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Memorie storiche di Favara di Carmelo Antinoro

CINEMA DI FAVARA - FILM GIRATI A FAVARA - ATTORI FAVARESI

CINEMA DI FAVARA

 

C'erano i cinema di Favara

(di Giuseppe Maurizio Piscopo)

 

prospetto Supercinema

 

interni Supercinema

 

 

Il cinema per me è un luogo magico e straordinario

Il cinema per me è un luogo magico e straordinario per riappacificarsi con il mondo. Un luogo di spazi da vivere, pieno di ricordi e di Cultura. I grandi scrittori siciliani sono legatissimi al cinema. Gesualdo Bufalino amava il cinema americano, Leonardo Sciascia ha raccontato il cinema di Racalmuto nei suoi libri, Camilleri ha insegnato all’Accademia di Arte Drammatica ed ha realizzato molti sceneggiati per la Tv. Il Supercinema aprì i battenti nei primissimi anni ’50 del secolo scorso.

C’era il palcoscenico, la platea, la tribuna e i palchetti laterali. Gli altri cinema il Manzoni di via Roma, il Bellini di piazza Cavallotti e il Parello, sono state le maggiori attrazioni di Favara per circa un trentennio. Il Supercinema era il mio preferito, a due passi dai sette cortili. Chiuse nell’agosto del 1981 con il film Dimensione Zero di Don Taylor.

Confesso, che nel sapere lo stato del cinema dei miei sogni, ho vissuto la stessa sensazione che ha provato Peppuccio Tornatore raccontando Nuovo Cinema Paradiso con le splendide immagini di Blasco Giurato. Il Supercinema per tante famiglie è stato un luogo di ritrovo. In quello schermo hanno preso vita i grandi film storici, assai di moda in quel tempo, le riviste, le opere teatrali e diversi Festival che ottennero grande successo di pubblico e di critica per le belle canzoni presentate in gara da bravi compositori, uno per tutti il Maestro Cuntreri vincitore di alcune edizioni, ben eseguite da ottime orchestre, in particolare quella dei fratelli Li Causi e del Maestro Butticè, interpretate magistralmente da bravissimi cantanti tra i quali, meritano una menzione particolare, Totò Bellavia, vincitore di un festival con la canzone Non vediamoci più di Cuntreri, Totò Lombardo con la canzone: Cinque confetti, un biglietto, due nomi una data. E Salvatore Sciortino con Ho scritto finalmente una canzone inserita poi in un film sull’emigrazione in Germania.

Al Supercinema non mi stancavo di vedere le pellicole, passione che ho coltivato per tutta la vita. A Parigi nel 1979 usciva la rivista Pariscope con i film della settimana di tutto il mondo. Nella Ville Lumière è continuata la passione per la Settima Arte. A Favara a proiettare i film erano Alfonso Petrotta al Supercinema, Calogero Milia al Manzoni e Claudio Ruggiero. Al Cinema Bellini c’erano Crapanzano e Tuttolomondo. La domenica al Manzoni proiettavano due film. I film erano in affitto. Li facevano arrivare con il camion da Catania o da Palermo ed erano divisi in tante parti dentro appositi contenitori di latta, dette familiarmente pizze, dovevano essere verificati e montati tramite una moviola, pian piano, molto lentamente, controllando che non vi fossero parti rovinate o strappate.

Il proiezionista montava un film con fatica, creando il primo, il secondo e certe volte il terzo tempo. Qualche volta, per una distrazione o per la fretta, avveniva un montaggio sbagliato, così un personaggio che moriva nel primo tempo, ricompariva sano, chinu di vita, e combatteva nel terzo tempo, mandando la storia a gambe in aria, lasciando confuso lo spettatore. Certe volte l’immagine era sfocata, altre volte la pellicola si rompeva e arrivavano i fischi alla picara contro il proiezionista, con lanci di oggetti in cabina. Il film più lungo che ho visto è stato I Dieci Comandamenti di Cecil Blount. Aveva 5 tempi.

