luigi Locatelli, canonico della basilica di san Vittore, in stretto contatto con il comitato di Liberazione Nazionale, per informarlo che i tedeschi erano alle porte e che l'arresto sarebbe stato imminente. Bisognava fuggire senza perdere tempo.

Calogero Marrone all'imbrunire del 7 gennaio1944 venne arrestato da due ufficiali delle SS, sulla base di un ordine del comando germanico di Varese che non lasciava dubbi: collaborazionismo con la Resistenza, favoreggiamento nella fuga degli ebrei, violazione dei doveri d'ufficio, intelligenza con i CLN. Accuse da fucilazione.

Da quel 7 gennaio 1944 Calogero Marrone, "Giusto tra i giusti", come appare scolpito nel marmo bianco di una targa posta davanti all'ufficio anagrafe di Varese, il 1 ottobre 1994, dalla comunità ebraica per l'impegno personale dell'avvocato Giorgio Cavalieri, dall'ANPI e del Comune di Varese, passò sotto il solo controllo della giurisdizione tedesca, malgrado fosse stato recluso in una cella del carcere giudiziario dei Miogni, prigioniero dei nazisti sino alla morte avvenuta nella metà di febbraio 1945 nel campo di Dachau.

 

Testo in parte tratto da "Vivere Varese", di Franco Giannantoni, luglio 2000.

 

 

Miccichè Gaetano

 

 

 

Il dott. Gaetano Miccichè è nato a Favara il 23 febbraio 1906 da Stefano e Giuseppa Mendola (nipote del barone Antonio Mendola). Discendente da facoltosa famiglia di borgesi e proprietari, venuta a Favara, da Grotte nella prima metà del 1600. Nel 1928 sposò, a Palermo, Teresa Fanara figlia nel notaio Gabriele e Grazia Mendola (sorella della madre), da cui vennero alla luce cinque figli. Negli anni “30 del XX sec. trasferì la propria dimora a Palermo, dove morì il 30 agosto 1993. La salma riposa nella gentilizia fatta costruire dal nonno on. Giovanni Miccichè, nel cimitero di Piana Traversa.

Gaetano Miccichè visse nel periodo in cui Filippo Iacolino (poi vescovo di Trapani) e Salvatore Pirelli, coi quali era legato da grande amicizia, furono oggetto di persecuzione fascista, per aver dato vita ad un rigoglioso movimento giovanile di associazione cattolica a Favara. In quel periodo il regime fascista imperante mirava ad avere il monopolio su tutta la gioventù della nazione e grazie all’intervento tempestivo del vescovo La Gumina si evitò il confino. Erano i tempi in cui nasceva l’oratorio mons. Giudice che esercitò una vera funzione sociale per la gioventù favarese, dove si formarono i giovani del circolo Manzoni, in seno al quale sorse la Conferenza di S. Vincenzo, il 14 settembre 1928, che tutt’oggi sopravvive nel segno dell’operosa carità cristiana. Gaetano Miccichè fu confratello e co-fondatore della “S. Vincenzo”, assieme a Salvatore Pirelli (terzo presidente della Conferenza), e si adoperò per raccogliere offerte da destinare ai vecchi e bambini in stato di indigenza.

A Gaetano Miccichè è legata la chiesetta dedicata a Nostra Signora di Tutte le Grazie, che sorge sullo stradale Favara-Castrofilippo, meglio conosciuta dai favaresi come “chiesa della Grazia lontana" per distinguerla dall'altra chiesetta di c.da Portella, alle spalle del calvario. L'origine della chiesetta risale al 1602 ed era detenuta da un gruppo di laici del luogo. Successivamente venne abbandonata e cadde in rovina. Ciò che rimaneva del sacro edificio passò in proprietà del Demanio. Nel 1885 il dott. Francesco Miccichè (bisnonno di Gaetano), proprietario del fondo Baglì, dove ricadeva il sacro manufatto, con la somma di 100 lire riscattò i resti dell'antico manufatto che nel frattempo era stato adibito a deposito di materiali durante la costruzione della strada Favara-Castrofilippo. L'obiettivo di Francesco Miccichè era quello di restaurare la chiesetta per destinarla a cappella gentilizia di famiglia, ma il suo progetto svanì a seguito della costruzione del cimitero di Piana Traversa e delle nuove norme di polizia mortuaria che vietavano il seppellimento di cadaveri fuori di questo. Alla morte di Francesco Miccichè, avvenuta nel 1905, la chiesetta venne ereditata, in usufrutto, dalle figlie Graziella e Giuseppina, che ne furono fedeli custodi e ne tennero vivo il culto. Dopo diversi passaggi ereditari, la chiesetta pervenne al dott. Gaetano Miccichè e su sua proposta, nel 1966 venne eretta ad oratorio pubblico da parte della Curia Vescovile. Da allora molti fedeli si recano in devoto pellegrinaggio, in particolare nel mese di maggio. Per disposizione testamentaria (codicillo del 1986), a seguito del decesso di Gaetano Miccichè, la chiesetta è divenuta proprietà della Curia Vescovile ed aperta in particolari occasioni come il giovedì santo e il mese di maggio.

 

 

Morello Baganella Salvatore

(tenore e pittore)

 

 

Turi Morello

 

 

 Salvatore Morello Baganella, in arte Turi Morello, settimo di nove figli (di cui uno – il quarto -morto a sei mesi), nacque a Favara il 1 agosto 1926 in una famiglia di umile tradizione contadina. La famiglia venne trapiantata da Grotte a Favara nel 1750, attraverso il matrimonio di Leonardo (di Diego e Caterina Bosco) con Caterina Sollazzo. Giuseppe, padre di Turi, lavorava in qualità di mezzadro nella tenuta dell’avvocato Giuseppe Giglia, in c.da Misita, nei pressi della foce del fiume Naro, mentre la madre Maria Cuschera gestiva il forno della nonna patema, dove egli si rendeva utile, consegnando a domicilio il pane ai clienti. Proprio a quell’epoca scopriva di possedere un talento naturale per il canto, una voce naturalmente dotata che aveva bisogno, però, di essere curata ed educata. Gli anni successivi lo videro impegnato in varie attività canore: dalle prime serenate fatte per diletto, com’era in uso allora, agli interventi d’occasione per gli sposalizi, ai canti religiosi, alle lamentazioni del Venerdì Santo, che in un paese di provincia come Favara gli hanno dato subito una certa notorietà. All’attività di cantante Turi Morello affiancava quella di attore filodrammatico, esibendosi al cinema “Parello” di Favara, che funzionava anche da teatro, interpretando, tra gli altri, il ruolo di don Lollò Zirafa nella «Giara» di Luigi Pirandello. Nel 1949 iniziava la sua attività musicale, studiando presso l'Istituto Musicale Vincenzo Bellini di Catania dove nel 1955 faceva la sua prima esibizione. È stato, oltre che cantante, anche valente musicista e compositore di canzoni. Andò a lavorare in America; cantò a Filadelfia, in Florida e visitò l’Argentina. Ma Turi Morello è stato anche pittore: la sua pittura ingenua, primitiva, istintiva, non colta, non sorretta da una formazione scolastica o professionale non collocabile all'interno di correnti artistiche o di pensiero si esprime con semplicità espressiva, seguendo un proprio istinto, senza curarsi dei dettami tecnici, di perfette proporzioni e prospettive, ma collocandosi spesso in un mondo contadino nostrano, con scene di vita quotidiana ricostruite attraverso ricordi giovanili e di fanciullezza. Un’arte, quella di Turi, riconducibile al Naïf, col gusto per la narrazione, l'animazione, la semplicità dei tratti decorativi, un “surrealismo” materico e vivace e per certi tratti, anche infantile, con un ricco accostamento di colori, generalmente, puri; un linguaggio figurativo, immediato, semplice, popolare, dove il panorama urbano e le tradizioni popolari del suo paese natio costituiscono il tema principale, ma spesso con livelli di forza espressiva ed intensità cromatica pregnanti, tipici della sua terra. Il 15 febbraio 1959, nella madrice di Catania, sposava Rosaria Cusimano, con cui ha condiviso la passione della pittura. Amava dire: “Con la pittura ho dipinto il mio passato, col canto ho realizzato il sogno della mia vita”. Il cuore di Turi è cessato di battere il 29 novembre 2012 a Favara.

