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Memorie storiche di Favara di Carmelo Antinoro

CHIESE - CONVENTI - EDIFICI RELIGIOSI

 

Chiese non più esistenti

 

 

Chiesa di S. Rocco

 

Chiesa dei SS.Cosma e Damiano

 

Sulla chiesa dei SS. Cosma e Damiano ci da notizia l'abate Rocco Pirri nella sua Sicilia Sacra,  vol. II, pag. 750, il quale ha scritto che era di diritto e patronato del marchese di Favara, con onze 14 d'introito (Aliud SS. Cosma et Damiani jurispatr. Marchionis cum un. 14). Quando il Pirri scriveva la sua opera il marchese a cui faceva riferimento con molta probabilità doveva essere don Diego Aragona Tagliavia Pignatelli, figlio di Carlo e Giovanna Pignatelli, marito di Stefania Carillo e Cortes, signore di Favara tra il 1624 e 1654.

Da un registro di introiti ed esiti riguardante la chiesa di Maria SS. della Grazia della Portella di rileva che la chiesa dei SS. Cosma e Damiano era situata di rimpetto la porta della sacrestia della chiesa del SS. Rosario e già nel 1820 trasformata in magazzino dal proprietario d. Stefano Cafisi.

Da una nota riguardante la visita a Favara del Vescovo mons. Lorenzo Gioieni avvenuta il 16 ottobre 1748 si rileva che in quell'epoca gli introiti della chiesa ammontavano ad onze 7 e gli esiti ad onze 5. Da un altro registro di introiti ed esiti della chiesa del Purgatorio si legge degli eredi di un certo Gaspare Lauricella che rendevano onze 1 al venerabile altare dei SS. tre Re esistente dentro la suddetta chiesa del Purgatorio, sopra la tenuta di case nella pubblica piazza, confinanti con la chiesa dei SS. Cosma e Damiano.

Nel 1763 era beneficiale della chiesa il sac. dr. d. Martino Piscopo e tra il 1806 e 1817 il sac. Angelo Cafisi fratello di don Stefano Cafisi, ultimo arrendatario del marchese di Favara. don Stefano Cafisi.

Da un atto notarile del 1727 si evince che all'interno della chiesa esisteva un altare dedicato a S. Crispino.

In un documento del 1813, si legge: magazeno con un arco nel mezzo nominato di Santo Cosmo, con due porte di legname una affaccio il mezzogiorno nella pubblica piazza, con due portelli laterali con grate di legno anche affaccio il mezzogiorno, e l’altra porta di legname che guarda l’oriente dirimpetto la sagrestia della chiesa del SS. Rosario, confinante le case un tempo di Carbonaro ed oggi dell’arciprete Salvaggio, al presente detto magazeno locato a maestro Gaspare Brucculeri di Baldassare.

Sul terreno dove, nella prima metà del 1800, esistevano ancora gli avanzi dell’antica chiesa che il marchese di Favara nei primi del 1800 aveva venduto a don Stefano Cafisi, il figlio secondogenito Salvatore, intorno ai primi anni “40 dello stesso secolo, fece costruire il suo nuovo palazzo, cancellando ogni traccia dell’antico sacro edificio.

 

Chiesa di S. Filippo

 

Chiesa di S. Anna

 

Chiesa di S.Onofrio o della Grazia del Vullo

 

Chiesa del SS.Crocifisso

 

Chiesa del SS.Crocifisso delle due miglia

 

 

Chiesa madre

 

1

Decreto Reale di utilizzazione del legato Piascopo

2

disegno originale del prospetto della madrice di Favara

3

4

Dipinto trafugato dell'antica madrice con S. Antonio Abate e la Madonna

5

Capitelli del portale principale centrale della madrice

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Crocifisso della omonima cappella nella chiesa madre di Favara

7

Altare di S. Antonio da Padova nella madrice di Favara

8

Epigrafe in ricordo dell'intervento dei fratelli Giudice per la costruzione della madrice

9

Articolo del Giornale di Sicilia sulla inaugurazione della madrice di Favara

10

L'inaugurazione della nuova madrice di Favara il 10 ott. 1898

11

Dipinto di Carmelo Lo Porto, anno 1956

12

Pulpito del 1901 dei falegnami Amico

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La navata maggiore della madrice

15

La navata meridionale di S. Antonio da Padova della madrice

16

Altare del Sacro Cuore di Gesù nella navata meridionale di S. Antonio da Padova

17

La navata settentrionale del SS. Crocifisso della madrice

 

 

Nuova chiesa madre 

Distinti cittadini favaresi, colti ammiratori delle arti e mecenati legarono ingenti loro sostanze per la costruzione della chiesa madre di Favara, fra questi: il medico Francesco Piscopo e i fratelli Giuseppe, Giovanni e Gesuela Giudice che furono i propugnatori del sacro tempio. Francesco Piscopo essendo prossimo al trapasso ( 16 genn. 1885), fece legato di 120.000 lire per la demolizione delle preesistenti chiese (la matrice e l'oratorio del SS. Crocifisso), la cui utilizzazione venne autorizzata con decreto reale del 5 settembre 1885 (v. f. 1); Giovanni Giudice commissionò i disegni del tempio, ma morì il 1 marzo 1892; Giuseppe Giudice fece fronte alle spese di costruzione e compimento fino alla somma di 520.000 lire; Gesuela Giudice volle la grande cupola, non prevista dal progettista catanese arch. Sciuti Patti (1829-1898) (v. f. 2). L'opera non poté essere seguita fino alla fine dall'ing. Sciuti Patti perché anziano e malaticcio e a questo subentrò l'ing. Achille Viola di Castronovo, ma residente in Palermo, il quale apportò varie modifiche al progetto originario.

Appaltatore dei lavori fu Angelo Molinari da S. Giorgio (Napoli), coadiuvato dal fratello capomastro Emiddio, entrambi residenti a Siculiana, e al capomastro napoletano La Rocca residente a Favara; l'ingegnere-agronomo Salvatore Sajeva assistette ai lavori per conto della committenza.

Prima della costruzione della chiesa, alcuni arredi e statue della vecchia chiesa furono portati nella chiesa del Carmine che, per un certo periodo funzionò come chiesa madre. Alcuni quadri furono affidati "ad tempus" a privati, ma non tutti ritornarono nel nuovo tempio. L'unico dipinto ancora esistente nella chiesa, raffigurante S. Tommaso d'Aquino e la Madonna (probabilmente proveniente dalla preesistente cinquecentesca chiesa del SS. Rosario venne trafugato qualche anno addietro (v. f. 4).

I lavori ebbero inizio il 1 gennaio 1892 con la demolizione dei due sacri edifici ivi esistenti.

Le ossa dei poveri estinti dimoranti dentro le cripte della vecchia madrice furono raccolte e collocate dentro una grande cripta realizzata sotto il presbiterio e l'abside del SS. Crocifisso.

Della precedente chiesa molte cose furono distrutte. Venne scavato il terreno fino alla profondità di 7,00 m., su cui poggiarono le fondamenta realizzati con mattoni provenienti dalle fabbriche di Puleo, ritenuti di ottima fattura. Con mattoni dello stesso tipo furono realizzati i grandi pennacchi costituiti da cinque arconi, mentre per la corona ottagonale venne impiegata pietra delle cave di Caldare. Su questa venne impostata la cupola con i suoi costoloni di calcare delle cave di S. Benedetto con sopra il lanternino. Per speciale desiderio dei Giudice vennero inseriti pure dei tiranti di ferro. L'altare maggiore e quello del SS. Sacramento in marmo furono scolpiti dall'artista palermitano Giorgio Sorgi Genovese. Per l'imponente facciata, la pietra fu portata da Siracusa, e montata sopra un basamento di Billiemi. I capitelli di colonne e paraste del portale principale centrale furono scolpiti dallo scultore palermitano Filippo Nicolini fra il 1895-1896 (v. f. 5).

Le grandi imposte vetrate vennero realizzate dai fratelli Gardino di Napoli. L'organo, pare sia stato eseguito a spese di donna Gesuela Giudice (ma lei ha preferito che non venisse divulgata la notizia) da Pacifico Inzoli da Crema.

Gli altari al momento della inaugurazione della chiesa erano due: quello maggiore e quello del SS. Crocifisso dove ha trovato collocazione il pregevole crocifisso ligneo settecentesco, di cui si sconosce la provenienza (v. f. 6). L'altare ligneo di S. Antonio da Padova venne donato dal benemerito barone Antonio Mendola e collocato il 27 gennaio 1898  (v. f. 7). Nel 1902 furono collocati gli altari marmorei della Sacra Famiglia e del Sacro Cuore eseguiti dai fratelli Geraci di Palermo e donato, il primo, da Gaetano Bevilacqua, il secondo da Stefano Miccichè.

I fratelli Giudice posero, a perenne memoria del loro magnanimo interesse, una epigrafe sulla parete absidale della navata meridionale (v. f. 8).

I lavori si conclusero nel luglio 1898. La chiesa venne consacrata dal vescovo di Girgenti mons. Gaetano Blandini il 10 ottobre 1898 con grande concorso di popolo.

La notizia dell'inaugurazione, anche se in forma lapidaria, venne riportata nel n. 285 del Giornale di Sicilia dell'11-12 ottobre 1898 (v. f. 0-10).

L'imponente struttura ha un'altezza dalla strada fino all'estremità superiore della croce del cupolino di m. 56,10, con una larghezza di m. 30,60 ed una profondità di m. 41,20.

Il pulpito in legno, in stile neo-gotico venne realizzato nel 1901 dai mastri falegnami Antonio Amico e il figlio Antonio, su disegno del pittore Vincenzo Indelicato (v. f. 11).

La chiesa, lasciata con semplice intonaco bianco all'interno, venne decorata successivamente. La prima decorazione raffigurante la fuga in Egitto, sopra la porta centrale principale, venne eseguita gratuitamente alla fine del 1901, dal principiante Carmelo Indelicato, figlio del più noto pittore adornista Vincenzo. Nel 1955-1956, sotto la direzione dell'ottantenne Leopoldo Messina, vennero dipinte molte delle pareti della chiesa. Nello stesso periodo il favarese Carmelo Lo Porto (n. 1922 - m. 1981, pronipote del pittore Vincenzo Indelicato) dipinse la nascita del bambino Gesù sul disegno del nonno Carmelo Indelicato (v. f. 12).

 

Negli anni "60 del secolo scorso lo zelante arciprete Giuseppe Minnella Rizzo ha fatto dipingere alcune immagini nella parete dell'abside maggiore, compresa la sua persona; ha, inoltre, fatto realizzare sei mosaici sul prospetto principale della chiesa, all'interno dei tre cerchi modanati sopra le tre porte della chiesa e nelle tre superiori lunette (foto a dx).

Nello stesso periodo un fulmine ha colpito la croce in pietra intagliata sul coronamento del prospetto riducendola, per buona parte, in frantumi.