Le sale cinematografiche di Favara non seguivano un criterio logico nella loro programmazione, alcune volte proiettavano i film d’Autore di Alfred Hitchcock Psycho, La donna che visse due volte, La finestra sul cortile e altre volte i film di Vittorio Cottafavi che piacevano tanto ai ragazzi, La vendetta di Ercole, Ercole alla conquista di Atlantide, Le legioni di Cleopatra, Ursus nella valle dei leoni.

Quando al Manzoni arrivò la Dolce Vita di Fellini nel febbraio del 1960, l’arciprete Minnella tuonò dal pulpito contro quel film, con una predica di fuoco. Il film fu definito scandaloso e peccaminoso. Non andate a vederlo disse l’arciprete, rosso in viso come un peperone, altrimenti finirete tutti nelle fiamme dell’inferno. Quella sera al Manzoni non si trovò un posto libero. La gente voleva vedere Anita Ekberg mentre faceva il bagno nella fontana di Trevi.

Testimonianza di Elio Garraffo: Mio padre faceva il cassiere al Supercinema di Favara. Era un cine-teatro bellissimo con tutte le luci colorate in sala. Aveva pure la tribuna e i palchi laterali. C’erano due proiettori della Cine-Tecnica di Torino. I proiettori di allora non erano provvisti di lampade alogene. A quei tempi erano abbastanza ricorrenti i casi di incendi che si sviluppavano nelle cabine di proiezione per cause accidentali. Allora le pellicole di celluloide erano facilmente infiammabili: sarebbe bastato che la pellicola si inceppasse per pochi secondi davanti alla mascherina, per prendere fuoco. Mi appassionai al mestiere di operatore del cinematografo ed ogni volta che andavo a trovare mio padre, ne approfittavo per andare in cabina di proiezione dove c’era il mio maestro Alfonso Petrotta. Il Supercinema era diventato la mia seconda casa. In quel cinema ci sono cresciuto”.

 

Il Supercinema e la serata di Claudio Villa.

Un giorno Claudio Villa cantò al Supercinema con le basi. Fu un’esperienza storica indimenticabile. Dal palco arrivarono i suoni di una grande orchestra. Il pubblico era numeroso: contadini, zolfatari, gente anziana, erano arrivati in massa al Supercinema per ascoltare il loro beniamino. Claudio entrò a scena aperta. Partì una registrazione con delle basi realizzate a regola d’arte in uno studio di Roma, con dei suoni studiati per stupire, con molti strumenti e tanti effetti speciali da sembrare una magia. La voce era quella di Claudio Villa che cantava in play back. La gente non era ancora abituata a questo tipo di diavolerie e iniziò a rumoreggiare, a lamentarsi, a protestare, a fischiare pensando di essere stata ingannata. Qualcuno si recò alla cassa e rivoleva indietro i soldi del biglietto. Molti pensavano che a suonare fosse un disco. A questo punto Claudio Villa fermò l’esecuzione di Granada e tentò di spiegare al pubblico che il suo concerto era dal vivo e che si scusava di non aver portato l’orchestra. Il pubblico non volle sentire ragioni. Fu una serata molto travagliata con un finale a sorpresa. Alcuni buontemponi aspettarono Claudio Villa fuori dal cinema, per condurlo nella sala dello zio Antonio dell’Oglio a due passi dal Supercinema, dove c’era una festa di matrimonio. Claudio Villa non osò dire di no. Quella sera fu accompagnato dal maestro Li Causi e la sua orchestra, ricantò Granada. Gli offrirono ceci, fave, salsiccia e dell’ottimo vino rosso.

 

Zi ma duna a manu?

Ricordo ancora che quella sera al Supercinema si proiettava Mondo di Notte ambientato a Pigalle, al Moulin Rouge. Avrei voluto veder quel film vietato ai minori di 18 anni. Non mi spiegavo quel divieto, così chiesi a un mio conoscente: zi ma duna a manu? Quando l’impiegato, che staccava i biglietti, mi vide così piccolo con un ceffone mi rimandò a casa.