 

 

Palermo Camillo

(insegnante, artista)

 

Ins. Camillo Palermo 1891-1964

 

CapuanaGiovanni Verga

EdmondoDe Amicis - Giovanni Verga

(dell'ins. Camillo Palermo)

 

 

Palermo Camillo nacque a Favara il 12 marzo 1891 da Calogero Palermo e Giuseppa Lentini. Ufficialmente è stato un maestro elementare che svolse per 44 anni la sua attività, quasi interamente a Favara, ma in privato é stato anche un eccezionale docente, preparatore di alunni della Media e Media-superiore di Italiano e Latino, e parimenti di Matematica e Disegno con competenza e capacità didattiche sorprendenti.

In un paese culturalmente arretrato, qual era Favara, l‘analfabetismo era imperante; i pochi che intendevano seguire un corso di studi regolari erano costretti a frequentare il seminario minore di Agrigento col dichiarato proposito di farsi preti.

Di questi alunni seminaristi, i più, quando raggiungevano una certa autonomia culturale, lasciavano le scuole religiose e proseguivano in privato, ovvero negli istituti scolastici di Agrigento o Palermo.

In una siffatta situazione il maestro Palermo era ricercato per guidare, sorreggere, preparare ed istruire i giovani a raggiungere l’agognata meta.

Camillo Palermo visse i suoi primi anni in un ambiente civilmente avanzato e, come gli studenti di allora indossò la veste di seminarista ma, convinto di non avere alcuna vocazione al sacerdozio, ne uscì dopo qualche anno per continuare gli studi a Palermo nella Scuola Normale, corrispondente all’istituto Magistrale di oggi, conseguendone il diploma.

Questa preparazione di base e la formazione religiosa acquisita al seminario rimasero in lui come elemento fondante della sua cultura e dei suoi comportamenti, per tutta la vita, ma sua vera formazione culturale fu frutto, però, dell’impegno suo personale.

Vorace lettore di libri s’indirizzò verso i capolavori della letteratura mondiale; approfondì gli studi letterari italiani sugli autori antichi e moderni; segui più da vicino con passione ed entusiasmo gli autori del suo tempo: lesse gli scrittori del Verismo, puntando soprattutto sui due scrittori siciliani Verga e Capuana di cui lesse ed annotò le tutte le opere. Ebbe un vero culto per questi narratori isolani che imitò con successo, ne fu prova la novella “Rosa” che pubblicò su “Scuola e Vita”, rivista edita a Palermo sotto la direzione di Giuseppe Ernesto Nuccio, valido scrittore per l’infanzia.

A De Amicis e a Verga inviò il ritratto a sfumino nei primi anni del 1900, e ne ebbe lettere di ringraziamento e di stima. Il ritratto di “Verga” di Camillo Palermo si trova oggi inserito nella monografia del Cattaneo, nel volume sesto della collezione dell’UTET.

Camillo Palermo era un artista della figura umana: operava su carta rugosa bianca su cui spalmava uno strato nero di carboncino, e da quel nero ricavava i lineamenti e l’immagine del soggetto secondo la tecnica della “sottrazione”, da lui sperimentata, che consisteva nel togliere il nero con la gomma o, più spesso, con mollica di pane, sino ad apparire, alla fine, come una vera e propria fotografia.

Lavorava anche su tela e si cimentava pure nella lavorazione dell’argilla.

Iniziò l’attività di maestro elementare a Siculiana, nel 1915, anno della partecipazione dell’Italia alla I Guerra Mondiale. Camillo Palermo non poté essere arruolato per le sue precarie condizioni di salute, ma ciò non gli impedì di servire il Paese con la forza della sua cultura e l’impegno intelligente che profuse nella scuola a dirozzare le menti, a formare le coscienze, ad educarle verso gli ideali alti e sublimi che allora la nazione richiedeva.

Nel 1919 pubblicò il “trattatello” e “L’ideale nell’educazione e l’evoluzione della Scuola”.

Ha cercato di dimostrare che la sola cultura intellettuale non rinfranca perché essa, scompagnata dall’educazione del cuore, sarebbe come il bagliore del lampo che rompe l’oscurità della notte e la rende più truce. Ma per lui non bastava l’educazione del cuore, occorreva ben altro, occorreva l’esercizio della volontà, dell’impegno, della lotta, della perseveranza, del sacrificio per vincere gli ostacoli, i mali dell’esistenza contro cui è doveroso lottare per uscirne vincitori.

Aveva 28 anni Camillo quando scriveva queste cose che oggi sono per noi un segno chiaro della ricchezza culturale e della già matura formazione che stava a fondamento della sua attività didattica. Tra questa attività e la teoria non c’era discrepanza: il maestro Palermo fece atto di solidarietà con un altro maestro parimenti appassionato del processo educativo: Antonio Bruccoleri che diventò il primo ispettore scolastico in Sicilia.

Insieme si impegnarono a rinnovare la scuola per radicarla meglio nella società; perciò promossero incontri coi genitori con lo scopo di convincerli della massima utilità dell’apprendimento e della cultura, ma anche col preciso obiettivo di chiedere la loro collaborazione.

Introdusse le attività artistiche e ludiche con recitazioni, rappresentazioni teatrali, riproduzioni figurative e plastiche in modo da creare nell’aula scolastica un’atmosfera di fattività, di emulazione, di allegrezza, di gratificazione, di soddisfazione piena e completa.

Alle attività artistiche affiancò un apprendimento ragionato che traeva linfa dalla concretezza dello sperimentale e del sensibile, tali da esercitare l’intuito e l’intelligenza, la riflessione e il ragionamento che sono, in fondo, le strutture portanti della vera maturazione.

Anche queste oggi sono conquiste di cui sembra superfluo parlare; allora erano novità e come tali incontravano il favore di pochi e il sospetto di molti.

L’assiduità con cui Camillo Palermo perseverava nell’impegno educativo finì con l’attirare l’attenzione delle autorità scolastiche che gli riconobbero i meriti.

Il 12 maggio 1938 il Provveditore agli Studi Dr Giuseppe Romano inviò all’Ispettore di Agrigento la seguente nota: “Vogliate, a mezzo del Direttore Didattico, esprimere il mio vivo compiacimento all’insegnante in oggetto per la fedele opera prestata a favore della scuola del popolo e per l’alto spirito di comprensione dei nuovi doveri che deve possedere l’insegnante dell’Italia, spirito di cui ha dato prova nell’adempimento delle molteplici attività dentro e fuori la scuola...”

I meriti gli furono riconosciuti ufficialmente anche dal Presidente della Repubblica De Nicola, allora Capo Provvisorio della Stato, che il 20 settembre 1946 gli conferì la Croce per gli alti meriti nell’insegnamento, nella cultura e nell’arte.

Particolare curioso fu il telegramma di ringraziamento di Trilussa a Camillo, pervenuto nel 1952.

E il 27 novembre 1957 ricevette ancora un attestato del suo impegno educativo sul “risparmio” da parte di una Commissione istituita fra le Casse di Risparmio italiane che gli assegnò un premio in denaro.

L’ultimo riconoscimento gli fu dato dopo il suo collocamento a riposo, il 7 ottobre 1960, dal Presidente della Repubblica, con il diritto di fregiarsi della medaglia d’oro per la sua lunga carriera di lodevole servizio e per i suoi meriti educativi non comuni a favore dell’infanzia e nell’interesse della nazione.

Al Circolo della Compagnia tenne una conferenza su Trilussa, e poiché gli riusciva assai difficile leggere le poesie, oggetto delle sue osservazioni critiche, le recitava a memoria. E a memoria sapeva buona parte della Divina Commedia di Dante e, cosa sorprendente, anche molti brani dei Promessi Sposi.

Camillo Palermo aveva 37 anni, nel 1929, quando sposò la cugina Calogera Butticé di Antonio (che appena diciottenne combatté volontario a Bezzecca, con Garibaldi – v. foto nell’album delle memorie), e di Anna Lentini, sorella di Giuseppa, mamma di Camillo.

Dal matrimonio nacquero, nell’arco di nove anni, sei figli.