Nella notte del 2001 ignoti hanno appiccato il fuoco al portone ligneo centrale della chiesa. Il portone e parte del prospetto esterno parzialmente danneggiati vennero restaurati. Il dipinto di Carmelo Lo Porto, danneggiato dal calore e dalla fuliggine venne ricoperto con un altro dipinto su tela del pittore favarese Carmelo Vaccaro.

Alla fine del 2011 si è verificato il crollo di una parte del capitello del cantonale sud della facciata principale.

Di seguito si riportano alcune immagini della chiesa.

 

 

 

 

 

Chiesa di S.Nicolò

 

Prospetto della chiesa S.Nicolò

Facciata principale della chiesa di S. Nicola

 

Statua della Madonna delle Grazie

Statuetta di Madonna con Bambino

 

 

La chiesa di S. Nicolò (v. f.) era in vita nella seconda metà del 1300 e si può considerare la prima chiesa del feudo.

Dell’originario impianto del sacro edificio a noi è pervenuta la sola struttura muraria, infatti fra la prima metà e l'inizio della seconda metà del 1700 ha subito sostanziali modifiche. Nel 1733 si faceva esito di onze 2.24.10 al mastro d’ascia Raimondo Bellavia per haver fatto una porta nova grande in detta chiesa di S. Nicolò ed onze 1.9.15 a mastro Ludovico Catalano di Favara per aver collocato la porta e conciato il tetto sopra la porta. Nel 1742 il detto Catalano rifaceva il tetto della chiesa ed il dambuso del cappellone (abside della chiesa) per il prezzo di onze 19.28.8; mastro Giuseppe d’Argento da Girgenti effettuava alcuni interventi inserendo pezzi di pietra intagliata nella chiesa nuovamente rifabbricata; mastro Nicola Grisafi da Girgenti stuccava il cappellone della chiesa, l’arco trionfale ed i suoi ornamenti: cimase e piedistalli insino lo tetto, compreso l’altare, gli scalini, ed il battume (pavimento) di detto presbiterio. Nel 1745 i mastri Baldassare e Girolamo Pagano di Favara ricevevano eseguivano lavori nella fabbrica della chiesa con pezzi d’intaglio e secondo forme e dimensioni riportate nel disegno da essi presentato per la somma di onze 7.10. Detti lavori riguardavano il portale che doveva comprendere le basi ed una porta larga palmi 6 (m. 1,50) ed alta palmi 12 (m. 3,00), con pezzi di pietra intagliata ben incatenati con la fabbrica, con il sardone (arco) di tistetti (conci), la scalinata dentro detta chiesa di lunghezza e larghezza ben proporzionata, compresa altra scalinata di pezzi d’intaglio all’esterno ed in prossimità della porta che permetteva l’accesso al cimitero, il tutto secondo il disegno, compreso anche una canna di pezzi d’intaglio per il riparo dall’acqua che scorreva sulla pubblica strada, a partire dalla cantonera della sagrestia fino ad arrivare a quella della vicina casa del sac. Calogero Piscopo, compreso il giacato (acciottolato) innanzi la porta grande della chiesa fino alla scalinata come pure nello scarchiero (pianerottolo) della casina e fino alla scalinata, compreso infine l’imbiancatura delle pareti interne e del prospetto esterno della chiesa. Nel 1753 mastro Trifonio de Marco eseguiva alcuni acconci nella sacrestia ed un muro a mezzogiorno, per imbutanare (consolidare mediante lo smontaggio e rimontaggio parziale) il muro di tramontana ed imbiancare parte del muro di detta sagrestia, il tutto per il prezzo di onze 1.12. Nella seconda metà del 1791 veniva ricostruito il campanile con relativa scala, veniva rifatto il tetto della sagrestia ed alcune riparazioni alla copertura del cappellone da parte dei mastri Salvatore Lentini di Gaspare, Gioacchino Mirasola e il falegname Stefano Montalbano, tutti di Favara, con una spesa complessiva di onze 9.9.16.

Nel recente 1966, grazie alla volontà dello zelante arciprete Giuseppe Minnella Rizzo, con un cantiere di lavoro faceva effettuare degli interventi in gran parte pregiudizievoli per la chiesa. In tale occasione infatti veniva costruito un anacronistico campanile in calcestruzzo armato sul cantone nord-est; la copertura a tetto in legno, canne, gesso e canali veniva sostituita da un terrazzo in latero-cemento e profili di ferro, con parapetto in conci di tufo; le parti lapidee di maggiore pregio come cantonali e portale venivano ricoperti con una scialbatura di latte di cemento ed i giunti venivano listati con boiacca di cemento; il vecchio pavimento in mattoni di cotto maiolicato veniva sostituito con mattoni di marmo bianco e grigio bardiglio; il portone principale veniva sostituito con uno nuovo in legno di castagno all’esterno e abete all’interno, mentre la porta secondaria della navata veniva sostituita con altra in abete; nella sagrestia veniva realizzata un’ingombrante scala d’accesso al terrazzo.

Nel terzo trimestre dell’anno 1994, a seguito di due progetti di cantiere di lavoro per opere di ristrutturazione, su indicazioni dello scrivente, veniva demolito il campanile, il terrazzo con relativo parapetto; veniva riproposta la copertura a tetto, come doveva essere all'origine, con capriate e tavolato in legno (al posto dell'incannucciato e strato di gesso), guaina impermeabilizzante e soprastante manto di canali.

All’interno della chiesa, nella zona del preesistente altare secondario ad ovest della nave, a seguito di un saggio effettuato sotto la pavimentazione per una profondità di circa 1,50 mt. veniva rilevata la presenza di ossa umane che confermavano l’uso della chiesa, nei secoli passati (come rilevato dai documenti), come luogo di sepoltura.

Nei mesi di maggio e giugno 1995, i lavori proseguivano sia nella chiesa che nella Sagrestia ed in tale occasione venivano eliminate le scialbature di latte di cemento e le listature dei giunti in cemento. Gli interstizi dei giunti venivano nuovamente sigillati con malta di calce, così come si presentavano nella prima metà del 1700. Quest’ultimo lavoro, previa pulitura del paramento lapideo, veniva effettuato anche sul prospetto laterale est della chiesa e della Sagrestia. L’intonaco del prospetto principale della chiesa veniva rimosso e nuovamente realizzato con malta tradizionale. Anche il paramento del muro secondario est veniva integrato nella sigillatura dei giunti. Con tali lavori, oltre che dare maggiore dignità e decoro alla chiesa, venivano creati i presupposti per la fruizione e l’espletamento, al suo interno, di attività sociali e culturali (così come in effetti è stato fino al recupero del castello chiaramontano).

All'interno della chiesa, l'altare maggiore conserva un'antica statuetta di Madonna con Bambino di pregevole fattura che meriterebbe un restauro (v. f.).

 

 

Chiesa del SS.Rosario

 

1 prospetto principale

Chiesa del SS. Rosario prima del restauro

 

Botola accesso cripte - Tompagno - nuova porta accesso

Botola di accesso alle cripte Tompagno muro estPorta inserita in sostituzione del tompagno

 

3 campanile

Parte sommitale del campanile costruita nel 1757

 

4

Putto in mezzorilievo sull'area di contorno dell'arco trionfale durante il restauro

5

Putto in mezzorilievo sull'area di contorno dell'arco trionfale durante il restauro

 

6

Statua di S. Giovanni Battista

 

7

Statua in gesso di S. Tommaso d'Aquino

 

8

Rinvenimento di pittura nel presbiterio della chiesa

 

9

La  pittura rinvenuta nel presbiterio della chiesa dopo il restauro

 

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Saggio sullo stucco ornamentale in chiave dell'arco trionfale

 

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Dipinto rinvenuto sullo stucco ornamentale in chiave dell'arco trionfale

 

12

 

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Zona centrale del soffitto cassettonato ligneo dipinto

 

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Lastra tombale rinvenuta durante il restauro

 

15

Lastra tombale rinvenuta durante il restauro

 

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Cripta prima dell'intervento ripiena di macerie che coprivano totalmente i colatoi

 

Intradosso delle volte delle cripte

 

Intradosso delle volte delle cripte ricostruite

 

Scranni e colatoi per l'essiccazione dei cadaveri

 

 

L’antica chiesa

 

L’originaria chiesa di nostra Signora del SS. Rosario era ubicata di fronte il lato occidentale del castello e con molta probabilità occupava lo spazio oggi interessato dalle costruzioni confinanti con la successiva ed attuale chiesa del SS. Rosario, con il prospetto principale prospiciente la via Castello. Era ad unica navata, con l’altare maggiore dedicato alla Madonna del Rosario.

Il primo manoscritto ritrovato risale al 1598 e riguarda la fondazione della Confraternita di Maria SS. del Rosario per concessione di Giovanni Horoczo De Covarruvios De Leyva, vescovo della diocesi di Girgenti (dal 2 dicembre 1594 al 10 gennaio 1606).

Nel 1643, nel corso della visita pastorale, il vescovo vedendo lo stato precario della chiesa ordinava di impiegare le rendite della pia eredità Roccaro per la fabbrica cominciata del Rosario anzicché per altre cose .... Nel 1649, avendo con elemosina e molta fatica i fratelli della congregazione del SS. Rosario fabbricato la loro chiesa e vi mancava ancora il tetto, si decideva di vendere alcune pecore per onze 18 ed il ricavato acquistare legname sufficiente. 

Nel 1654 la vedova di Francesco Bertolino, con massima devozione, disponeva l’indoratura della facciata in stucco della cappella del SS. Crocifisso a condizione che la società del SS. Rosario completasse il tetto.

Da quanto evidenziato si apprende che l’antica chiesa probabilmente non ebbe il totale completamento. Eppure, tra le chiese di Favara alla fine del XVII sec. quella del SS. Rosario risultava essere tra le più ricche e, paradossalmente, forse la più degradata. Dagli introiti ed esiti tra il 1684 e 1692 si evidenzia come a fronte di tante entrate, le spese che si effettuavano per la struttura non raggiungevano il 50% o addirittura il 20% nell’ultimo periodo. Oltre il 95% delle spese venivano assorbite per l’amministrazione del culto divino. Per avere le idee più chiare sul rapporto introiti/esiti: nella gestione agosto 1684/1685, a fronte di un introito di circa 18.900 euro attuali, si spesero circa 8.450 euro; nel periodo agosto1691/1692, a fronte di un introito di circa 36.650 euro attuali si spesero le stesse somme prima dette.