 

La furbata…

Al Supercinema certe volte venivano rappresentati spettacoli di varietà e una volta c’è stato anche uno strip-tease. Quella serata ci fu il pieno. Il mio sarto quel giorno si trovava a Favara, era vestito da gangster ed era in compagnia di altri tre compari. Quando arrivò all’ingresso del cinema con fare sicuro, dando l’impressione di essere uno della polizia in borghese, rivolgendosi a quello che staccava i biglietti proferì poche parole con voce ferma: Questa sera vedo molta confusione, uno qua e due di là. E fu così che entrò indisturbato con i compari!

 

Il cinema Manzoni.

‘U zi Totò aveva tra le mani un cartello con la scritta vietato fumare e la sigaretta accesa, una vera sofferenza, per lui accanito fumatore, mettere quel cartello che doveva essere valido per tutti. Quando qualcuno glielo fece osservare lui fu chiarissimo, il divieto vale per gli altri, non per me. Quel sabato una signora andò al cinema con suo marito. Stavano proiettando Catene e non si trovava un posto libero. Fortunatamente, due persone si dovettero allontanare per necessità e la signora e suo marito occuparono quei posti. La signora, a causa del buio, non si era accorta che nella sua poltrona c’era un chiodo storico, vivo, arrugginito. Alla fine del film, nel modo di alzarsi, la signora si accorse che la pelliccia si era strappata. All’uscita si rivolse allo zio Totò e raccontò in lacrime la sua storia. Ci parsi giustu a vossia ca a beddra pellicia nova si strazza cu un chiovu arruggiutu da seggia? Lo zio Totò non si aspettava quella contestazione e si fermò a riflettere un momento. La sigaretta gli era andata di traverso e iniziò a tossire. Dopo quell’ attimo di smarrimento, dalle sue labbra uscì una risposta: Signu, e mi dicissi na cosa: cu tutti i beddri seggi chi c’eranu, giustu giustu ni chiddra cu chiovu s’avia assittari!

 

L’arena Bellini.

L’arena Bellini era un cinema all’aperto. Era l’arena dei sogni dei ragazzi. In quello spiazzo magnifico la vita nasceva la sera. Alcuni fortunati stavano comodamente seduti ai balconi, insieme a parenti ed amici e tutte le sere vedevano il film in prima fila. Spizzicavano, bevevano e tiravano gli oggetti dai balconi, colpendo chiunque senza pietà. Noi ragazzi andavamo al cinema per mangiare qualcosa, per bere una gazzosa, addentare una pizzetta, seduti sulle seggiole di ferro. Alcune volte nascevano le liti con i linticchieddri che si sentivano i padroni del mondo. Quello era il loro territorio e le regole le facevano loro. Quando la pellicola si interrompeva, o c’era molta attesa tra il primo ed il secondo tempo, i fischi contro il proiezionista e le proteste arrivavano fino in cielo ed anche qui si tiravano oggetti verso la cabina, gridando picuraru, un epiteto rivolto all’operatore. Noi ragazzi facevamo un biglietto cumulativo, mettevamo quello che avevamo in tasca, prima dicevano di no ma dopo la nostra insistenza, ci facevano entrare. Quanta spensieratezza e felicità nel vedere un film tutti insieme. Il cinema per noi rappresentava l’innocenza di un mondo perduto, contro l’incomunicabilità e la solitudine. Era sempre una festa, una maniera splendida per sognare altri mondi, per ridere, piangere, apprendere, viaggiare con la fantasia. Il cinema è stato il più grande dono che è stato fatto all’umanità dai fratelli Lumière il 28 dicembre del 1895. Per me il cinema non morirà mai. Il cinema del futuro dovrà avere molti posti, molte comodità, dovrà essere collegato con il mondo. I film andranno visti con la migliore tecnologia alla presenza del regista. Mentre scorrono i titoli si dovrà aprire il dibattito. All’interno del cinema saranno esposte le fotografie dei registi, le scene più belle, i manifesti storici e poi, libri, saggi, spartititi, un pianoforte e molti strumenti musicali, in maniera tale che i musicisti, dopo il film, possano suonare la colonna sonora. Il desiderio più grande della mia vita è questo: che il Supercinema e l’arena Bellini possano ritornare nel loro antico splendore e possano ancora regalare a tutti i favaresi le emozioni e i sogni di una volta.