Tra il 1946 e il 1950 Camillo disegnò una lampada votiva d’argento, da sistemare nella cappella del Crocifisso, all’interno della madrice di Favara. Dopo avere raccolto l’argento necessario inviò i disegni ai Fratelli Bertarelli di Milano che la realizzarono. Di questa lampada purtroppo oggi non c’è più traccia in chiesa.

Camillo era cattolico praticante, non bigotto; credeva nel Dio della provvidenza, si schierava coi deboli e coi giusti, esecrava ogni forma di prepotenza o di ribellismo, sperava nel trionfo della giustizia e della verità, aveva fiducia negli uomini di buona volontà e fede in Dio.

Camillo continuò il suo doppio impegno didattico, pubblico e privato, sino al 1959 quando si ritirò (aveva 68 anni) in condizioni fisiche assai provate, quasi cieco e quasi sordo, ma forte ancora nello spirito che lo ha sostenuto nel suo ultimo impegno letterario: “Fiabe”. Sono nove le fiabe che, nell’insieme, formarono un libro di congruo spessore, purtroppo rimasto inedito. Le scrisse all’età di 70 anni e le dedicò ai “fanciulli d’Italia” che guardava con fiducia e speranza per il rinnovamento sostanziale delle sorti della nostra terra.

Considerato un uomo di cultura e di erudizione assai vasta, a Camillo Palermo va attribuita la decifrazione dell’iscrizione incisa nell’elemento lapideo monolitico oggi posto a sinistra dell’andito d’ingresso del Castello Chiaramonte; anzi su ciò la gente ha intessuto la leggenda della donna misteriosa del Castello che s’aggirava da secoli tra le sue mura ad impaurire chi cercava di penetrare i segreti che afferivano la casata chiaramontana: mentre Camillo era lì, per l’ennesima volta, a scrutare i segni strani che la lapide ancora oggi riporta, ma gli apparve la donna misteriosa che, vinta dalla sapienza di quell’uomo, si vendicava scagliando un pugno di sale sugli occhi che da allora hanno stentato a vedere. Questa è una leggenda che, nel suo significato allegorico, serve a riconoscere al maestro Palermo, anche da parte del popolo favarese, le doti di intelligenza e i meriti della cultura.

Si spense, dopo una breve malattia, la sera del 19 gennaio 1964, all’età di 73 anni.

 

Biografia tratta dagli scritti del prof. Antonio Palermo, figlio di Camillo.

 

 

Parlato Valentino

(giornalista)

 

Valentino Parlato

 

 

Figlio di Giuseppe di Comitini e Angela Sajeva di Favara. La famiglia Parlato venne importata da Positano dal trisavolo di Valentino, suo omonimo, nato intorno al 1783 da Giovanni e Rosa Rupili, a Favara nel 1809 sposato con Maria Dejure e dimoranti nel vicolo Valentino.

Giuseppe e Angela Sajeva si trasferirono in Libia alla fine degli anni “20 del Novecento e si sposarono nel 1930 nella chiesa del Sacro Cuore di Tripoli. Qui nacque Valentino il 7 febbraio 1931. La tranquilla infanzia nella società coloniale tripolina, terminava con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. La famiglia si trasferiva nella campagna di Sorman, dove il nonno materno possedeva una concessione agricola. Non potendo studiare utilizzò la modesta biblioteca familiare. Con il nonno imparò a conoscere la vita di campagna, molto diversa da quella piccolo-borghese vissuta a Tripoli. Dopo la guerra, la Libia passava sotto l'amministrazione britannica. In questi anni formava la propria coscienza politica. Conobbe Clara Valenziano, che in seguito sposò. Fu tra i fondatori del Partito Comunista Libico, fatto che ne provocò, nel 1951, l'espulsione. Si trasferì a Roma, dove si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza e lavorò per il giornale del partito, L'Unità. Dal 1953 si trasferisce ad Agrigento dove lavorò per la locale federazione del PCI, divenendo funzionario di partito.

Tornato a Roma, proseguì il lavoro con L'Unità, collaborando con Giorgio Amendola e divenendo giornalista di economia per la rivista Rinascita. Nel giugno 1969 fu tra i fondatori   de Il manifesto di cui fu, a più riprese, direttore. Il 24 novembre 1969 venne espulso dal partito comunista, assieme ad Aldo Natoli, Rossana Rossanda e Luigi Pintor in seguito alle esplicite critiche mosse al partito, che non aveva condannato l'invasione sovietica della Cecoslovacchia. introdusse, tra le altre, l'edizione di opere di Adam Smith, Lenin, Antonio Gramsci e Mu'ammar Gheddafi. Valentino morì a Roma il 2 maggio 2017.

 

 

Portolano Paolo

(banditore)

 

Paolo Portolano

 

 

La storia, si sa, non comprende solo grandi fatti e grandi personaggi; essa è composta da tante microstorie che ogni comunità porta impresse nella propria memoria e che spesso hanno come protagonisti soltanto uomini semplici. Fra questi, a Favara, è da annoverare Pauliddru, al secolo Paolo Portolano (v. foto), nato il 2 giugno 1916 da Salvatore e Giuseppa Bunone, discendente da una modestissima famiglia che trae origine a Favara da Salvatore (bisnonno di Pauliddru e figlio di Calogero e Concetta da Girgenti), il quale sposò Carmela Terranova nel 1823 a Favara.

Uomo semplice, Pauliddru, rappresenta ormai un pezzo della storia di Favara perché è stato l'ultimo banditore di questa comunità, epigono inconsapevole di una tradizione antica. Pauliddru è una figura, per chi lo conobbe, che riporta subito la nostra mente alla fanciullezza, ad una forma molto più casereccia della vita sociale; personaggio, la cui presenza pittoresca non sfuggiva a nessuno, perché raccontava la povera realtà dei tempi passati.

Negli anni in cui la miseria e l'analfabetismo erano molto diffusi, la sola maniera di comunicare provvedimenti amministrativi importanti o altre urgenze alla popolazione contadina e zolfatara di Favara era, con tutta evidenza, quella di farli diffondere a voce dal banditore. Solo in questo modo l'amministrazione comunale si assicurava che una notizia giungesse alle orecchie di tutti i cittadini, anche i più ignoranti.

Pauliddru si annunciava con un rullo di tamburo, al quale faceva seguito, ad alta voce, u bbannu (il bando), che consisteva in comunicazioni giudiziarie, sentenze, citazioni, proclami, ordini di ogni tipo, soprattutto da parte del Municipio; ma non mancavano anche le comunicazioni commerciali e private.

Pauliddru, sfortuna volle che nascesse cieco e per circa un trentennio girò e rigirò le malconce strade di Favara, col tamburo a tracolla, con la testa per aria e l’andatura trasandata. Accompagnato da frotte di ragazzini, di tanto in tanto, si fermava e, dopo il solito rullo di tamburo gridava: Tutti chiddri ca hannu a pagari a funnuaria, hannu tempu sta simana!. Su certe ordinanze Pauliddru non mancava di scherzarci sopra. Tutti chiddri ca hannu a pagari l’acqua, itila a pagari, se no va taglianu!. Non mancava il solito burlone che aggiungeva: Chi ni taglianu Paulì, e Pauliddru, con la testa in aria e il sorriso sulle labbra rispondeva: A tia nenti picchì unnà...

Pauliddrù passò ad altra vita l’8 gennaio 1979 e con lui è morto l’ultimo rappresentante di un mestiere vecchio di tanti secoli, il cui ricordo evoca voci e suoni di un tempo omai lontano.

 Pauliddru Tammurinaru

Rataplan..rataplan..rataplan tum tum.

Cristiani du quarteri

 vecchi, carusi, fimmini schietti, maritati e suli

scinniti tutti ca vaju a parlari

cu tutta a vuci vi vogliu cuntari

na cosa ladia ca vi fa scantari.

Rataplan..rataplan..rataplan..tum tum.

Chi musica beddra sunava Pauliddru

era u pueta di tutta Favara

u taliavamu tutti affatati

cu a vucca aperta ni faciva ristari.

Cu l’occhi chiusi e a coppula n’testa

cu u tammurinu ni chiamava a raccolta

pò n’antri nichi ci ivamu appressu

pariva un cani cu li punci addossu.