Alla fine del XVII sec. l’antica chiesa del SS. Rosario era in rovina ... per esser sgradagliata dalle due cantoneri dell’affacciata di dietro affaccio il mezzo giorno, minaccia rovina di cascare fra brieve, e a tale assetto si deve levare il copertizzo dove sono li bordoni, per essere la maggior parte partiti, e strappati dalla detta fabrica, per essere l’affacciata che dona affaccio l’occidente vicino il Castello, per esser tutta sotto terra, che per entrare d’ogni parte acqua, è la maggior parte d’essa traboccata, che per nessun conto si potrà accommodare, ma che si vuole tutta la detta affacciata dalli fondamenti, per venirsi à qualche accommodo, sicché per nessun conto si potrà venire ad una perfetta melioratione di detta venerabile chiesa, atteso che havendosi più volte commodato sempre sia in deterioratione, atteso il soggetto tiene detta affacciata vicino l’occidente per esser sottoterra, è per la continua acqua si farà, mai si potrà accommodare, e come tale la rujna è imminente.

 

 

La ricostruzione

 

Il Settecento segnò in Sicilia il trionfo della classe clerico-baronale, che durante il Cinquecento si era spartita il potere politico dell’isola; nel Seicento aveva consolidato il proprio potere e nel Settecento celebrò il proprio trionfo. Tra le conquiste della classe dominante, con il coinvolgimento di quella popolare, che hanno trovato espressione magistrale in un barocco caratterizzato da scioltezze e libertà di forme, spicca per ricchezza d’arte quella dedicata a “Nostra Signora del SS. Rosario”, dalla popolazione meglio conosciuta come chiesa di S. Giuseppe.

Questa attinenza con il santo patriarca Giuseppe deriva non tanto dal fatto che all’interno vi è custodita la statua dedicata al Santo, ma soprattutto perché ad essa è legata la maggiore festa popolare, ormai entrata a pieno titolo nelle tradizioni di questa città.

Il coinvolgimento della massa popolare di un paesino di circa cinquemila anime (nel 1700 ca.) non è da riferire solamente alle sacre funzioni, ma anche a quelle attività profane dove facevano da sfondo spettacoli e attività commerciali in una coreografia insolita di luci e colori. Questa tradizione e “vocazione” a S. Giuseppe ha finito per soppiantare quella più antica della “Madonna del Rosario” che ha dato, tramite l’omonima confraternita, i natali alla chiesa del Rosario.

Nei capitoli della Compagnia e Congregazione del Rosario presso l’archivio della curia arcivescovile di Agrigento si legge … nella chiesa nuovamente fabbricata in questa terra della Favara, la nostra compagnia e congregazione deve avere un capo che la governi con alcuni ministri e officiali, ... e perché l’inguria del tempo nella vecchia chiesa fabbricata sotto il castello si diroccò e si fabbricò la nuova nella piazza di questa, in luogo assai comodo per il culto ... con la maggior parte delle spese proprie del rev. sac. don Antonino Miceli, che con molto zelo e affetto spedì di tutta fabbrica la detta chiesa nello spazio d’anni 6 incominciando dall’anno 1705 per finire nel 1711 per tutto il mese di marzo …

Il sac. Miceli nacque nel 1665 da mastro Giuseppe e Vincenza Taibi, fu cappellano dell’antica chiesa e del soppresso e preesistente convento di S. Francesco sull’omonima collina nella prima metà del 1700. Quando iniziò a far ricostruire la chiesa del Rosario aveva 40 anni di età. Nel 1731 il Miceli, con proprio testamento disponeva la propria sepoltura di fronte l’altare di S. Margherita (oggi non più esistente) all’interno della chiesa. Il sac. Antonino Miceli morì lo stesso anno, all’età di 66 anni.

La chiesa ricostruita risulta costituita da unica navata, con presbiterio di pianta quadrangolare, con il prospetto ed ingresso principale, sulla piazza Cavour. 

Nel precedente impianto la sacrestia si trovava sulla via Castello. Una scala interna la collegava col presbiterio della chiesa. Nel corso dei lavori di restauro diretti nel 1995-1996 dallo scrivente, durante la pulitura della facciata su via Castello è stato rinvenuto il tompagno di detto collegamento. Considerate le caratteristiche di pregio e la valenza storica delle cripte (sotto il presbiterio e la nuova sacrestia, accessibili solo da una botola dentro la chiesa), si è ritenuto opportuno renderle accessibili direttamente dalla via Castello per la loro fruizione - (v. foto 2). Purtroppo, tranne che per qualche breve periodo, dette cripte non sono state mai rese fruibili e tenute nella giusta considerazione da parte delle amministrazione locali che finora si sono susseguite.

Dai registri di introiti ed esiti recuperati, riguardanti gli anni dal 1750 al 1867 non è stata rilevata alcuna spesa relativa a stucchi e soffitti lignei della navata, ragione per cui detti lavori sono da collocare tra l’ultimo periodo della ricostruzione ed il 1750. Va, comunque, puntualizzato che gli stucchi sono di epoca successiva alla realizzazione del soffitto ligneo della navata.

Nella prima metà del “700 veniva demolita la sagrestia e ricostruita sul lato opposto del presbiterio, in via del Rosario, assieme alla torre campanaria. Nel 1731 i mastri Francesco Zaccaria, Diego Mafascali e Pietro d’Argento fabri murarj, civitatis Agrigenti, iniziavano i lavori per l’edificazione del campanile con pezzi d’intaglio di petra forte ... giusta la forma che richiede l’arte e il magistero di detto campanile e ciò fino al primo cornicione, alla base, cioè, della parte sommitale finestrata. Quest’ultima veniva iniziata nel 1738 con pezzi d’intaglio di pietra calcinara, consimile a quella pietra, con la quale trovasi principiato detto campanile, prelevata dalla contrada Grazia della Portella, ma rimaneva incompleta per 20 anni. Infatti nel 1757 mastro Ludovico Catalano veniva incaricato per fabricare d’intaglio magistralmente il restante detto campanile di detta ven.le chiesa, con che detto di Catalano a sue spese debba spiantare li quattro pilastri precedentemente alzati; con farci di sotto il bancone e dopo sopra detto bancone assettare li pilastri intagliati di nuovo secondo richiede l’architettura, e confrontare con livello al zoccolo, seu la fabrica antica fatta in detto campanile, e detti pilastri rifarli dell’altezza richiede l’architettura, non ostante che da detto disegno si vede dover essere più corti della giusta proporzione d’architettura, con fare sopra il suo cubolino come nel detto disegno colli quattro spichi, e finimento tutto d’intaglio una colli quattro palle, e quattro palagusti sani, e otto mezzi nel basamento di detto campanile secondo il disegno, tutte d’intaglio, e li quattro fondi di detto cubolino imbattomarli di color rosso, e caso mai li fratelli di detta ven.le chiesa vorranno metterci i mattoni di Valenza debba detto di Catalano situarceli, quale campanile lesto di tutto punto atto a metterci le campane, che pure deve collocare detto di Catalano sia tenuto ed obbligato ..... consegnarlo per tutto il mese di maggio di questo anno ..... pro pretio, attractu, et magisterio unciaru vigintisex (v. f. 3). Lo stesso anno, a lavori conclusi, si montavano li catusa e la bandiera del campanile (quest’ultima caduta all’inizio del 1900 a seguito di una forte bufera).

 

 

Gli stucchi

 

Nel Cinquecento lo studio dell’effetto prospettico e del rilievo nella scenografia veniva considerato dagli architetti teatrali un tema centrale di ricerca essenzialmente statica. Dagli addobbi degli spettacoli aristocratici del cinquecento nasceva l’eccezionale e tanto discussa architettura barocca che porterà alle estreme conseguenze l’applicazione di quella parte di scenografia che gli stessi artisti avevano chiamato condimento dello spettacolo.

Nel 1600 il barocco si diffuse in maniera capillare in tutte le arti, dalla musica alla letteratura, dalla scenografia all’architettura e all’arte in genere. Nell’architettura ha trovato la più alta espressione nell’edilizia civile di rappresentanza e soprattutto nelle chiese. Gli edifici sacri, anche quelli più antichi, vennero modificati e arricchiti da stucchi a bassorilievo, a mezzorilievo e a tuttotondo, sia nelle facciate esterne che in quelle interne. Le pareti delle navate, dei transetti, dei presbiteri vennero in molti casi ricoperte di stucchi, secondo le espressioni più variegate: putti, panneggi, paraste, cornicioni, motivi floreali e geometrici si fusero e assunsero connotazioni multiformi con effetti spesso notevoli.

Quasi subito questa arte minore cominciò a prestarsi a variegate manifestazioni di stravaganza e a più azzardate sperimentazioni artistiche, ma in meno di un secolo si trasformò in decadente pesantezza, fino ad essere soppiantata dal neoclassicismo.

Nei monumenti della Sicilia le esigenze scenografiche si orientarono sempre più verso il fantastico e nelle già esuberanti scenografie popolaresche si introdussero elementi simbolici sfocianti spesso nel mitologico o addirittura nel grottesco.

Tutti gli elementi sopra evidenziati li possiamo cogliere nella chiesa del SS. Rosario di Favara, dove, alla austerità dei prospetti esterni si contrappone il complesso intreccio degli ornamenti in stucco che le ricoprono indistintamente.

Al visitatore che oltrepassa l’area sovrastata dalla cantoria si apre un ricco scenario artistico, dove i poveri muri maestri in pietra informe e gesso perdono la loro connotazione materiale e diventano coinvolgenti quinte scenografiche.

Sulle pareti longitudinali della navata si aprono grandi nicchie con archetti adornati da cornici, modanature, putti ed altri elementi a sfondo geometrico e floreale, verticalmente scandite da lesene alettate, terminanti con capitelli corinzi. Un tempo su queste nicchie erano addossati altari lignei con paliotti decorati, su cui facevano da sfondo le statue di santi e grandi tele.

Sulla sequenza ritmica di lesene si leva un massiccio cornicione, ricco di modanature dentelli, listelli, ovoli, mascheroni e bassorilievi floreali.

Sulle pareti superiori al cornicione aggettano, a tutto tondo, folte schiere di putti che sembrano volteggiare nell’aria, facendo capriole attorno ad un groviglio armonico di medaglioni, conchiglie, volute, festoni ed elementi floreali; a questi si innestano le aperture strombate, ricche di stucchi ornamentali che riproducono cornici, teste alate di amorini e figure dalle sembianze semiumane da classificare fra angeli e chimere.

Alla ricchezza scenica degli stucchi delle pareti laterali della navata fanno da sfondo quelli afferenti l’arco trionfale e le pareti del presbiterio (v. f. 4-5).

Il muro archivoltato dell’arco trionfale che divide la navata dall’abside è caratterizzato da mezzirilievi in stucco che riproducono scene di putti che scorazzano avvolti da lunghi panneggi, ma tutti nell’atto di sostenere due vistosi festoni legati al medaglione che sovrasta la chiave dell’arco, terminando ai lati su due nicchie, da cui emergono le statue dei santi Giovanni Battista (v. f. 6) e Tommaso d’Aquino  (v. f. 7). S. Giovanni Battista è rappresentato così come vuole l’iconografia: un uomo con una folta barba, che regge con la mano destra un lungo bastone da viandante (oggi mancanti) e con la mano sinistra l’agnellino, vestito con l’abito di pelle di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi e un mantello (rosso) come segno del martirio.