Ringrazio di cuore: Elio Garraffo, Antonello Bosco, Sergio Castellana per la realizzazione di questa memoria.

 

rappresentazione canora al Supercinema

cassa del cinema Manzoni

il cinema Manzoni durante la demolizione

 

resti della scritta del cinema Parello

FILM GIRATI A FAVARA

 

Il cammino della speranza

 

Il cammino della speranza è un film drammatico sociale b/n girato nel 1949 da Pietro Germi, tratto dal romanzo Cuore degli abissi di Nino De Maria. La sceneggiatura è di Tullio Pinelli e Federico Fellini. Produzione di Luigi Rovere per Lux Film; distribuzione: Lux Film – Panarecord. Il film è considerato una pietra miliare del cinema italiano; nel 1950, venne proiettato nelle sale cinematografiche; nel 1951 venne ha ottenuto il premio per la migliore selezione nazionale al IV Festival di Cannes; la menzione speciale al VI Festival di Karlovy Vary; l'Orso d'argento alla prima edizione del Festival di Berlino quale migliore film. Il film, almeno per la prima parte delle riprese effettuate nella zolfara Ciavolotta e a Favara, oramai si può annoverare fra le memorie favaresi.

 

La trama

La trama del film riguarda un piccolo paese della Sicilia (in questo caso Favara), dove chiudono l'unica solfara ancora attiva e i lavoratori per non ritrovarsi in mezzo alla strada, con la guida di Saro Cammarata (Raf Vallone) occupano la miniera. Passano i giorni e si rendono conto che la lotta non porta a nulla, per cui i minatori risalgono in superficie e ammaliati dalle lusinghe di tale Ciccio ingaggiatore (Saro Urzì), che promette di farli passare clandestinamente in Francia dove, secondo lui, c'è lavoro ben retribuito per tutti, molti partono con mogli e figli, dopo aver versato, ciascuno, ventimila lire. Alcuni per pagare, non avendo i soldi, vendono i mobili di casa o il corredo. Per la legge questi spostamenti sono proibiti e il gruppo deve muoversi con molta cautela. All’uscita del paese Vanni, un personaggio ambiguo, un fuorilegge amante di Barbara Spadaro, giovane del gruppo, rifiutata da tutto il paese e dalla sua stessa famiglia in quanto fidanzata con Vanni, di forza sale sul mezzo e si aggrega al gruppo. Giungono alla stazione di Napoli, dove Ciccio ingaggiatore, in un momento di confusione tenta di abbandonare il gruppo, ma viene scoperto da Barbara e Vanni. L'uomo confessa che con la sorveglianza presente al confine, è impossibile che un gruppo così numeroso possa passare. Vanni allora decide che non dirà nulla agli altri, ma in cambio Ciccio dovrà portare lui e Barbara in Francia, dopo aver lasciato gli altri nella capitale. Ciccio dapprima sembra accettare, però quando arrivano a Roma denuncia Vanni alla Polizia; ne segue una sparatoria tra il malvivente e le guardie, e nella confusione sia Ciccio che Vanni fuggono. Nel frattempo la polizia ferma tutti gli altri, a cui viene dato il foglio di via obbligatorio per fare ritorno al paese di provenienza. Alcuni, fra cui Saro, strappano il foglio di via e proseguono il cammino da clandestini a piedi e con mezzi di fortuna il loro viaggio verso il confine. Vanni, invece, riesce ad incontrare Barbara e si accorda con lei per rivedersi nel confine. Arrivano in Emilia, dove incontrano un fattore, che offre loro un temporaneo lavoro retribuito nei campi, più cibo ed ospitalità. Ignorano che in realtà sono stati assunti solo perché è in corso uno sciopero dei lavoratori agricoli. Durante una manifestazione di questi ultimi, che li accusano di essere dei crumiri, scoppiano degli incidenti e la Polizia chiede al fattore di allontanarli. Durante gli scontri rimane ferita una delle figlie di Saro. Barbara, che già era partita per raggiungere Vanni, torna indietro per assistere la piccola, mossa anche da una crescente intesa con Saro, che l'ha sempre difesa contro l'ostracismo degli altri paesani. C'è bisogno di un medico, che però si trova nel paese presidiato dagli scioperanti. Con coraggio Barbara vi si reca nonostante il clima di forte tensione e, facendo appello al senso di umanità, riesce a convincere il capo degli scioperanti a condurre il medico al capezzale della bimba. Gli emigranti si dividono: alcuni, demoralizzati, decidono di tornare in Sicilia, mentre gli altri proseguono, ritrovandosi a Noasca sul confine italo-francese, dove nel frattempo arriva anche Vanni. Decidono, con altri due clandestini, di tentare l'ingresso in Francia attraversando a piedi un valico reso difficile dalla neve. Mentre il gruppo si avvia, Vanni, geloso di Saro in quanto ha intuito la simpatia che ormai Barbara prova per lui, lo sfida a duello. Nello scontro rusticano con i coltelli Vanni viene ucciso. Nel corso della traversata, il gruppo viene investito da una tormenta di neve, nel corso della quale uno di loro, il ragionier Carmelo, si smarrisce e muore assiderato. Gli altri riescono a salvarsi e ad arrivare al confine francese. Quando ormai sembrano alle porte della Francia, vengono fermati da due pattuglie di doganieri, una francese e l'altra italiana, i quali capiscono subito che si tratta di clandestini, ma commossi dalle condizioni di povertà e sofferenza degli emigranti, si inteneriscono al sorriso di uno dei bambini e li lasciano proseguire senza arrestarli.