Iddru cuntava di morti ammazzati

di n’omu schettu cu nà maritata

ca l’ammazzaru pi n’ura d’amuri

e lu cuntava pruvannu duluri.

Rataplan..rataplan..rataplan..tum tum.

Chi gran pueta l’amicu Pauliddru

quannu murì ristavu firutu

u sò ricordu mu portu nu cori.

... ssssstttt… c’è un tammurinu unnù sintiti sunari?

Rataplan..rataplan..rataplan..tum tum.

Raimondo Presti (da Genova)

 

 

Russello Antonio

(scrittore)

 

Prof. Antonio Russello 1921-2001

 

 

Russello Antonio è nato a Favara il 27 Agosto 1921 da Salvatore e Angela Sferlazza, nel periodo in cui il padre prestava servizio in un casello ferroviario nel piccolo Comune di Villalba, in Provincia di Caltanissetta. Il padre, in quanto primogenito, volle dare lo stesso nome del nonno. La famiglia trae origine, a Favara, da un Gaetano, nato intorno al 1715 da Antonino e Giovanna da Grotte.

Antonio Russello fece le scuole elementari a Caltanissetta dove il padre fu trasferito alla stazione centrale. In età adolescenziale, soprattutto per le vacanze estive della scuola, veniva nel suo paese nativo e, assieme ai suoi compagni, faceva lunghe passeggiate verso i garrubbazzi, nella zona oggi urbanizzata ricadente fra le vie IV Novembre e Kennedy. Qui si andavano ad appollaiarsi sui rami e dal buio dello spesso fogliame, i piccoli indirizzavamo canzoni alle ragazze che lì andavano a passeggiare. A questo periodo si riferiscono i suoi romanzi Le terre di Zio Santo scritto nel 1948 e La luna si mangia i morti scritto nel 1953.

Nel 1932, all’età di nove anni, la sua vita subì ancora un rimbalzo per un altro trasferimento del padre, da Caltanissetta a Palermo. Anche le sue vacanze estive ebbero uno scarto tra il paese natale e la grande città del mare. Le sue avventure e le sue sensazioni le scriveva pure Elio Vittorini, con un padre che era pure ferroviere e fu, appunto, Vittorini che nel 1960 gli pubblicò La luna si mangia i morti.

Tra il 1932 ed il 1935 frequentò il ginnasio a Palermo, dove strinse amicizia con Enzo Mercanti e dove conobbe il professore Gaetano Agrigento, il quale lo aprì all’antifascismo ed all’amore per il mondo classico. In quel periodo lesse alcuni libri cosiddetti popolari.

Frequentava assiduamente le biblioteche di Palermo e a 18 anni, ha sentito le sinfonie di Schubert e da allora non ha scritto un libro che non fosse frutto di una suggestione musicale. Lesse Pirandello, Gramsci, Brancati, i classici greci e latini, Lorca e tantissimi altri.

Visse alcuni amori giovanili ricordati nel libro Anna e le altre.

Continuò la sua vita errabonda, infatti nel 1946 da Palermo si trasferì a Nicosia, dove andò ad insegnare. Non a caso le frasi di inizio di alcuni suoi romanzi si possono considerare una sola frase di compendio dei 50 anni e più di vita vissuta, errando per l’Italia e scrivendo; ed hanno il motivo d’un partire, arrivare lontano, e ripartire. Un’avventura amorosa tristemente conclusasi, lo spinse, alla fine dell’anno ad andar via da Nicosia.

L’anno dopo fu assegnato a Favara, ma un preside prete (probabilmente si tratta del sac. Giovanni Lentini e la scuola elementare "barone A. Mendola") lo disgustò al punto che andò sotto le armi per fare l’ufficiale.

Continuò la sua peregrinazione a Cesano di Roma e poi a Palmanova del Friuli, dove incontrò Enza Simeon, la donna della sua vita, che sposò nel 1956, nella basilica B. V. delle Grazie di Udine.

Congedatosi trovò lavoro in banca da dove fu licenziato per la scarsa dimestichezza coi numeri. Entrò, quindi, nella scuola dov’era il suo vital nutrimento.

Girò il Friuli, la Marca trevigiana, i paesi del padovano fino a stabilirsi definitivamente a Castelfranco Veneto.

Dopo 33 anni la casa editrice di Treviso Santi Quaranta ristampava il romanzo Giangiacomo e Giambattista con il nuovo titolo L’isola innocente, suscitando l’interesse di diversi critici italiani quali Luca Desiato che lo ha recensito il 23 febbraio 2003, Matteo Collura che ne ha scritto il 15 marzo 2003 sul Corriere della Sera, Nicolò Menniti-Ippolito che ha scritto una brillante relazione sul Mattino di Padova e La Tribuna di Treviso, Giuseppe Quatriglio che ha recensito il libro sul Giornale di Sicilia oltre al giovane critico Ferlita che ha scritto di Antonio Russello sulle pagine siciliane del giornale La Repubblica del 19 gennaio 2003 e su Stilos, l’inserto culturale del giornale La Sicilia del 16 settembre 2003.

Era il 1958 e scrisse il libro Giangiacomo e Giambattista, pubblicato nel 1969 dall’editore palermitano Flaccovio, nel 1970 finalista al Premio Campiello, vinto da Mario Soldati.

Nel 1963 l’editore Rebellato gli pubblicò La grande sete e, nello stesso anno, con Ronchitelli, pubblicò il volume Siciliani prepotenti. Seguono Il vento e le radici (1965).

Nel 1982 ha scritto Il carro dell’orsa minore e poi ancora Ragazze del Friuli, Venezia zero, Lo sfascismo, Le lunghe estati contemplando (tutti nel 1985), La corriera nella neve (1993), e così via, compresi numerosi testi teatrali, dei quali alcuni sono stati rappresentati quali: Ruderi (1946), La terra (1946), Racconto della luna (1973), La ballata degli uomini verdi (1975), Lo specchio, Inventare i nanetti (1985).

Antonio Russello si è spento a Castelfranco Veneto il 26 maggio 2001.

 

 

Sajeva Domenico

(giornalista)

 

Domenico Sajeva

 

 

C’era un mostro in Favara che offendeva spudoratamente leggi, religione, onestà pubblica e privata e faceva per nome Domenico Sajeva di Giovanni e Angela Sajeva, razza cattivissima". Queste erano testuali parole del barone Antonio Mendola.

Domenico Sajeva era perito agronomo, un tipo un poco bislacco, socialista, con l’atteggiamento del babbeo giudizioso, il classico tipo, come suol dirsi a Favara, che cercava sempre "scuru e fudda". Non si riusciva a conoscere il vero colore di costui, ovvero, se aveva colore, o se li mutava tutti, secondo le occasioni, come un camaleonte. Era uno spirito turbolento, vario, sovversivo. Il Sajeva, mattoide come suo nonno Menico, soffiava nelle passioni popolari, predicava l’amore delle plebi, malediceva i dazi consumo, spingeva il popolo ad assaltare, distruggere e bruciare i casotti del dazio.

La sua avventura iniziiò a rinfocolarsi nel 1902, quando il popolo di Favara cominciò a duolersi dei medici favaresi che avevano fissato il nuovo annuo onorario, salatissimo, anzi, insostenibile per le famiglie povere. I medici erano diventati nemici spietati dei sofferenti.

Nel mese di agosto 1902 c’è stato un grande comizio popolare. Menico Sapeva parlò per circa un’ora, riscuotendo gli applausi e il favore del popolo. Propose alla popolazione di rompere l’accordo coi medici. In Favara si chiamava "accordo" l’annuo pagamento fissato tra il cliente e il medico. “Rompete tutti l’accordo - ha gridato Sajeva - e vedrete rotto l’incanto. I medici si sbraneranno tra loro come cani”. Poi ha proposto l'apertura di una farmacia notturna: cosa veramente necessaria. Ma il sindaco Angelo Giglia era negato per le opere di beneficenza. Il Sajeva disse: “Per fare disegnare a Ciccio Maniglia a chiaro scuro 25 ritratti dei 25 sindaci (quelli esistenti nella sala d'ingresso al primo piano del Palazzo di Città di piazza Cavour) ha pagato 625 lire; per la beneficenza diviene taccagno e pitocco”.