Il domenicano san Tommaso della stirpe nobilissima d’Aquino, dell’ordine dei predicatori, obeso di costituzione, contemplativo e devoto, viene invece rappresentato con un libro sulla mano sinistra nel dotto atteggiamento di dimostrare la sua teoria dogmatica.

L’abside a base quadrata, è ricca, nelle pareti, di bassorilievi che riproducono scene di putti avvolti da svolazzanti panneggi, contornati da fiori, nastri, conchiglie, festoni, etc.

L’altare è espresso con due colonne tortili, fra cui è incavata una nicchia adornata da una serie di medaglioni che riproducono i misteri del rosario. Nella parte superiore si ergono a tutto tondo alcuni putti nell’atto di sorreggere un imponente medaglione ricco di volute, conchiglie e motivi floreali.

Occorre, a questo punto, fare una riflessione sulle qualità artistiche e per ciò che attiene l’anatomia dei putti e le forme degli altri elementi relativi alle pareti laterali della navata e quelli afferenti l’arco trionfale ed il presbiterio. Nel primo caso si manifesta l’intervento di un artista piuttosto popolare, ma di grande abilità espressiva e rappresentativa. Le forme anatomiche in alcuni casi si manifestano goffe e grossolane e le superfici, qualche volta, non sono perfettamente finite. Nel secondo caso emerge un intervento accurato sia nell’anatomia dei putti che nelle forme geometriche degli altri elementi. Dalle qualità artistiche elevate espresse, dalle fattezze anatomiche rilevabili soprattutto nei volti dei putti, si manifesta in maniera inequivocabile l’intervento di un abile mastro stuccatore diverso da quello che ha realizzato gli stucchi sulle pareti laterali della navata.

 

 

Le pitture murali

 

Durante le operazioni di restauro alcuni decori all’interno della chiesa, sono stati ritrovati in uno stato di parziale completezza. Il riferimento va fatto alle parti decorate con oro zecchino, presenti solo parzialmente nelle pareti est ed ovest della navata e nelle statue dei santi Giovanni Battista e Tommaso. Anche i medaglioni presenti sopra il cornicione, sulle pareti est e ovest non sono stati ritrovati tutti affrescati. Evidentemente l’idea di completare le parti rimanenti è venuta meno per mancanza di fondi e/o, più probabilmente, per il cambiamento di gestione della rettoria.

Durante la eliminazione delle ridipinture e delle superfetazioni pittoriche che ricoprivano indistintamente tutti gli intonaci e stucchi  della chiesa, sono emersi alcuni affreschi.

Dalla parete ovest del presbiterio, all’interno di una campitura murale contornata da una fitta trama di stucchi è affiorata l’immagine di S. Tommaso d’Aquino avvolto da una bianca tunica ed un mantello nero, chinato innanzi alla Madonna del SS. Rosario col Bambino Gesù in braccio (v. f. 8-9). Queste ultime due figure, con il fondo giallo-oro, irradiano una luce divina avvolta dall’abbraccio di un coro di angioletti che fuoriescono dalle nubi celesti. Questo dipinto, di cui ormai si era persa la memoria, in tempi non recenti, era stato ricoperto con tre strati di colore e bistrattato da chiodi. Uno di questi chiodi aveva sfigurato il volto di S. Tommaso.

Sulla parete speculare est, che fronteggia quella descritta, affiorano invece frammenti di una pittura con figure umane ed al centro il Cristo risorto, col nimbo colore oro ed una bandiera bianca svolazzante, recante la croce del martirio dal colore giallo-oro che sta ad evidenziare il sopravvento della luce sulle tenebre.

Altri due affreschi sono stati rinvenuti sotto quelli dei medaglioni dell’arco trionfale e dell’altare principale della chiesa. Nel primo caso è riemerso un  dipinto raffigurante lo sposalizio di Giuseppe e Maria, i cui lineamenti, anche se piuttosto goffi, richiamano, sotto certi aspetti, lo sposalizio della vergine di Raffaello (v. f. 10-11).

Sotto il dipinto sgraziato del medaglione dell’altare presbiteriale è riemerso, invece, un affresco dedicato alla Madonna del Rosario che, anche se scurito dal tempo, risulta abbastanza delicato nelle forme.

Da alcuni medaglioni delle due pareti longitudinali della navata sono emersi degli affreschi i cui motivi risultano piuttosto confusi ed indecifrabili.

 

 

Il soffitto ligneo cassettonato

 

Il pregio della chiesa non è tanto all’esterno ma nelle finiture interne ed in particolar modo nel soffitto ligneo decorato e nel fitto scenario di stucchi che ricoprono le pareti. Questo ricco apparato artistico sembra anacronistico se rapportato al periodo di realizzazione del monumento ed antitetico rispetto all’architettura austera esterna, dove l’unico elemento ascrivibile al “500, per stile, è il portale principale, anche se in cattivo stato di conservazione. In effetti quando nella chiesa venivano realizzati gli stucchi il barocco era già nella fase finale del suo splendore, mentre l’uso dei soffitti lignei era già in forte discesa dal “500; non a caso quello di Favara rappresenta una delle pochissime testimonianze del suo tempo (v. f. 12-13).

L’apparato ligneo del soffitto della nave e del presbiterio, nel suo insieme, è strutturato da travi trasversali aventi funzione portante e da tavole longitudinali, unite in modo da formare delle false travi (tre tavole per ognuna), secondo un semplice, ma rigoroso schema geometrico di linee ortogonali che seguono i punti cardinali est-ovest e nord-sud. Ogni riquadro composto dalle suddette travi, regge al suo estradosso, un pannello decorato di tavole che richiama la eikon (l’icona). Eikon significa infatti “immagine”, una pittura a sfondo religioso su pannello di legno.

Le immagini del soffitto della chiesa del SS. Rosario di Favara non sono da ammirare solo per la loro stupenda forma d’arte, ma, in chiave prettamente religiosa, anche perché rappresentano un modo di vivere con maggior intensità la fede, una sorta di preghiera dipinta.

L’eccezionalità del cassettonato e di ogni immagine riportata in ciascun pannello sta nell’avere incavato le icone nei pannelli, distinguendole da questi attraverso cornici. La funzione delle cornici non è solo quella di contornare e rendere più belle le icone e distinguerle dal resto del soffitto, bensì di portare su di sé preghiere e iscrizioni, in un significato allegorico e ultraterreno.

Una eccezione nella forma la ritroviamo al centro del soffitto della navata, dove il pannello inscritto è più grande rispetto agli altri ed è contornato da una cornice che gli conferisce una forma ottagonale. Stessa forma riscontriamo nei pannelli confinanti nord-sud-est-ovest, che nell’insieme conferiscono una visione a croce greca (foto successiva).

Nell’iconografia, soprattutto quella religiosa, i colori (pigmenti) delle tempere utilizzate sono importanti perché attribuiscono ai personaggi significati e valori che oltrepassano la materialità e sconfinano nel mondo trascendente. Ogni ordine della gerarchia celeste e terrestre è commisurato ad un colore, che ha, nella sua armonia, un significato simbolico differente; in particolare nel mondo cristiano hanno un simbolismo definito e molto complesso. I colori predominanti nelle pitture del soffitto della chiesa del SS. Rosario di Favara sono il bianco e il bruno. Il bianco è il colore del mondo divino, rappresenta luce, gloria e potenza divina. La luce è simbolo dell’invisibile, qualcosa di inafferrabile e impalpabile. Il colore nero posto a contorno del bianco, in quanto assenza totale di luce, esalta maggiormente quest’ultima nella sua potenza. Il bruno riflette la densità della materia, perciò viene utilizzato per tutto ciò che è terrestre. Con la dominanza di questi due colori probabilmente il pittore ha voluto conferire al soffitto la duplice un’identità terrena-divina; una sorta di diaframma che si spalanca all’occhio del visitatore, fra la realtà materiale e quella dell’invisibile, che trova giustificazione anche nella rappresentazione dei santi, come entità storica ascrivibile alla sfera della luce e della gloria.

La tendenza del bruno al rosso s’impone allo spettatore e accentua il valore dell’incandescenza, dell’attività e della potenza del suo irraggiamento. Il giallo e la doratura, non a caso, li ritroviamo solo nell’icona centrale del cassettone del soffitto della navata, dov’è la Madonna del Rosario, oltre che nei santi disegnati nelle icone immediatamente laterali. Il giallo è un colore troppo vicino alla luce e allo splendore dell’oro. Se l’oro rappresenta la luce, il giallo, come gli altri colori, vive della luce, quindi l’oro, a differenza del giallo, è il riflesso vero della luce, è splendore. Il giallo lo ritroviamo dietro la Madonna, mentre l’oro che risplende nel nimbo dei quattro santi che la contornano ci fa comprendere meglio la rappresentazione dei personaggi in rapporto alla loro importanza.

Le cinque icone menzionate sono delimitate da cornici ottagonali dorate che ne esaltano ancora di più la composizione, le estrapolano dal contesto e ne celebrano la gloria e lo splendore.

Il mantello blu che ricopre la Madonna del Rosario esprime trascendenza per tutto ciò che è terrestre e sensibile, trasmette un senso di profondità e calma, protegge il Bambino Gesù seduto sulle sue gambe, ma nello stesso tempo accoglie la folta schiera di re e fedeli assorti nella preghiera.

Le immagini non sono state portate dall’artista ad un vero e proprio stadio di completezza, in molti casi si presentano quasi allo stato di bozza, dove i contorni ed i colori primari vibrati sembrano prevalere sulle campiture scurite per effetto del tempo, ma in molti casi risultano mancanti a causa del degrado.

 

 

Le cripte

 

A seguito di lavori di restauro della chiesa, con lo svellimento del moderno pavimento, nel mese di maggio 1995, emergevano due tombe isolate; la prima a sud-est, in prossimità della colonna est della cantoria, della cui lastra di chiusura in pietra è stato ritrovato solo qualche frammento fra il materiale di risulta che riempiva la fossa (v. f. 14-15); la seconda tomba è stata rinvenuta ad ovest della navata, antistante la parasta centrale. Era ricolma di materiale di risulta (gesso e pietra), e dotata di una lastra in pietra lavorata a bassorilievo nella superficie esterna e riportante la figura di un canonico, priva di iscrizioni. Assieme a detti detriti sono stati rinvenuti pochissimi resti di ossa umane e due fibbrie di scarpe, probabilmente appartenenti al fondatore della chiesa Antonino Miceli; infatti l’unico altare non identificato è quello di fronte detta lastra intagliata ed è quindi probabile il riferimento a quello di S. Margherita. Giova evidenziare lo stato avanzato di abrasione della superficie scolpita; evidentemente perché per moltissimi anni sottoposta ad azione di calpestio da parte dei fedeli (foto sopra e a dx).