 

Scheda

Regia: Pietro Germi

Attori: Raf Vallone - Saro Cammarata, Elena Varzi - Barbara Spadaro, Saro Urzì - Ciccio, ingaggiatore, Francesco Navarra - Vanni, il latitante, Liliana Lattanzi - Rosa, Mirella Ciotti - Lorenza, Saro Arcidiacono - Carmelo, il ragioniere, Francesco Tomolillo - Misciu, Paolo Reale - Brasi, Giuseppe Priolo - Luca, Renato Terra Caizzi - Mommino, il chitarrista, Carmela Trovato - Cirmena, Angelo Grasso - Antonio, Assunta Radico - Beatificata, Francesca Russella - Nonna, Giuseppe Cibardo - Turi, Nicolò Gibilaro - Nonno, Checco Coluzzi - Buda, Luciana Coluzzi - Luciana, Angelina Scaldaferri - Diodata, Ciccio Jacono, Michele Raffa

Soggetto: Nino Di Maria - romanzo, Federico Fellini, Pietro Germi, Tullio Pinelli

Sceneggiatura: Federico Fellini, Tullio Pinelli

Fotografia: Leonida Barboni, Mario Parapetti - operatore, Alfieri Canavero - assistente operatore

Musiche: Carlo Rustichelli

Montaggio: Rolando Benedetti, Lina Caterini - assistente

Scenografia: Luigi Ricci

Aiuto regia: Marcello Giannini, Salvatore Rosso

 

 

I nuovi angeli

 

I nuovi angeli, genere drammatico-sociale, con la regia di Ugo Gregoretti, girato con attori non professionisti, tratto dal volume di racconti I ventenni non sono delinquenti, di Mino Guerrini, uscito in Italia il 2 Febbraio 1962, b/n, è un’inchiesta, in otto episodi, sulla gioventù italiana, l’affacciarsi delle nuove generazioni alla vita e le loro reazioni di fronte a svariati problemi di carattere sociale e morale. Il primo si svolge in Sicilia, a Favara: qui si evidenziano giovani legati a consuetudini secolari che vogliono che i matrimoni vengano decisi all’insaputa degli interessati, e per i quali un lavoro decoroso è un miraggio. Si passa a Napoli, dove un gruppetto di giovani oziosi figli di nobili è alla ricerca dell’avventura con ragazze di diversa estrazione sociale. L’inchiesta arriva a Montecatini: protagonista un giovane che tenta di entrare in fabbrica. L’inchiesta giunge poi in Toscana con un esempio dell’inurbamento che va spopolando le campagne del Chianti; si sposta sulla riviera adriatica, teatro delle intraprendenze di alcune adolescenti a caccia di avventure balneari; di lì si passa a Milano, dove affronta il problema dell’operaio della grande industria e addita la frattura fra i ricchi ed anziani borghesi che si divertono e folleggiano, ed i loro annoiati e scettici figli. L’ultimo episodio indugia su una coppia di scettici rampolli di ricche famiglie, i quali, durante una festa, si appartano nel rifugio antiatomico costruito nei sotterranei del palazzotto di famiglia, e s’abbandonano a malinconiche considerazioni.