Nella prima metà di settembre correva voce che il dottorino Valenti avesse spinto gli altri medici a lanciare querela criminale contro i membri del comizio popolare, che avevano sottoscritto la risposta inserita nel giornale L’ora ed un’altra querela contro Menico Sajeva, per le parole pronunciate nel comizio stesso contro i medici.

Si è costituito un comitato di difesa e resistenza, e i denari abbondavano per sostenere le spese di dette querele.

In occasione della cosiddetta "congiura dei medici", Menico Sajeva ha fatto nascere un giornaletto in Favara, tutto dedito alle cose paesane col titolo "La Campana del Popolo" (di cui ancora oggi esiste una raccolta ben rilegata nella biblioteca comunale di Favara), nel cui primo numero ha dato una bella lavata di capo ai medici.

Purtroppo gli altri numeri non hanno risposto alle comuni aspettative. Menico Sajeva, ancora giovane e inesperto sognava rose, ma era destinato a vedere spine e avrebbe compreso la grande differenza tra il detto e il fatto, e quanto difficile era in Favara operare il bene e quanto era facile la censura e la calunnia.

Nel giornale il Sajeva, imprudentemente, aveva fatto stampare l’elenco, con i nomi delle persone che avevano contribuito alla colletta, che andava raccogliendo nel popolo, per pagarsi gli avvocati difensori. I medici si sono inviperiti, hanno fatto comunella e si sono resi solidali nel male, rifiutandosi di curare i membri del comitato a prezzi plausibili e correnti.

Un articolo ingiurioso e diffamante di Sajeva contro il dr. Vita nel n. 5 de La Campana del Popolo ha fatto inacerbire ulteriormente le cose, al punto da prendere il carattere di una pubblica e dannosissima discordia.

Sajeva era un grande birbante. I medici gli hanno alzato un piedistallo d’oro. Ci voleva una voce autorevole. Ma chi si poteva mettersi in mezzo? Comporre il dissidio tra due era facile, tra molti difficilissimo. Mancava poi un paciere, che avesse effettivamente i requisiti e l’abilità richiesta nel presente caso.

I medici pretendevano una disdetta stampata dal Sajeva nei giornali, con la quale smentiva le cose dette da lui. Naturalmente tale dichiarazione veniva negata dal Sajeva.

La causa la chiamarono: “La causa del piccolo parlarolo”.

Il 14 novembre Menico Sajeva fu condannato dal Tribunale di Girgenti ad un anno e 10 giorni di carcere, oltre a mille lire di ammenda, alle spese di pubblicazione della sentenza in tre giornali.

Menico Sajeva ha avuto il torto di avere adoperato l’ingiuria e la diffamazione per difendere una causa giusta.

Dopo la sentenza La Campana del Popolo non vide la luce. Sajeva non ha avuto testa e tempo per infarcire di suoi scritti il giornale.

Il 16 novembre, il Sajeva, tornando verso le 5 di pomeriggio da Girgenti, ebbe una dimostrazione popolare numerosa, una specie di ovazione. Sajeva, in mezzo alla folla plaudente e commossa, è sceso in piazza Cavour, è salito su un tavolo ed ha pronunciato un vibrato e conveniente discorso. Concludeva con queste parole: “Io Domenico Sajeva, con la penna, con la parola e col cuore, con e senza le manette, sempre con voi, come spero voi sarete sempre con me”.

Molti si commossero. La piazza era gremita di persone, come per le feste solenni di S. Giuseppe, era un muro di teste e berretti. Questa enorme alzata di popolo non è stato certamente un fatto piacevole per i medici.

Ma le cose non sono finite qui. I dottori Valenti, padre e figlio, divenuti accaniti, persecutori, pieni di presunzione e di odio implacabile, per medie persone del capitano e tenente della truppa, hanno preteso di sapere se un articolo del concorso delle spie in Austria, che Menico aveva fatto stampare ne La Campana del Popolo, alludesse ad essi Valenti ed in ogni caso volevano una dichiarazione scritta e firmata dal Sajeva. Sajeva rispose che non era obbligato a dar risposta. A seguito di ciò i messi intimarono il duello, ma Sajeva rifiutò.

Il 24 gennaio 1903 si è riunito il Consiglio Comunale per deliberare sulla proposta della Giunta, di lanciare querela contro Sajeva, per la lettera aperta pubblicata ne La Campana del Popolo, diretta al prefetto, dove chiedeva un’inchiesta amministrativa sul Comune. Il Consiglio Comunale, ab irato, ad unanimità ha autorizzato la Giunta a procedere a spese pubbliche contro Sajeva.

Sajeva si era atteggiato piuttosto bene. Dopo essersi procurato l’aura, la benevolenza popolare cominciò a voler fare l’indipendente, non sentendo i consigli degli amici e gli avvertimenti di uomini sperimentati. Eccedeva ad ogni passo, cominciava a mettersi da sé in mala voce: perdeva fautori e seguaci.

Un’altra querela sulle spalle lanciata da un corpo intero rispettabile del proprio paese, a vicinissima distanza di tempo, produceva pessima impressione nel pubblico e nell’animo dei giudici.

Nel marzo 1903 sono partiti per Palermo, per l’appello di Sajeva, i medici Gaetano Vita Guadagno Miccichè, Gerlando Spadaro, Libertino Fanara e il dottorino Calogero Valenti.

La sera del 10 marzo arrivava un telegramma a Favara con la scritta: “Domenico è assolto”. La bandiera, di buon mattino, sventolava nel casino o circolo Fratellanza ad onore di Sajeva.

In realtà Sajeva fu liberato dal carcere; ma fu condannato alle spese del giudizio ed alla multa di lire 200 invece di 1.000. Non era completa vittoria, ma era un buon trionfo!

Arrivato in Favara Menico Sajeva ha avuto una vera ovazione, un’apoteosi popolare.

La strada dell’Itria era gremita di popolo: uomini, donne, vecchi e fanciulli, tutti gioiosi e plaudenti.

 Il sindaco e i medici fecero proibire la banda musicale e l’uscita dei gonfaloni delle diverse società popolari, mentre carabinieri, guardie, delegato e truppa, erano in gran movimento nel badare all’orda di popolo che plaudiva Sajeva. Menico ha avuto un giorno trionfale. Questo fatto è servito di esempio ai medici, per valutare un’altra volta la potenza democratica.

Il giornale La Campana del Popolo del 18 agosto è divenuto più feroce di prima negli attacchi personali e assieme al giornale avverso nel frattempo nato: L’Avvenire, era divenuto una palestra indegna di sfogo, di odi, rancori e coltellate.

L’Avvenire del 21 agosto, numero doppio 28-29, con quattro pagine di fuoco, ha sparato la bomba, facendo guizzare per l’aria vampe e risuonare tuoni spaventosi. È stato vuotato il sacco delle contumacie, delle diffamazioni, dei vituperi. Sajeva è stato fatto segno a tutte le possibili ingiurie, colmato di fango e di disprezzo. Questi problemi toccavano Favara perché non c’erano uomini di carattere, non c’erano princìpi religiosi, non c’era amore di patria, carità di prossimo, desiderio di progresso civile. Favara era in uno stato grave di convulsione; c’erano tanti perché, ma nessuno poteva dare la risposta. Era un pasticcio, una completa contraddizione. La causa prima era la mancanza di caratteri, la nullità dei cittadini; una gioventù nulla, serva, che non sapeva elevarsi all’altezza dei tempi e al bisogno, che col suo operare insano, andava riducendo il paese ad una tomba. Nel pubblico c’era grande aspettativa: pace o guerra. La curiosità era immensa. L’opinione delle plebi era mutevole soprattutto in questi eccessi. Un giorno gridava evviva, un altro giorno muoia, muoia! Menico Sajeva gridava a tutta gola, si scalmanava dentro la casa della sua Fratellanza. Un grosso codazzo di zolfatai gli faceva corona.

Alla fine di agosto si intavolavano trattative di rappacificamento fra i redattori de L’avvenire e il Sajeva. Ci lavoravano il pretore, il delegato e l’ing. capo della Provincia Gibilaro.