Altre tre cripte con botole in pietra, con accesso dalla navata, sono state rinvenute, le prime due, in posizione centrale rispetto alla navata della chiesa, costituite da doppio ambiente; la terza, a nord-ovest ad unico ambiente; la quarta, di particolare interesse, occupa l’area sottostante il presbiterio e la sagrestia. Quest’ultima comprende due vani di forma quadrangolare fra loro collegati da un cunicolo. Il vano sotto la sagrestia copre una superficie di mq. 27,00 e si collega alla nave della chiesa con una gradinata chiusa con botola in pietra. Quello sotto il presbiterio copre una superficie di mq. 23,00 e si collega al primo con in breve cunicolo. 

Al centro di ognuna delle due cripte si erge un pilastrone terminante con quattro archi a sesto ribassato, reggenti e delimitanti quattro volte a crociera. All’interno delle cripte sono ancora presenti alcuni scranni in pietra e gesso, dove venivano deposti i cadaveri da essiccare, alle cui basi si trovano gli alloggiamenti per i contenitori in terracotta che servivano per raccogliere i liquidi mortali.

Come rilevasi dagli antichi manoscritti custoditi nell’archivio della chiesa madre, la prima sepoltura nella precedente chiesa risale al 12 giugno 1600 e riguarda una certa Ninfa Cappello che ... morsi et fu sepelita nella devota ecclesia di lo Rosario di questa terra di la Favara.

Da una attenta analisi dei registri si può affermare che, dopo la preesistente chiesa madre, quella del SS. Rosario fu, dal 1600 in poi, la chiesa maggiormente utilizzata come luogo di sepoltura. L’ultima sepoltura nella chiesa settecentesca risale al 2 dicembre 1866 e riguarda un certo Giovanni Costanza filius populi (figlio d’ignoti) di 45 anni circa. In tale periodo, a causa dell’imperversare del colera il sacro edificio, così come gli altri, venne interdetto dal triste rito funebre e da quel momento, fino ad un certo periodo, i defunti vennero portati tutti sulla collina S. Francesco. Nel 1877, con l’apertura del cimitero in contrada Piana Traversa cessava il triste rito di seppellire i defunti dentro le chiese (foto successive).

 

Chiesa di S. Rosalia (Purgatorio)

 

1

Chiesa di S. Rosalia (Purgatorio) anni "70

 

2

Epigrafe riguardante la fondazione delle Anime Purganti

 

3

Epigrafe sulla fondazione della confraternita delle Anime sante del Purgatorio

 

4

Mons. Antonio Sutera

 

Campanile della chiesa di S. Rosalia (detta del Purgatorio) del 1906-1907

 

Prospetto principale della chiesa di S. Rosalia (detta del Purgatorio - da un rilievo di Carmelo Antinoro del 1985)

 

Facciata della chiesa di S. Rosalia (detta del Purgatorio) nel 1985

 

Facciata della chiesa di S. Rosalia (o del Purgatorio) nel 2008

 

 

La fondazione

 

Scriveva l'abate Rocco Pirri: Qui con danaro pubblico a S. Rosalia eletta l'anno 1625 a patrona fu innalzato una magnifica chiesa di diritto e patronato dei giurati ....

La chiesa venne fondata con diritto e patronato del Comune di Favara nel 1626, a seguito dell’invasione della peste bubbonica; venne infatti, consacrata a S. Rosalia protettrice degli appestati che, per l’occasione, venne eletta patrona del paese.

Nel 1626, quasi contestualmente alla fondazione della chiesa, venne istituita la Confraternita delle Anime SS. del Purgatorio.

Nel 1634 venne fondata all'interno della chiesa la Confraternita di Maria SS. degli Agonizzanti.

Ogni anno nella chiesa di S. Rosalia veniva solennizzata la festa delle Anime SS. del Purgatorio con l'esposizione del SS. Sacramento e spari di maschi.

Nel 1759 il governatore della Congregazione delle Anime SS. del Purgatorio ordinava 600 blocchi di pietra calcarea sbozzata da prelevare dalla pirriera della pietra nella chiusa di terre vicino la casa dell'acqua (zona del quadrivio dell’Itria) o nella pirriera della pietra alla Giarritella, o pure nella pirriera della pietra nella chiusa di terre olim di mastro Raimondo Contino nel feudo di Gibilitummino, o pure parte in una, e parte nelle altre ... .

Nello stesso anno il governatore della chiesa, d'accordo con gli altri confratelli maturava l’idea di vendere la vecchia statua dell'Immacolata Concezione e, col ricavato comprarne una nuova. Questo fatto però suscitava la collera di una certa Teresa Sferrazza in Barbone. All'inizio del 1700 Antonino Sferrazza, padre di detta Teresa, a proprie spese, aveva fatto eseguire dei lavori nell'altare della Vergine Immacolata e nel proprio testamento del 1709, aveva lasciato un obbligo di messe in suffragio della propria anima innanzi a detto altare. Nonostante le divergenze, nel 1760, con atto pubblico si stabiliva di vendere la statua ad un gruppo di confrati di Camastra per il prezzo di onze 4.20 e nello stesso atto si stabiliva di assegnare un'onza a Teresa Sferrazza per alleviare i dissapori.

Nel 1762, con altro atto veniva dato incarico ai fratelli mastri Gaetano e Calogero Pennica di Girgenti di fare tutta la quantità della fabbrica, come d’intaglio ed altro necessario pella redificazione di detta chiesa di S. Rosalia giusta la forma del disegno sottoscrittosi da detto rev.do di Cortese che da detti di Pennica, con dover detti rev.di di Cortese e Fanara dictis mettere tutta l'attratta necessaria per detto edificio, fuori de capi, gurroli, e corde che metter si debono detti di Pennica ..... in particolare per ..... la fabrica delli fossati alla ragione di tarì cinque canna, la fabrica del dambuso di mattoni alla ragione di tarì nove canna. Tutto l’intaglio di smarro a tarì sei, e grana quindici canna e l’assettatina di detto intaglio alla ragione di tarì due canna dovendo però gratis detti di Pennica assistere nel tempo di sfabricare detta chiesa, e di fare li fossati.

Ne 1767 il governatore della confraternita delle Anime SS. del Purgatorio faceva esito di onze 33.6.16 ai mastri Calogero Pennica da Girgenti e Benedetto Castellana di Favara per lavori eseguiti ed in particolare: per trasporto di legnami, per trasporto di scale, e loero (affitto) di 4 tavole, per uscire l’arena e annettare la chiusa delli pezzi e sistemarli, per levare lo sterro, per levare i ponti, trasportare i legnami, per levare lo sterro dell’oratorio e della chiesa, per arena salmi 24.8, per gesso salmi 31, per tirare i pezzi in tempo di festa, per acqua, per uomini allo sfabricare, per computo del lavoro fatto dal Castellana e da Pennica.

Nel 1768 il sac. Calogero Miccichè concedeva alla chiesa uno spezzone di terreno del cortile retrostante la chiesa, di pertinenza dell'ospizio dei revv. pp. Osservanti per l'edificando cappellone (presbiterio e abside) della chiesa.

Nel 1770 al posto dell'oratorio esisteva un cortile, da cui si accedeva in un magazzino di proprietà del notaio Nunzio Felice Lo Vetero, il quale lo assegnava con atto pubblico alla Confraternita delle Anime Sante del Purgatorio per la realizzazione dell'oratorio.

Negli anni 1771 e 1772 venivano fondate nella chiesa di S. Rosalia le Confraternite dell'Addolorata e della Carità, quest'ultima sotto la protezione dell'Addolorata. Le Confraternite si dotarono di capitoli che erano degli autentici regolamenti. Per portare un esempio la Confraternita della Carità era costituita da sacerdoti e laici che avevano come presupposto quello di seguire l'antica e divina legge di Dio, imponendosi di osservare un regolamento suddiviso in nove capitoli. Il contenuto di detti capitoli riguardava la elezione dei superiori ed il ruolo del rettore che non poteva essere riconfermato dopo due anni consecutivi. Quest'ultimo eleggeva un cancelliere ed un nunzio. Il cancelliere aveva il compito di registrare i voti dei congregati nell'elezione dei superiori ed il nunzio doveva avvisare il rettore sulle eventuali infermità dei congregati. L'ammissione dei sacerdoti alla Congregazione era sottoposta a votazione da parte dei congregati i cui voti dovevano poi essere esaminati dal rettore. Erano inoltre richiesti alcuni requisiti sulle condizioni fisiche e l'età che non doveva essere superiore a 33 anni. I congregati dovevano darsi soccorso a vicenda e dovevano intervenire alle riunioni che si tenevano a cominciare dal mese di novembre fino ad aprile dell'anno successivo. Molto ampiamente veniva descritto il modo di seppellire i cadaveri dei sacerdoti congregati, in tal caso tutti i congregati intervenivano a comprare quanto occorreva e durante la sepoltura dovevano essere tutti presenti per cantare i sacri versi prescritti dal rituale. Durante l'agonia del sacerdote doveva essere esposto il SS. Sacramento e due o tre congregati dovevano girare per le strade portando la statua del Cristo recitando dei versi e di tanto in tanto informare il popolo ed esortarlo ad intervenire nella chiesa di S. Rosalia ove era esposto il Divinissimo, a pregare per il sacerdote moribondo. L'esposizione inoltre doveva essere effettuata per tutto il tempo dell'agonia per due ore la mattina e due ore la sera. Attorno al Divinissimo dovevano essere esposti non meno di diciotto candele a spese dei congregati. Facevano parte della Congregazione della Carità trentaquattro sacerdoti oltre il cancelliere, il nunzio ed il rettore.

Nel 1773 veniva realizzata la nuova volta della chiesa e veniva commissionato un organo. Dopo circa 150 dalla fondazione la chiesa veniva radicalmente trasformata.

Nel 1783 con una spesa di onze 4.23 veniva riedificata la cappella dell’Addolorata detta anche di nostra Signora della Pietà. Lo stesso anno veniva acquistato un nuovo organo a Girgenti.

In data 14 ottobre 1796 veniva stipulato un atto in virtù del quale i giurati dell'Università di Favara d. Pietro Avenia, d. Francesco Piscopo e d. Lorenzo Campione chiedevano l'erezione del beneficio delle Anime SS. del Purgatorio nella chiesa di S. Rosalia, affinché quest’ultima potesse fruire di quelle premure e vantaggi tanto nelle fabbriche che già minacciavano rovina, tanto nell'accrescimento del culto divino. In tale istanza si evidenziava la necessità di legare a detto beneficio un soggetto capace e abile e a tal proposito veniva indicato il sac. Pasquale Mulè di Favara come persona abile e capace, tanto per il divino culto per la sua sperimentata attenzione ed abilità nelle funzioni ecclesiastiche ed istruzione dè populi e che per riparare, e tirar avanti li vantaggi di detta ven.le chiesa che per essere rovinata aveva bisogno dell'aiuto di persona abile ed attiva.