Tra le scene girate a Favara, osserva Giuseppe Maurizio Piscopo: compare l’arciprete Minnella che dal pulpito della matrice predica la virtù e spiega ad un pubblico di donne anziane, cos’è l’amore illecito. Il tono del regista è un po’ canzonatorio quando al caffè dell’Universo nel ballo tra maschi e maschi, dalle battute viene fuori che quegli uomini non hanno mai ballato con una donna. Il piacere fisico della donna scalda la carne, narra la voce fuori campo. Verso la fine dell’estate dalle parti del cimitero, da Palermo arrivano due meretrici, che si fanno pagare 300 lire a prestazione. Vengono arruolate delle donne vestite di nero, che come nella canzone Bocca di Rosa di Fabrizio De Andrè costringono le pie donne a ritornarsene a Palermo e a scordarsi per sempre di Favara. Colpiscono le parole rivolte alle samaritane: “donne fituse, donne perdute andate via da questo paese per sempre”. E ancora, nella scena del fidanzamento viene descritto il baratto, “Vossia chi ci duna a so figlia? I cosi a quattro a quattro, quattro mutande, quattro camicie, quattro lenzuoli”. Nasce un contrasto per un tumulo di terra, gliene deve dare due tumuli, il cavallo e il carretto. Le parole del fidanzato sono chiare: né terra né roba, la vogliu accussi com’è, comu a fici so matri! Accussi resti comu un sceccu senza carrettu e senza cavaddru gli risponde la voce fuori campo. Ti piaci u zitu chiedono alla ragazza, si risponde lei, ma cu è? C’è il momento della serenata e quello della trasgressione, quando i due ragazzi si vedono un momento da soli e lui dice che quando la vede sente la “scossa”. Interviene il fratello e gliela fa provare veramente colpendolo con calci e pugni. Niente scossa prima del matrimonio. Si passa alla rassegna dei regali: U purtasti l’aneddru, u purtasti u lorgiu, u facisti u surdatu? Si risponde il ragazzo. Ora ti pò assittari vicinu o zitu disse il padre con tono rassicurante rivolgendosi alla figlia trattandola come un oggetto. Po c’è la raccomandazione dell’onorevole, per avere un lavoro da operaio alla Montecatini di Campofranco tutti si fanno raccomandare, prima si rivolgono a Don Calogero che parlerà all’onorevole. Alla fine si scopre che la lettera che ha inviato l’onorevole è la stessa per tutti. Alcuni si fanno raccomandare dall’arciprete, altri dai comunisti. Una storia di una tristezza incredibile, con la morale di sempre: i politici hanno sempre preso in giro i siciliani! Ugo Gregoretti ha dichiarato alla stampa che non c’era niente di scritto sul film girato nel 1961. Gli otto episodi prendono in esame le problematiche delle nuove generazioni in varie regioni italiane a contatto con i grandi cambiamenti morali e sociali degli anni “60.