I vecchi, coloro che componevano il piccolo patriziato locale erano tutti scomparsi; restavano i giovani, che dovevano essere civili, progressivi, pionieri dei tempi nuovi e invece davano il più triste spettacolo, lottando tra il fango dei vituperi, delle calunnie, delle insinuazioni. Invece di porgere esempio di virtù, di amor patrio e moderazione, offrivano alle plebi già abbastanza abbattute, uno scandalo continuo e ripugnante.

All’inizio di settembre il prof. Francesco Scaduto fu chiamato da amici comuni per comporre il dissidio, oramai pericoloso, tra Sajeva e Vita Guadagno e Bennardo redattori de L’avvenire. L’8 settembre è venuto Scaduto; poi è sopraggiunto l’avv. Pepè Bruccoleri da Girgenti e il delegato Montalbano. Si sono appartati in una camera, per discutere il componimento amicale tra gli arrabbiati avveniristi e la maledica Campana. Sono usciti dopo lunga discussione senza concludere nulla. A sera Scaduto e il sindaco Giglia sono andati a trovare Sajeva nel casino Studio e Lavoro. Menico Sajeva ha avuto l’abilità di fare venire, ad pedes, il sindaco e il prof. Scaduto! Fenomeni strani e scandalosi!

Menico Sajeva ha gettato un paese in uno stato di anormalità, in un parossismo convulsionario e morboso. Segno non tanto del valore effettivo del Sajeva, quanto della degradazione e tendenza immorale del popolo: perché un popolo saggio non si poteva lasciare manomettere da un Pietrino L’Aretino novello.

A sera i dissidenti hanno fatto una specie di pubblica dimostrazione. Tutti riuniti, insieme, altresì, al delegato, a Scaduto ed altri, hanno passeggiato su e giù per la strada "Nuova" (corso Vittorio Emanuele). La pace era fatta. I veri offesi, che hanno perduto molto, sono stati quelli de L’avvenire. Sajeva era il perturbatore, il virulento, il sarcastico gladiatore che, pur ferito, non sentiva dolore e non aveva sangue da perdere. Ma, meglio così che affrontare mali peggiori!

Il direttore de La Campana del Popolo, il malefico Sajeva non sapeva moderarsi. La satira, la maldicenza, il prezzo sardonico, l’arma del ridicolo erano le sue arti consuete, da cui non poteva o non sapeva allontanarsi. Si rigirava tra piccolezze, punzecchiava le parti meno malate, si attaccava ai peli e lasciava da parte le travi. Si sfogava contro il consigliere comunale, contro il sindaco suo amico e contro qualche altro. Non scopriva le piaghe larghe e sanguinose, non si fermava sui furti o peculati, sulla negazione di ogni bene in fatto di criteri amministrativi, sull’immoralità, sulla corruzione, sui parassiti che mangiavano al Comune, dissanguando il popolo. Sajeva quando soddisfaceva i suoi istinti forsennati di maldicenza non si curava di altro. Sajeva era un repubblicano sui generis, un repubblicano comodista. Ciò che a lui piaceva, stava bene. Si pasceva di trizzi e di arzigogoli, di miseri giochetti di parole, promuovendo il riso indecente. Queste cose a Favara piacevano. Si battevano le mani. L’ambiente era lurido e nero.

Le intemperanze e maldicenze giornalistiche di Menico Sajeva, la sua irrefrenabile e continua febbre di assalire e aggredire le persone ha fatto molto male al padre Giovanni, che ha perso la migliore clientela, gli amici, gli affari. Il primo semestre 1904 Menico è stato espulso dalla casa paterna. Il sicario della penna è andato a rincantucciarsi nel misero ufficio de La Campana del Popolo, nei mezzi tetti concessigli dal casino o circolo Studio e Lavoro, in un giaciglio come un cane, solo, abbandonato. Forse gli pareva di guadagnare merito con queste privazioni e divenire martire.

Sajeva continuava a lanciare fulmini contro il sindaco Giglia e lo diceva anche ignorante. Se continuava come aveva cominciato, Menico si sarebbe consacrato col suo stesso fuoco, come lo scorpione che, quando non poteva inoculare altrui il proprio veleno, si mangiava la coda e moriva. Nella sua La Campana del Popolo fulminava Giglia, ma nessuno se ne curava. Giglia e i suoi opponevano il più profondo silenzio e se si continuava così, Sajeva era destinato a rimanere nullo.

Diceva molte cose vere contro Giglia, ma quel dir male per sistema, quell’eccedere nelle ingiurie e nelle frasi virulente muoveva a sdegno il pubblico dei lettori. Povero grillo! Era destinato alla pazzia seguendo le orme del suo nonno Menico.

Il Sajeva già si firmava dottore. Si creava un titolo senza averlo. Si credeva importante e con ciò mostrava vanità, orgoglio e nullismo. Ha formato una fanfara reclutando nella sua Fratellanza i trombettieri reduci dall’esercito, che suonavano piuttosto benino. Egli lo faceva, per avere uno strumento di chiasso, di svegliapopolo, uno stimolo entusiastico musicale di disordine, una riviviscenza dei famosi fasci del Colaianni. Fatto sta che venne cacciato via anche dalla Fratellanza degli zolfatai.

Sajeva viveva da eccentrico, da pazzo, cacciato dalla famiglia. Il dir male di tutti era la sua missione e la sua afflizione e castigo, poiché a poco a poco si circondava di odi sempre più fitti e più forti.

Il 5 dicembre 1904 i parenti snidarono Menico Sajeva dal mezzalino del casino Studio e Lavoro e lo fecero rientrare in famiglia, ma lui continuava ad essere quello che era: sempre maldicente.

Con la sua Campana Menico Sajeva per più di un mese, ha frustato a sangue il Giglia sia come uomo che come magistrato, ma il 12 gennaio 1905 si è tolta la maschera. In carrozza, appositamente locata, per Girgenti è partito il sindaco, il delegato Montalbano, Pasquale Andreoli e qualche altro, mezzani di codesti negozi. Lì si era convenuto doversi trovare Menico Sajeva. Si fece una doppia P: pace e pasticcio.

Ed ecco che un vilissimo maldicente, un volgare e incorreggibile denigratore, che si vantava di carattere adamantino, di indipendenza assoluta, avido solo di giustizia, scendeva senza saper perché all’abbraccio fraterno col suo denigrato sindaco Giglia e suggellava l’atto complesso con l’agape cristiana.

Il commendatore Giglia, il caporione dei civili, il volpone, colui che teneva il bastone del comando sugli armenti cornuti, attorniato da larga e poderosa parentela e clientela, dopo aver taciuto, almeno in apparenza, dignitosamente, ha dimostrato che il suo tacere non era stato atto di dignità umana, ma paura mista a vigliaccheria.

Dopo un pugilato sanguinoso, senza scopo e senza conclusione, divennero agnellini, si fiutarono, si leccarono e belarono insieme l’inno della pace.

A sera, tornando da Girgenti in Favara, tanto per celebrare come suol dirsi, una grande messa solenne, tutti scesi dalla carrozza, in corteo magno, incluso mastro Vannillo Sajeva, padre di Menico; hanno trionfalmente accompagnato a piedi il sindaco sino alla porta della sua casa, offrendo un grazioso spettacolo alla popolazione favarese.

Sebbene un atto sia stato eseguito in Girgenti, questa farsa è stata rappresentata nel teatrino di Favara. Che cosa si è rappresentato? Un poema eroicomico. Don Chisciotte montato sul suo gran ronzino detto La Campana del Popolo, armato da un grande spadone, da molti scudisci, fruste e flagelli, è apparso sublime e severo, ed ha menato colpi a dritto e a rovescio. “Ecco, signori, guardate bene, la mia durlindana non rispetta nessuno, ferisce nel buio e nel meriggio. Io sono il rivendicatore dei diritti del popolo, io sono il severo esaminatore di tutti i pubblici uffici e di tutti coloro che governano ed amministrano, dai più alti scalini fino alle ultime soglie, sono la vera oca del Campidoglio. Dove vedo il male, grido a squarciagola e do l’avviso; dove vedo un velo, che copre una piaga, lo spezzo e lo metto in chiaro; dove vedo una combriccola di truffatori o di pubblici abusatori, sferzo a sangue e faccio ballare senza volerlo ogni sorta di reo. Giudici di pace titolari e vice, regi procuratori, signori che trafficano la giustizia, per me tutti si equivalgono, li attacco, li svergogno e me li metto sotto i piedi. Io sono il vero erede della Mancia moderna. Guardatemi, specchiatevi su di me, amministratori, e tremate”.