Il cappellone minacciava rovina e per provvedere al restauro il vescovo mons. Saverio Granata ed il vicario foraneo, non essendoci denaro disponibile, ordinavano che gli obblighi di messa e le elemosine venissero impiegati per il restauro, con la condizione di celebrare le messe da parte del beneficiale sac. Orazio Cafisi solo nei giorni di festa e di domenica.

 

 

Il beneficiale sac. Pasquale Mulè e la ristrutturazione della chiesa

 

Il 23 febbraio 1797 il vescovo della diocesi di Girgenti mons. Saverio Granata concedeva il beneficio delle Anime SS. del Purgatorio dentro la chiesa di S. Rosalia ed il diritto di elezione di un proprio beneficiale.

Beneficiale della nuova confraternita veniva eletto il sac. Pasquale Mulè, uomo intraprendente e assai zelante, spesso occupato a mischiare gli affari privati con quelli ecclesiastici, figlio di NN, in modo che per diventare prete gli fu fatta dispensa della irregolarità canonica incorsa ex defectu natalium.

Sin dal primo insediamento per il Mulè iniziarono non poche questioni che si protrassero anche dopo la sua morte, da un lato per l’arbitraria gestione economica della confraternita delle Anime SS. del Purgatorio, dall’altro per i rapporti burrascosi che teneva con un giovinastro, un presunto nipote chiamato Gerlando Licata, che teneva in casa e con cui conviveva, il quale agognava alla tenue fortuna del Mulè, dichiarandosi anche suo parente, sapendosi guadagnare per un certo tempo il di lui affetto. 

Eletto beneficiale, il sac. Mulè iniziò subito  una gran quantità di lavori di trasformazione della chiesa che è stata ingrandita in lunghezza ed in altezza, a cui è stato pure aggiunto l’oratorio, dove la confraternita si riuniva. Ha pure fatto realizzare il primo ordine del prospetto in pietra (con esclusione del campanile).

Appena entrato nel pieno delle sue funzioni il Mulè, constatato che la chiesa era angusta e priva di adeguata sacrestia, si adoperò, col concorso dei fedeli, alla ricostruzione del presbiterio e del cappellone ed in un angolo adiacente ad est vi ricavò la sacrestia. Sul muro absidale esterno ha fatto collocare una epigrafe  (v. f. 2-3). Dietro quella epigrafe, sicuramente sconosciuta dalla quasi totalità dei favaresi, si cela anche una storia curiosa dal sapore grottesco, durata diversi decenni.

Nel 1797 il Mulè perveniva ad un accordo con i fratelli Gaetano e sac. Vincenzo Belmonte, abitanti nell'imponente fabbricato sito nella via dell’Ospizio - oggi via Belmonte - adiacente la chiesa a sud-ovest ed allora confinante a nord con l’ospizio dei pp. Cappuccini. Era da tempo noto, infatti l’attaccamento della famiglia Belmonte alla chiesa del Purgatorio, tanto che il capostipite dei Belmonte e nonno delle due persone cennate, cioè il notaio Antonio Belmonte (n. 1644 – m. 1729), aveva fatto realizzare all’interno della chiesa, innanzi la cappella di nostra Signora della Pietà (o della Madonna addolorata) una tomba di famiglia, all’interno della quale era stato pure seppellito il figlio di detto notaio: il sac. Melchiorre morto nel 1773, il quale, con proprio testamento, aveva legato onze 70 alla chiesa di S. Rosalia per recitazione di messe in suffragio della propria anima.

I fratelli Belmonte erano infatti disponibili a donare parte del loro terreno retrostante la chiesa per la costruzione del cappellone a condizione però che sul muro ovest dello stesso venisse realizzata una finestra, affinché potessero seguire da casa le sacre funzioni. Il vescovo era d'accordo a tale soluzione, ma a condizione che la finestra fosse eseguita nell'angolo dell'arco, senza che sporga fuori, non più ampia di tre palmi e munita di grata di ferro simile a quella usata nei monasteri.

Nel 1797 il beneficiale sac. Pasquale Mulè faceva ingenti spese per lavori nel lato destro del presbiterio e del cappellone, per aver realizzato tre volte con archi di pezzi d’intaglio per dar libero il passaggio di dietro a detto Gaetano Belmonte ed avergli sbadata la di lui cantonera, per aver realizzato la porta ed avere innalzata la fabbrica di detto cappellone e presbiterio di canne tre circa. Faceva, inoltre, esito a diversi mastri per aver proseguita la fabrica del novello cappellone sino al cornicione, inclusa la fabrica del presbiterio;

Spendeva, inoltre, onze 162.26 per tanti oggetti comprati per la chiesa.

Nel 1798 al sac. Mulè veniva notificata una ingiunzione da parte del Giudice Civile, per ordine della Gran Corte Vescovile, a consegnare alla congregazione delle Anime SS. del Purgatorio tutto il materiale ad essa appartenente.

6 aprile 1799 il superiore della Congregazione del Purgatorio d. Gaetano Belmonte pretendeva che si spiantasse il beneficio delle Anime del Purgatorio perché immeritevole quel prete Mulè. Già prima di Belmonte, il notaio Vincenzo Piscopo, nella qualità di superiore della Congregazione, aveva fatto ricorso al vescovo asserendo che il suo predecessore non curava bene le ragioni della Congregazione e che il Mulè era impedito ad ottenere benefici, come figlio sacrilego. Ma le lamentele maggiori del Piscopo riguardavano alcune rendite della propria Congregazione che il vescovo aveva assegnato in dote al nuovo beneficiale.

Nel 1799 il governatore della Congregazione delle Anime SS. del Purgatorio dott. Biagio Licata (nonno di Biagio junior principe di Baucina e del barone Antonio Mendola) ed il beneficiale Mulè incaricavano diversi mastri a trasportare da una pirrera sita in c.da Grazia della Portella, fino alla chiesa del Purgatorio, una grande quantità di testette in pezzi.

Nel 1801 il beneficiale Mulè faceva imbiancare, stucchiare e pittare la chiesa.

Nel maggio 1802 il ben.le Mulè manifestava un progetto al Governo per via del Tribunale della Gran Corte, mediante il quale cercava di evidenziare la necessità di permutare le somme che la chiesa annualmente percepiva sopra alcune case con altrettanta rendita che annualmente rendeva al detto Mulè sopra un giardino e terre in codesto territorio affinché trovata vendibile la rendita sopra le case, il capitale della medesima, si potesse impiegare per migliorare le fabbriche della chiesa. Accordata detta richiesta con decreto del R. Governo dato in Palermo il 27 maggio 1802, il Mulè presentava alla Curia di Girgenti la supplica per la realizzazione di detta permuta che veniva subito accordata.

Nel mese di aprile 1804 il vescovo scriveva al vicario foraneo di Favara su “vari disordini cagionati da codesto sac. d. Pasquale Mulè in dispreggio del culto divino, e del SS. Sacramento per non tenersi con decenza”, al fine di intimare al Mulè la presentazione entro quindici giorni dei conti, rendite ed elemosine dal 1797 al 1803. Con la stessa lettera il beneficiale Mulè veniva temporaneamente sospeso dall’esercizio delle sue funzioni.

Le questioni con il beneficiale Mulè iniziarono soprattutto per il suo modo arrogante e arbitrario di gestire i conti della confraternita e della chiesa, dei cui introiti ed esiti non dava conto a nessuno, neanche alla Curia.

Trascorsi infruttuosamente i quindici giorni il vicario foraneo esprimeva meraviglia e stupore di come il Mulè gli scagliava contro l’avvocato fiscale dopo essere stato sospeso dall’esercizio delle confessioni, citato dalla Corte Foranea ad istanza del governatore della chiesa e costretto a rendere i conti relativi alla sua amministrazione oltre che giustificare tante malversazioni.

Intanto giunti nel mese di luglio, il Mulè non solo continuava ad ostinarsi a non presentare quanto richiesto, compreso l’elenco dei sacri arredi comprati a nome della chiesa, ma impediva a mastro Benedetto Castellana di ispezionare le fabbriche e quant’altro da costui fatto realizzare, per la stima imposta dal vescovo.

Nel mese di agosto il vicario foraneo in compagnia di un notaio e del governatore della chiesa si portava in casa del sac. Mulè facendogli leggere l’ordine del vescovo; in tale occasione quest’ultimo si accendeva di collera ed infuriato rispondeva che non era soggetto né al vescovo né tanto meno alla Corte. Ma il vicario avendo intravisto un registro lo prese e disse: “questo non è un libro del Purgatorio?”; a tal punto il Mulè gli si avventò contro, strappandogli il libro dalle mani e subito se ne fuggì in una camera contigua chiudendo a chiave la porta e gridando con voce minacciosa. Il vicario a tal punto propose di forzare la porta ed il Mulè infuriato uscì e cercò di cacciare tutti dalla propria casa. Il vicario chiese la chiave per entrare nella stanza che il Mulè aveva chiuso e quest’ultimo rispose con parole minacciose: “scassatela”; a tal punto venne forzata la porta ed all’interno della camera vennero ritrovati le suppellettili della chiesa con alcune scritture. Il Mulè con tono pesante rivolgendosi al vicario disse: “ladro,.... giacobino....” e tante altre parole ingiuriose fino al punto di volerlo afferrare. Il governatore pacatamente si girò verso il vicario e disse: “vedete l’eccessi di questo mulo”, mentre il Mulè strepitava financo coi piedi.

Alla fine del 1804 il Mulè consegnava al vescovo ed alla Gran Corte i conti d’introito ed esito che venivano esaminati con la contraddizione delle parti in un gran lasso di tempo senza arrivare ad una vera e propria conclusione.

Arrivava nel frattempo il nuovo vescovo mons. Saverio Granata, il quale, mosso da zelo pastorale, per eliminare ogni questione sorta fra il Mulè, il rettore ed i confrati, perveniva alla conclusione di far eseguire una perizia a spese del Mulè, tendente ad effettuare una stima di tutte le fabbriche realizzate nella chiesa, nominando per tale scopo il mastro marammiere Benedetto Castellana, il quale dopo una diligente osservazione, redigeva la relazione, dai cui conti emergeva che il Mulè era creditore di oltre 192 onze, una cifra non indifferente in quel periodo.

L’attuale conformazione della chiesa è quella voluta dal Mulè tranne che per la torre campanaria. 

Nel 1809 il ben.le Mulè faceva stuccare, ed imbiancare la chiesa del Purgatorio; nel 1815 altri lavori faceva eseguire nella fabbrica dell'oratorio e della chiesa; nel 1816 il sac. Mulè, in cambio di tante messe da celebrare per il venditore, riceveva un piccolo appezzamento di terreno dietro la chiesa; nel 1817 faceva eseguire altri lavori di restauro nelle fabbriche della chiesa, nella copertura della sacrestia ed al suo interno, oltre che nell'altare che, in generale apportarono notevoli cambiamenti alla originaria forma del sacro edificio; nel 1818 faceva esito di onze 15.6.6 per avere acconciato tutta la nave della chiesa, come pure il tetto dell’organo.