 

Scheda

Regia: Ugo Gregoretti

Soggetto: Ugo Gregoretti, Pellizzi, Mino Guerrini

Sceneggiatura: Ugo Gregoretti, Pellizzi, Mino Guerrini

Fotografia: Tonino Delli Colli, Mario Bernardo

Musiche: Piero Umiliani

Montaggio: Nino Baragli

Scenografia: Flavio Mogherini

Produzione: Arcogalatea Titanus

Distribuzione: Titanus – CD videosuono

 

ATTORI FAVARESI

Il film "Il monello della strada" con Ciccio Iacono

 

Il piccolo attore Ciccio Iacono

(da una biografia di Giuseppe Iacono, nipote e figlioccio di Ciccio)

 

Francesco (detto Ciccio) Iacono, nacque in un quartiere dell'estrema periferia sud di Favara, in via Bidello, n.19, il 19 dicembre 1939 da Giuseppe e Calogera Avenia, famiglia di antica tradizione contadina, arrivata da Siculiana nei primi del 1800. La parentesi artistica di Ciccio Iacono trova riferimento nell’arrivo a Favara di una troupe cinematografica per girare alcune scene del film “Il cammino della speranza” del regista Pietro Germi, nel 1949, durante alcuni provini per la selezione di un bambino da impegnare come protagonista in un film col celebre attore Erminio Macario. Capelli rossi, viso lentigginoso, con i calzoncini rattoppati, Ciccio Iacono aveva dieci anni quando si trovava lì a guardare le riprese, quando un signore, un certo Saro Urzì, poi rivelatosi un bravo attore siciliano, finendo di fumare una sigaretta la gettò per terra e, in un lampo, Ciccio prese quel mozzicone e finì di fumarlo. Questa scena fu vista da Urzì, il quale, finiti i provini, disse al regista Carlo Borghesio di avere individuato il ragazzo giusto per fare la parte del protagonista nel film dal titolo “Il monello della strada”. Cercò Ciccio ma non lo trovò. La produzione allora sguinzagliò diverse persone alla ricerca di quel ragazzino che doveva abitare in quel quartiere chiamato San Calogero, per via della settecentesca chiesa allora punto di riferimento di grandi e piccini. Il giorno dopo si presentarono a casa di Ciccio due persone: un favarese e un settentrionale; il favarese prospettò ai genitori di Ciccio le intenzioni della produzione e che avrebbero pagato bene il lavoro del ragazzo; dissero che l’avrebbero portato a Torino per girare il film e farlo studiare. Giuseppe, il padre di Ciccio, rispose che aveva bisogno di Ciccio in campagna e per vendere gli ortaggi. Insomma, non se ne fece nulla. Il giorno successivo le due persone ritornarono e dopo varie discussioni trovarono un accordo con i genitori di Ciccio.

Ciccio fu vestito di tutto punto, con scarpe e abiti nuovi e partì per Torino. A Torino lo iscrissero a scuola, lo allocarono in un convitto e dopo qualche mese cominciarono le riprese del film “Il monello della strada”. Il film avente come protagonisti Erminio Macario, Ciccio Iacono, Saro Urzì, con le musiche di Nino Rota uscì per le proiezioni nel 1950 riscuotendo un buon successo. Ciccio rimase a Torino per studiare e, in un ritorno nel suo quartiere San Calò (San Calogero) per una vacanza, portò con se una bicicletta regalatagli dalla produzione. Tutti i ragazzetti abitanti nel quartiere giocarono con quella bicicletta, andando su e giù, anche due alla volta. Al ritorno a Torino, nel 1952, Ciccio prese parte di un secondo film: “Gli angeli del quartiere”, assieme a Rosanna Podestà, Marisa Merlini, Enzo Cerusico, ed altri. Dopo questo film la casa di produzione ebbe difficoltà economiche e così Ciccio fece ritorno a Favara. Coi soldi guadagnati da Ciccio il padre acquistò un appezzamento di terreno. Quando Ciccio si fece più grandicello, partì col fratello maggiore Martino per la Germania dove si sposò ed ebbe due figli. In Germania, lavorò a Koln, in una catena di montaggio di motori per auto, ed in quel luogo rimase fino alla morte sopraggiunta 1l 12 maggio 1996, all’età di 58 anni.