L’uditorio di questa farsa aveva i suoi posti distinti e i suoi posti comuni. I civili, i giovani, che erano la speranza e la forza, energia vera del paese, erano burattini e quindi, nel godimento dell’eroico spettacolo, non si trovavano che nel loro elemento, come il pesce nell’acqua e l’uccello nell’aria. Il resto del popolo vero, del popolo lavoratore, che pagava, che non era corrotto fino alle ossa, mirando le sciabolate di don Chisciotte, vedendo un sindaco, che sprizzava sangue da tutte le carni flagellate, inarcava le ciglia, aspettava l’effetto, il trionfo della giustizia ed invece non constatava che lo scioglimento strano inaspettato dell’eroicomico dramma. Per incanto si sono sanate le ferite, si è stagnato il sangue. Don Chisciotte ha deposto la durlindana, ha abbracciato il sindaco e tutto è finito. La Campana del Popolo di Favara dopo aver suonato col martello del terrore e della minaccia, ha suonato con la carezza. Di punto in bianco, un desinando al Caffè Palermo, una scenetta preparata da una combriccola, una stretta di mano ed è tutto finito. Ecco la grande morale della favola!”.

Il popolo si sentiva sconvolto, non sapeva più giudicare, la logica era spenta.

Diceva il barone Mendola: "Nel mio paese ci sono burattini e marionette e, alla testa, pochi Cagliostri e arruffapopoli che si arrabattono; un popolo numeroso che soffre e geme.".

Il fine della buffonata fra Giglia e Sajeva in effetti non era la pace per la pace, ma la pace per le elezioni. Quell’anno, infatti, erano previste le elezioni amministrative di Favara e questo avvenimento faceva risvegliare certi armeggi e certe persone, che non sapevano e non potevano vivere in pace, fra cui i Valenti che agognavano ad ogni costo al recupero della vecchia fortuna e stavano come i cani da caccia a fiutare le mosse della selvaggina.

Sajeva faceva bene il suo mestiere di mestatore e di pescatore nel torbido. Un povero disperato, che cercava pane ed una tavola dove aggrapparsi in tutti i casi di naufragio, era compatibile. Sajeva aveva tutto da guadagnarci e nulla da perdere in questo indecente giochetto, ma Giglia ricco, forte nella sua posizione, perché è sceso così in basso?; neanche il fratello Filippo, tornato da Palermo, dov'era andato a rifarsi la dentiera, riusciva a persuadersi.

Questa pace è stata appresa e giudicata male da tutto il paese.

Il 18 gennaio 1905 in piazza Cavour tutti, con sorpresa, hanno goduto di due scenette graziose: due lunghe passeggiate su e giù, dapprima fra Menico e Calogero Valenti "u lungu", il fratello di Antonio, con cui parlava furiosamente, e subito dopo col magno sindaco Giglia, con cui si scambiava vicendevolmente perline d’amore, sorrisi e capriole. Si potevano indovinare i sentimenti e le correnti contrarie di pensiero in tutti questi burattini che rappresentavano le loro farse nel teatrino piazza Cavour?

Il 22 gennaio 1905 è uscito il n. 82 de La Campana del Popolo. Era un pasticcio insipido, un catechismo repubblicano buttato giù dove non c’erano repubblicani e dove il senso politico era semimorto.

Il Sajeva ha rivestito di stoppa il batacchio de La Campana del Popolo.

Nel mese di febbraio nei vari casini e circoli di Favara è stata inviata anonimamente, in busta aperta, una caricatura mista a scrittura, una satira del famigerato Menico, raffigurato come un pupazzetto appeso ad una corda, che rinunziava alla Repubblica e si attaccava ad una carta da 100 lire proveniente dal sindacato dei produttori di zolfo, per l’assicurazione degli operai contro gli infortuni del lavoro.

Nel maggio 1906 il famigerato Menico Sajeva è stato costretto a far tacere la sua Campana del Popolo. Gli stampatori non si prestavano, più perché Sajeva non pagava e perché temevano le continue molestie delle querele. Però Sajeva era un esplodente, che non poteva, né sapeva star quieto; non poteva non esercitare la innata malvagità e, assieme ai girgentani commendatore Vitale Cognata e avv. La Loggia, ha montato un nuovo giornale da ricatto intitolato: Il Rinnovamento. Bel rinnovamento, c’erano i soliti articoli virulenti e malvagi contro Valenti, contro il cassiere, contro il sindaco, il Consiglio Comunale e Provinciale, contro il prefetto, etc.

Il famigerato Menico Sajeva faceva pure il libertino e lo scostumato. Nel giugno 1906 è andato via con la corista delle operettiste Rosa Bagiana, con cui aveva avuto prima dimestichezza quando era studente in Girgenti. Mastro Vannillo, suo padre, e i fratelli, appena saputa la partenza con un carrozzino, andarono a raggiungerlo sul ponte S. Benedetto lungo la via Favara-Caldare. Dovettero staccarlo dalla carrozza per ricondurlo in famiglia.

Dopo questo avvenimento Menico Sajeva è fuggito nuovamente da casa, in lotta coi parenti e la famiglia, andando a spartire col delegato Filippo Montalbano gli osceni e venderecci amplessi di una o due puttane coriste della compagnia Montesano.

Pare che, nello scappare di casa, per seguire le sue coriste, Menico abbia preso denaro dal padre o dagli acconti che l’Amministrazione dell’Assicurazione degli Infortuni degli zolfatai gli teneva in deposito. Il padre lo seguì lungo la via Favara-Aragona Caldare, più per ripigliarsi il denaro che per altri motivi.

Menico Sajeva poi è andato a vivere definitivamente in Francia, dove ha lasciato le proprie spoglie.

 

Notizie tratte dai diari intimi del barone Antonio Mendola.

 

 

Scaduto Francesco

(docente, senatore)

 

Prof. Francesco Scaduto 1858-1942

 

 

Francesco Scaduto nacque a Bagheria (PA) il 28 luglio 1858 da Gioacchino e Rotola Francesca. Fin da giovanissimo diede prova della sua tenace volontà dedicandosi agli studi classici, all’archeologia, alla paleografia, imparando anche il francese, l’inglese, lo spagnolo e il tedesco.

Nel luglio 1881 ha conseguito la laurea in Lettere e Storia nell’Istituto di Studi Superiori di Firenze. Nel novembre dello stesso anno ottenne un assegno di perfezionamento per la Storia in detto Istituto e da allora la sua carriera scientifica si svolse rapida e gloriosa. Nel novembre del 1882 vinse il concorso per l’assegno di perfezionamento per la Storia e, dati i suoi meriti eccezionali, gli fu permesso di andare in Germania a studiare Diritto Ecclesiastico. Nel novembre 1883 ottenne la libera docenza in Storia del Diritto Italiano e Diritto Ecclesiastico all’Università di Roma e contemporaneamente vinse il concorso per l’assegno di perfezionamento in Storia del Diritto Italiano all’estero, passando gli anni 1883 e 1884 a Parigi e Londra. Nel 1884 venne nominato incaricato di Diritto Ecclesiastico nella Regia Università di Palermo e nel novembre 1886 vinse il concorso di professore straordinario di Diritto Ecclesiastico nella Regia Università di Napoli, dove, il 23 novembre 1889 fu promosso a professore ordinario. È stato rettore dell’Università di Napoli dal 3 agosto 1919 al 15 ottobre 1922.