Nel 1904 veniva eretto il sodalizio delle figlie di Maria Addolorata per la riunione delle chiese dissidenti.

Gli altari presenti all’interno della chiesa erano sette ed in particolare quello maggiore dedicato a S. Rosalia, dei Santi tre Re, delle Anime SS. del Purgatorio, dell’Immacolata Concezione, di Maria SS. della Pietà, dell’Addolorata e di Maria Maddalena.

Tutti i beneficiali tennero in possesso la chiesa del Purgatorio con relative pertinenze come la sacrestia, l'oratorio, le stanze superiori, etc. che utilizzarono liberamente staccandone un bel tratto, circa la quarta parte, alzando un nuovo muro divisorio, per mezzo del quale, restringendo l'oratorio, raddoppiarono lo spazio della sacrestia, lasciando solo una finestra a vetro in detto muro divisorio e due porte, di cui una permetteva la comunicazione fra chiesa e sacrestia, mentre dal lato destro dell'oratorio, dietro l'usurpazione da parte delle forze armate nel 1860, le citate due aperture vennero tompagnate e l'oratorio venne adibito a caserma.

L'oratorio venne sottratto alla chiesa da parte dell Comune, prima con le forze armate nel 1860 e successivamente per svolgervi le proprie attività per un periodo di 22 anni.

Per tal motivo il beneficiale della chiesa ha chiesto la restituzione di dette pertinenze, con la retribuzione del fitto e per il danno ricavato per i suddetti anni.

Il 7 giugno 1903 l’arc. Angelo Giudice ha ceduto la chiesa del Purgatorio al nuovo sacerdote Antonino Sutera ( 21.1.1878 3.3.1948) (v. f. 4), il quale ha subito manifestato l'intenzione, appena i mezzi lo avessero consentito, di fabbricare il campanile della chiesa e compiere la parte restante superiore della facciata in pietra da taglio.

Il 23 settembre 1906 il sac. Sutera ha fatto trasportare numerose pietre grosse da intaglio davanti il Purgatorio e dopo avere valutato i disegni, prima quello del perito Antonio La Russa e poi del perito Salvatore Sajeva, è stato scelto quest'ultimo. Nel mese di novembre era già completo.

L'8 novembre 1906 nei suoi diari il barone Antonio Mendola ha scritto: Il campanile del Purgatorio è già fabbricato sino alla cornice ultima. Resta solo la copertura o berretto a farsi. Si sono piazzate le campane ed hanno solennemente, ma non sonoramente, inaugurato i loro suoni. È una grasta rotta quella campana fatta dal cosiddetto Romano. Il sac. Sutera ha sbagliato la buona fusione ed ora ha anche sbagliato l’architettura del campanile. Io lo avvertii in tempo a stare in guardia per la campana e a correggere il disegno del campanile, ma egli, testardo, ruvido, senza gusto, disprezzando quasi il bello, ha contrariamente al mio avviso, guastato il campanile e la campana. Il campanile è di stile dorico, cioè il capitello, dice Sajeva, l’ideatore, è dorico, ma non so ravvisarlo, manca il fiorello centrale e poi non è solo il capitello che fa lo stile, cioè che stabilisce l’armonia tra le diverse parti. Sajeva direttore e il rozzo Sutera dispensatore del denaro hanno elevato una mala, quasi informe di pezzi di pietra intagliata ed hanno formato un pezzo più grande che architettonicamente non dice nulla e sta in perfetta opposizione e contrasto con l’architettura della chiesa e dello stesso campanile sino al primo piano. Non capisco come possa sovrapporsi al gentile corinzio il massoso e grave dorico o meglio un’ordine liscio ed acefalo inventato dal Sajeva. Non capisco come non si sia tenuto nessun conto dell’euritmia architettonica. Ora a cosa finita mi accorgo di quest’altra stonatura. Nel disegno, in piccolo e senza i dettagli già esistenti nella chiesa anticamente fatta, non me ne accorsi. La bella chiesetta del Purgatorio oggi deturpata del campanile novello, ha pochi spazi vuoti, negli stessi intercolumni o spazio fra pilastri, tostoche relativamente piccoli, l’architettura ci lasciò un festone di fiori e frutta così greggio da scolpirsi a facciata finita, ciò per evitare che qualche sasso, cadendo dall’alto avesse potuto evitare e rompere o scheggiare qualche foglia o frutto. L’antica facciatina è tutta ornata, è una sposina gaia e pomposetta. Il campanile nudo e povero, ha un grande spazio vuoto che disdice alla festosità della facciata, uno spazio sopra una porta o finestra, piccola, tozza, brutta, sproporzionata. Se passa un galantuomo con un pò di gusto naturale, l’abitudine di percepire e godere del bello, tanto più se è un pò informato d’architettura, si meraviglierà assai come al dì d’oggi 1906, coi lumi e coi progressi cresciuti, come al dì d’oggi si sia guastata una bella opera che rimonta a tre secoli or sono. Dopo 300 anni i favaresi del 1900 si mostrano barbari rispetto ai favaresi del 1600. Io volevo compire la facciata, ma dopo questa brutta maschera, dopo questo anomalo campanile Sajeva-Sutera, provo sdegno, riluttanza e non mi basta più il cuore di fare ciò che vagheggiavo, cioè di fare una costruzione armonica col passato.

Il 5 gennaio 1907, sotto la grandine e la pioggia e col vento forte e freddo veniva terminata la piramide, a copertura de campanile della chiesa. Quei poveri mastri muratori che per la fame lavoravano in quel modo destavano pietà. Io temevo che qualcuno volasse per l’aria. La piramide o capolino è costruita in pantofale o mattoni. Di sopra, invece di una bandiera mobile e indicante la direzione dei venti, ci hanno messo una croce ben grande di ferro. Così hanno contraddetto le consuetudini locali ed hanno tolto al popolo il vantaggio di orientarsi con lo spirare dei venti. A cosa finita il campanile sta male, è pesante. Io avrei, per diminuirne la massa, fatti curvi gli spigoli della piramide e quindi i lati. Non ripeto i vizi e gli errori e le barbarie architettoniche commesse in questo campanile perché li segnai nel diario 1906. Mi è venuta oggi come un lampo improvviso, dopo averlo cercato tanto l’idea di costruire e finire la bella facciatina del Purgatorio e semplice e conforme allo stile. Cioé rifarci perfettamente nella seconda metà superiore della facciata, tutto ciò che sta sotto nella facciata esistente a pian terreno, con lievi modifiche. Dove a pianterreno sta la porta sopra collocherei la finestra nello stesso frontespizio e colonne con le colonne secondo il bisogno, potrebbero essere fatte a mezze colonne. La forma cuspidale piglierebbe solo la parte centrale ai due lati rientranti, farei una cornice retta e per dare spicco alla chiesa alzerei la cuspide e frontone centrale. (barone Antonio Mendola 6 gennaio 1907).

 

 

Chiesa di S.Vito

 

Prospetto del 1812

 

Madonna della neve

 

S. Vito

San Vito

 

 

Atti della Curia Vescovile riguardanti la fondazione di una Confraternita con fini assistenziali sotto il titolo di San Vito (v. foto a sx) risalgono al 1600. La certezza della sua esistenza nel 1608 ci viene pure data dai pii legati del sacerdote Antonino Galione da Cammarata, nato nel 1556 e morto il 15 novembre 1636, il quale, con atto del 4 settembre 1631, faceva fondare nella chiesa di S. Vito il beneficio sotto il titolo di Maria SS. della neve, con una congrua rendita e con l’obbligo di celebrare tre messe a settimana in suffragio della propria anima, come da testamento del 13 novembre 1636.

Atti di introiti ed esiti evidenziano che nel corso del XVII sec. la chiesa è stata oggetto di riparazione delle murature e soprattutto della copertura, costituita da legnami spioventi, canne, gesso e tegole. Si riscontrano anche spese per un nuovo campanaro, per pali d’altare, per fusione di una nuova campana, per candelieri, per i festeggiamenti di nostra Signora della neve e di S. Vito.

Tra i lavori più sostanziali effettuati nel XVIII sec. si evidenzia quello di mastro Ludovico Catalano per haver stucchiato il cappellone ed havere acconciato il tetto di detto cappellone della chiesa, nei confronti del quale, il 31 agosto 1744, è stato fatto esito di onze 8.6.

Nel 1753 venivano eseguiti consistenti lavori nella chiesa. Il 16 marzo i deputati della chiesa davano incarico, per il prezzo di onze 11.4 da prelevare dalla pia eredità Galione, a mastro Calogero Caldararo da Girgenti, per realizzare un muro a tramontana di calce e rina della lunghezza di tutta la chiesa, e larghezza di palmi 3 (1), con rincontrare colle chiavi dell’affacciata, e far cantonera di fuori nel casaleno, di più fabbricare il muro dell’arco in su affaccio mezzo giorno collaterale coll’ospizio delli reverendi padri reformati, di gesso, dovendosi sbutanare e cominciare di piede a palmi dui, e terminare colla grossezza del muro vecchio, di più fare un mezz’arangio per cappellone dentro detto casaleno, con dover collocare l’arco d’intaglio, l’istesso di dentro la chiesa, che deve diruparsi della lunghezza d’arco di palmi sedeci, e di palmi otto di composto fuori dell’arco, dentro il casaleno, ad altezza di palmi venti, con farle il dammuso di sopra a mezz’arangio, e coprirlo di sopra con canali, con dover aggiustare li spichi d’una parte ad un altra, nec non fabricare il dambuso di gisso sopra detta chiesa e ciò magistralmente secondo l’arte richiede. Detti deputati incaricavano anche di fare in detta chiesa quattro lunette finte, due lune grandi, una all’oriente, e l’altra all’occidente, ed il covertizzo dello tetto con suoi legnametti, terminare il tetto sino sopra la fabrica della casa di d. Paolo Fanara, con dover dare imbianchiato tutto il dammuso di calce di Girgenti e gisso, come pure detto Caldararo si obbliga fare il cornicione per tutta la chiesa d’intondo colli sporti nelli piedi. Il dammuso colle lagrime di sotto, fare la gerlanda coll’arco del cappellonetto col cornicione pure dentro detto cappellonetto secondo richiede l’arte con suoi pilastrini chiani di fuori sotto detta gerlanda, ed imbianchiare tutta la chiesa di piano di calce di Girgenti e gisso di pendenti, in somma dar lesta dell’intutto tutta la detta chiesa una coll’altare eccettuati la porta e l’intaglio della porta, che poi deve farsi a spese proprie di detta chiesa, ed eccettuato pure il solo, che pure deve farsi da detta chiesa, il resto la detta chiesa essere tutta fornita secondo l’arte richiede magistralmente.