 

(in alto Ciccio Iacono con Macario nel film "il monello della strada" e in basso Ciccio Iacono nel periodo in cui si trovava in Germania)

Liddruzzu Lo Bue

Liddruzzu Lo Bue

 

Liddruzzu nel film di Pietro Germi

(di Pino Sciumè)

 

Liddruzzu, Calogero Lo Bue. Non frequentava la scuola ma andava per i campi a raccogliere legna che portava ad un panificio. La titolare in cambio gli regalava una ‘mbroglia di pane che lui portava subito alla madre. Era il 1949 e i favaresi vissero per alcuni mesi un’esperienza del tutto nuova. La guerra era finita da pochi anni, ma la fame, la miseria e la mancanza di lavoro si toccavano ancora con mano. Tra i pochi fortunati che potevano, a stento, sfamare le famiglie vi erano i solfatari, ma alla notizia che le due miniere Ciavolotta e Lucia si avviavano alla chiusura, esplose il dramma dell’emigrazione. L’allora giovane regista cinematografico Pietro Germi, sulla scia del nascente Neorealismo, venne a girare a Favara la prima parte del film Il Cammino della Speranza. Ancora una volta, il nostro conterraneo e maestro in pensione Salvatore Sferrazza, ci racconta con dovizia di particolari vissuti personalmente. Di seguito la sua storia. Quando a Pietro Germi, uno dei più grandi rappresentanti del neorealismo cinematografico del dopoguerra, gli balenò l’idea di girare un film che raccontasse la storia delle zolfare “Ciavolotta e Lucia” e degli zolfatai favaresi che vi lavoravano, venne a Favara per rendersi conto della triste condizione socio-economica dei suo abitanti. Saputo della sua presenza in piazza, grandi e piccini ci precipitammo di fronte al bar Italia e Liddruzzu, mio fraterno amico, si fece largo in mezzo alla folla per andare a conoscerlo. Pietro Germi lo guardò con attenzione e colpito dalla sua prontezza gli chiese : “Come ti chiami ?” “Liddruzzu”, “Ah!” esclamò Pietro Germi “E che vuol dire ?” “Lillo, ma tutti mi chiamanu Liddruzzu”. “Bene” disse Pietro Germi “Domani mattina alle 10 vieni a trovarmi qui al bar che ti voglio parlare”. Tutti restammo sbigottiti, ma il più sbigottito e felice fu Liddruzzu che si mise a gridare:“Dumani Pietro Germi mi voli parlari!” Il giorno dopo io, Liddruzzu, mio fratello e suo fratello puntualmente andammo a trovare Pietro Germi sempre travolto dalla folla curiosa. Liddruzzu, come era solito, si fece largo e presentandosi al Regista lo salutò dicendogli “Benadica”. Pietro Germi lo abbracciò e dandogli un pezzo di carta scritta gli disse: “Devi imparare a memoria quello che c’è scritto qui perché ti voglio affidare una parte nel film che devo girare qui a Favara”. La felicità di Liddruzzu fu indescrivibile, come anche la sua preoccupazione perché non sapeva leggere, non avendo frequentato la scuola. Tornato a casa, raccontò quasi piangendo a sua madre, che nel frattempo stava parlando con mia madre, l’incontro con il Regista e le disse: “E ora comu ha fari ca un sacciu leggiri?”. Mia madre lo tranquillizzò dicendogli: “Non ti preoccupare, te la faccio imparare io”. E così, almeno tre volte al giorno, Liddruzzu recitava la parte con mia madre, fino a quando non la imparò molto bene. Nel film Liddruzzu doveva andare a trovare e salutare sua sorella Barbara, anche lei decisa a partire nonostante il divieto dei genitori, nella chiesa di san Calogero durante la celebrazione del matrimonio di due giovani favaresi che dopo sarebbero partiti con gli altri nella speranza di arrivare in Francia. Liddruzzu recitò la parte a meraviglia con la soddisfazione di Pietro Germi che lo abbracciò forte e lo ricompensò con una meritata e lauta somma di denaro. Di Liddruzzu  si parlò per molto tempo e rimase nell’immaginario collettivo del Paese, anche dopo la sua emigrazione in Belgio.