Il 29 luglio 1893 ha sposato, in Favara (AG), Angela Mendola di Gaetano, nipote del noto filantropo e ampelografo barone Antonio Mendola, da cui nacquero:

- Gioacchino nel 1894 (ambasciatore del Regno d’Italia);

- Francesca nel 1895 (morta tragicamente due anni dopo sul piroscafo Entella, nel porto di Napoli, mentre la famiglia si recava a Favara per partecipare alla “svampata” per il fidanzamento ufficiale di Grazia Mendola (sorella di Angela) con Vincenzo Agrò di Porto Empedocle (il quale ha poi sposato Anna Pirandello, sorella dello scrittore Luigi;

- Gaetano (commendatore prefettizio del Comune di Favara);

- Francesca nel 1901 (andata in sposa a Gaspare Ambrosini nel 1937, noto giurista e presidente della Corte Costituzionale Italiana, uno degli allievi prediletti di Francesco Scaduto);

- Antonio (ambasciatore del Regno d’Italia).

Nell’aprile 1899 Francesco Scaduto fu eletto membro ordinario dell’Accademia pontaniana di Napoli. Fu uno dei più illustri giureconsulti d’Italia e col suo impegno ha fatto rivivere ed assurgere alla dignità delle altre discipline giuridiche il Diritto Ecclesiastico che da tempo era negletto dagli studiosi per le ardue difficoltà che presentava e per motivi politici. A soli 48 anni le sue pubblicazioni raggiunsero il centinaio.

Francesco Scaduto rivestì importanti cariche politico amministrative. Nell’agosto 1903 è stato eletto al Consiglio Provinciale di Girgenti per il mandamento di Favara. Dal 1915 al 1922, ricoprì la carica di Presidente dello stesso Consiglio. Fu eletto, inoltre, consigliere comunale di Roma.

Il 1 marzo 1923 è stato eletto senatore del Regno.

Francesco Scaduto è stato membro della Commissione per il regolamento interno (2 giugno 1924-23 maggio 1925); Segretario della Commissione per il regolamento interno (23 maggio 1925-21 gennaio 1929); Membro ordinario della Commissione d'accusa dell'Alta Corte di Giustizia (3 dicembre 1924-21 gennaio 1929); Membro supplente della Commissione d'istruzione dell'Alta Corte di Giustizia (1° maggio 1934-2 marzo 1939) (17 aprile 1939-15 gennaio 1940); Membro della Commissione parlamentare incaricata di dare il proprio parere sui progetti dei nuovi Codici civile, di procedura civile, di commercio e per la marina mercantile (16 marzo 1937); Membro della Commissione dell'agricoltura (17 aprile 1939-29 giugno 1942).

È stato professore emerito nella facoltà di giurisprudenza all’Università di Napoli dal 21 gennaio 1932.

Francesco Scaduto ha ricevuto le seguenti onorificenze:

- Cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia il 3 gennaio 1892;

- Cavaliere ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia il 27 marzo 1913;

- Commendatore dell'Ordine della Corona d'Italia il 4 dicembre 1913;

- Cavaliere dell'Ordine dei S.S. Maurizio e Lazzaro il 2 gennaio 1916;

- Grande ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia il 27 maggio 1920;

- Cavaliere ufficiale dell'Ordine dei S.S. Maurizio e Lazzaro il 16 gennaio 1919;

- Commendatore dell'Ordine dei S.S. Maurizio e Lazzaro il 3 luglio 1921;

- Grande ufficiale dell'Ordine dei S.S. Maurizio e Lazzaro il 15 febbraio 1934.

Francesco Scaduto è morto a Favara il 29 giugno 1942. Per la sua alta statura intellettuale e morale è stato il nipote prediletto del barone Antonio Mendola.

La sua salma riposa nella cappella di famiglia nel cimitero di Piana Traversa di Favara assieme alla moglie Angela Mendola ed i figli Gioacchino e Gaetano.

In quanto modello di gloriosa virtù, ingegno e cultura, il prof. Francesco Scaduto merita essere ricordato dal COMUNE DI FAVARA, dai FAVARESI e dai FORESTIERI nei modi più alti, dignitosi e nobili.

Su Francesco Scaduto nel mese di giugno 2008 la Prof.ssa Maria D’Arienzo ha pubblicato nella rivista telematica "Stato, Chiese e pluralismo confessionale".

 

 

Valenti Eugenio

 (medico, storico)

 

dottore Eugenio Valenti

 

 

Valenti Eugenio è nato il 17 dicembre 1886 dal dr. Antonio e da Francesca Caramanno. Seguì gli studi sino al liceo, che lasciò per riprenderli a 28 anni. Ha conseguito la laurea in medicina e chirurgia, ministero che ha esercitato con dedizione a Favara, specie la chirurgia.

A 37 anni ha sposato la trentunenne Maria Pullara di Carmelo e Carmela Lentini.

I momenti disponibili li dedicava agli studi storici su Favara e parecchie sue ricerche e relazioni sono state il risultato del suo attaccamento alla sua terra. I suoi scritti, spesso basati su inconfutabili documenti rappresentano un coscienzioso lavoro di storico benemerito e sono ricchi di erudizione e severa critica.

Scriveva sulla rivista “La Siciliana”, che veniva stampata negli anni “20 del secolo scorso a Siracusa. Buona parte dell’attuale conoscenza sulla storia e cronologia dei proprietari del castello chiaramontano sono frutto del suo lavoro.

Nella biblioteca comunale di Favara si conservano alcune sue pubblicazioni in campo medico.

Eugenio Valenti è morto a Favara il 3 dicembre 1942. La sua salma riposa in una tomba priva di iscrizione (la lastra marmorea che ricopriva la tomba è andata perduta diversi anni fa) nell'ultima sezione a colombaia a nord-ovest del cimitero di Piana Traversa (una delle quattro sezioni originali ormai rimaste), lato ovest.

 

Articoli di Eugenio Valenti di carattere storico:

- Caltafaraci nella storia e nella tradizione popolare, Sicania, anno 1914, pag. 25;

- Cronaca (scavi, monumenti, ecc. - Favara), Sicania, anno 1914, pag. 79;

- Favara - Tradizioni di Caltafaraci, La Siciliana, anno 1915, pag. 105;

- Favara durante i moti del 1411, Sicania, anno 1917, pag. 85;

- Notizie su Favara - Origine di Favara, La Siciliana, anno 1919, pag. 25;

- Notizie su Favara - Caltafaraci presso Favara - La necropoli Stefano, La Siciliana,

  anno 1920, pag. 7;

- Favara - La necropoli Stefano, La Siciliana, anno 1924, pag. 2;

- Notizie su Favara - Caltafaraci - La necropoli Stefano, La Siciliana, anno 1924,     

   pagg. 9 e 23;

- Favara - Il castello di Chiaramonte, La Siciliana, anno 1925, pagg. 65 e 99;

- Valenti Eugenio - autobiografia, La Siciliana, anno 1925, pag. 177;

- Favara, La Siciliana, anno 1927, pag. 61;

- Favara sotto i Chiaramonte, La Siciliana, anno 1927 pagg. 85, 116, 131, 158, anno

  1928, pag. 153;

- Favara - Etimologia (Note) - Una necessaria risposta, La Siciliana, anno 1927,

   pag. 127;

- Il marchesato di Favara, La Siciliana, anno 1929, pag. 185;

- Favara - La baronia di Fontana degli Angeli, La Siciliana, anno 1930, pag. 1;

- Articoli sul Castello per farlo dichiarare monumento nazionale, rivista Akragas,

  giornale L’Ora, (prima del 1914 - anno della dichiarazione di notevole interesse);

 

Pubblicazioni di carattere scientifico:

- Il chinino nella cura delle malattie infettive - Un caso sporadico di tifo

  esantematico curato col cloridrato basico di chinino Bisleri, A. Rancati

  (Tipografia) - Milano,

- Estratto dalla Rivista Medica - Anno XXXVII, 1929 (Scienze-2-104);

- Un caso di pneumonite massiva o splenopneumonite di Grancher, E. Zerboni

  (tipografia) Milano, Estratto dalla rivista La lettura medica - Anno X - N. 5 - 15

  Novembre 1928, VII, 1928 (Scienze-2-107);

 

Pubblicazioni di carattere storico:

- Il Castello di Chiaramonte in Favara, Tip. Zammit, Noto 1925;

- Caltafaraci presso Favara, Tip. Zammit, Noto 1920;

- Origine di Favara, Estratto, Tip. Gazzetta, Siracusa 1920.