Nel 1772 la chiesa veniva sottoposta ad altri consistenti interventi. Il 14 agosto veniva eletto depositario della pia eredità Galeone il sac. Giovanni Martino Mendola ed il successivo 8 marzo con apoca in Tommaso A. Fiannaca dava incarico ai mastri marammieri Antonino Lentini e Gaspare Lentini, per il prezzo di onze 14.24.3, pro attractu et magisterio pro restauratione ecclesia S. Maria ad Nives.

Il 7 gennaio 1779 mastro Antonino Picillo di Aragona riceveva onze 24 dal depositario dell’eredità Galeone sac. Giovanni Martino Mendola per avere dirozzata, ed intieramente pitturata la statua di S. Vito, e rappezzate d’oro le cornici delle carte di gloria del rispettivo altare.

Furono il sac. Vincenzo Mendola (n. 1748 – m. 1834), fratello di Andrea, quest’ultimo nonno del barone Antonio Mendola ed il parente mastro marammiere Benedetto Castellana (2) che nel 1808, decisero di eseguire i lavori, a loro spese, per erigere la nuova chiesa, che venne ultimata nel 1812. Lo stile neoclassicheggiante in voga in quel periodo lo riscontriamo ancora oggi nel prospetto principale della chiesa.

In un’apoca del 8 febbraio 1813 in notar Michele Arnone si legge delle cospicue spese per la costruzione della nuova fabbrica consistenti in onze 79 e grana 13 per per rotoli 25 di corde di canape,  per appianare la pirrera nel piano del Calvario,  per compra di cunei di ferro, per tanta ricerca di legnami, per trasporto di tanta arena (sabbia) dal feudo di Ramalia, sino a detta chiesa per 15 giorni e per tanti canali comprati in Girgenti, per fabrica ed altro travaglio del manufatto, per compra di 10 coffe per uso della fabrica, per compra di una zappulla, per compra di legname pel coperticcio (copertura), per tanto gesso, arena, pietra ed altro, per tante canne per il tetto, per tanto travaglio fatto nella pirrera della pietra, per la dilatura (preparazione) di tanta calce per la chiesa.

Nel 1811 nella chiesa di nostra Signora della Neve e S. Vito nuovamente fabbricata, necessitando la sagrestia, nella parte a tramontana, a confinare con le case di mastro Antonio Castellano, volendo il beneficiale sac. Vincenzo Mendola e mastro Benedetto Castellana, quest’ultimo nella qualità di benefattore e fabbricatore in parte della chiesa a titolo gratuito, pregarono detto Castellano a cedere il detto luogo di case in cambio del catojo sotto la sagrestia da costruire. Nel mese di dicembre pervennero così ad un atto con cui Castellano concedeva il luogo di case adiacenti la chiesa, previa stima che faceva ascendere il valore ad onze 6.

Il 6 maggio 1819 il rettore della chiesa dichiarava che essendo questa ben fornita di sacri arredi con arrendamento di messa quotidiana e lampade; essendovi, inoltre, un gran concorso di popolo, nella chiesa, fosse concesso alla stessa il mantenimento del SS. Sacramento dell’Eucarestia nel ciborio della chiesa. Detta concessione veniva data il 7 maggio 1819.

Nella Chiesa di S. Vito, nel 1928 veniva fondata la S. Vincenzo.

Ultimo rettore della chiesa fu mons. Filippo Iacolino, poi rettore del seminario e successivamente vescovo di Trapani. Dopo di lui iniziò l’epoca dei parroci.

L’elevazione a parrocchia della Chiesa risale al 10 gennaio 1935.

Fu mons. Iacolino a far costruire il campanile in pietra sulla parete nord della chiesa, nel 1930.

 

 Note

(1) 1 palmo equivale a circa 25 cm;

(2) Benedetto Castellana era un valente capo mastro marammiere, autore di varie opere a Favara ed in particolare delle facciate in pregevole stile neoclassico dei palazzi della famiglia Licata (il primo all’angolo della chiesa madre, fra le vie madrice, N. Bixio e Ruggero Mastrangelo; il secondo di fronte la chiesa madre); figlio d’arte, di antichissima tradizione, i cui progenitori vennero da Girgenti nella metà del 1600, figlio di mastro Biagio e Grazia Airò Farulla, vedovo di Concetta Argento, ha risposato nel 1771 Giuseppa Licata, sorella dell’avv. Biagio senior, nonno paterno di Biagio junior, principe di Baucina e nonno materno del barone Antonio Mendola. È morto senza figli e i beni accumulati hanno rimpinguato l’asse ereditario di Biagio junior, unico erede primogenito maschio della famiglia, figlio dell’avv. Antonio (sindaco di Favara dal 1834 al 1837) e Teresa La Lumia da Canicattì, zia di fr. Gioacchino.

 

 

Chiesa Madonna dell'Itria

 

 

 

 

 

 

Chiesa e convento del Carmine

 

 

 

 

 

Chiesa del Transito o della Trapassione

 

 

 

 

Chiesa di S. Calogero

 

 

 

 

Chiesa della Madonna delle Grazie della Portella

 

 

 

 

 

Boccone del povero e chiesa dell'Immacolata

 

1

Stabilimenti Mendola

 

2

 

 

 

Diceva il barone Antonio Mendola:”La beneficenza, vero raggio di Dio, è dovere e diritto ad un tempo, di religione e di civiltà, dovere per chi ha i mezzi ed azioni, diritto per chi ha miseria e bisogno. La beneficenza sotto qualsiasi forma, decora la città. Un paese senza istituti di beneficenza è un faro senza luce.”

Iniziata la costruzione del convento dei frati minori, intorno al 1887, sulle terre dallo stesso donate sulla collina S. Francesco, il barone Antonio Mendola cominciò a costruire  un istituto di pubblica beneficenza costituito da due stabilimenti uniti fra loro da una chiesa; quello a sud per il ricovero, l’educazione e l’istruzione delle orfanelle, con diciotto vani terrani e dieci al primo piano; l’altro, a nord della chiesa, per accogliere le persone anziane inabili al lavoro e povere, con nove vani terrani e quattro al primo piano.

Carmine Airò, figlio di Giuseppe, bravissimo ed abile capomastro, fin da ragazzo impiegato in casa Mendola, ideò, diresse e sorvegliò la costruzione degli stabilimenti di beneficenza, oltre che la vicina palazzina dedicata alla scienza, con biblioteca e tante altre opere.

L’orfanotrofio femminile con tre annessi giardini, sei cisterne e, accanto un asilo per gli inabili al lavoro (maschi e femmine, rimasto chiuso) fu aperto al pubblico esercizio il 7 settembre 1892.

A cinque anni dall’apertura dell’orfanotrofio cominciarono alcuni contrasti fra il barone Mendola e la superiora suor Orsola Berillo. C’era un’antipatia reciproca, una ripugnanza invincibile fra i due. Dove c’era l’orso fiero (come la chiamò il barone), lui non doveva mettere piede. Fece di tutto per fare andare via suor Felicita, l’unica suora istruita, di buone maniere, brava nella musica, nel canto, nell’insegnamento, amata dalle orfanelle e che sapeva richiamarsi la stima e l’affetto di tutti.

Il 3 maggio 1897 a suor Orsola finalmente arrivò il castigo di Dio. Con la corsa delle 10 sono arrivate da Palermo a Caldare la superiora generale, la nuova superiora napoletana suor Gennarina Durante e due altre suore. I superiori di Palermo avevano messo fine ad uno stato di cose assai spiacevoli, dannose e scandalose.

Suor Orsola Berillo oltre ad avere spogliato la casa delle orfanelle dalle galline, dai conigli, dai piccioni, dai maiali, dalle capre regalate da donna Gesuela ed altro, per spirito di bassa e misera vendetta, portò con sé pure due materassi di lana per uso delle orfanelle ammalate e per qualche sacerdote forestiero. Non fu possibile trovare neanche un solo bicchierino di rosolio, dei 40 che il barone aveva comprato; vere spoliazioni e furti che generarono nell’animo del barone indignazione, risentimento e sfiducia, fatti tutti sotto gli occhi della madre generale, che mentre partiva suor Orsola era in Favara.

Con la venuta della nuova superiora suor Gennarina, il barone fece aggiustare tante piccole cose nell’orfanotrofio: porte, mattoni rotti ed altro. Ha mandato frumento, companatico e quant’altro occorreva alle orfanelle. All’inizio di giugno 1897 ha fatto realizzare da mastro Antonio Amico Duca la croce di legno rivestita di piombo della stessa forma e grandezza di quella in pietra, da piazzarsi sulla chiesa dell’Orfanotrofio.

Il 21 novembre 1897 si è chiusa la sessione autunnale del Consiglio comunale e si è votato il bilancio. Fra le altre cose si è discusso il sussidio da accordarsi al Boccone del povero. Attesa la ristrettezza della finanza comunale non si sono potute assegnare più di 260 lire annue: risibile cifra!

Il barone, allora consigliere comunale, piuttosto renitente a parlare sull'argomento, alla fine ha detto: “La paternità che ho sulla casa delle bocconiste mi ha tenuto sempre nel massimo riservo, temendo di trascendere. Colgo ora l’occasione per dichiarare alcune cose, che a me sembrano importanti nel pubblico interesse. Comincio col dire che io non chiedo, né chiederò mai, di essere sgravato dal peso che sopporto; 40 orfane, 10 suore, 1 cappellano stanno sulle mie spalle e ci staranno. È il solo peso che posso sopportare. Tutto ciò che appresterà il Comune sarà in aumento, crescerà cioè il numero delle orfanelle. La somma indicata è ben tenue, è la retta appena di 2 orfanelle. Io l’accetto come una entratura.” Giacomo Cusmano concepì in Sicilia la nobile e benefica idea di mettere a progetto gli avanzi più piccoli, i rifiuti, i bocconi, per costituire un fondo grande e inesauribile in favore dei poveri. Egli concepì il piano stupendo di convertire la miseria stessa in fonte di ricchezza; egli ebbe l’intento di cristianizzare il popolo, di santificare il lavoro, di far progredire la civiltà, nel contempo innestando l’amore di Dio sulle umane industrie. Egli prendeva gli inabili al lavoro, i vecchi, i fanciulli abbandonati, gli orfani, le orfane; li alloggiava, li cibava, li istruiva prima di tutto nei doveri morali e religiosi, e poi nelle arti e nei mestieri, spargendo un gran lenzuolo di beneficenza, che tornava utile sotto tutti gli aspetti, non solo ai ricoverati, ma alla società. Il nostro paese purtroppo è avanti nei guasti morali. La mafia e il meretricio, il malandrinaggio e il puttanesimo si sono estesi in modo allarmante nei nostri giovani maschi e femmine. Orbene, per ora, in questo primo periodo, curando le donne direttamente, si curano indirettamente gli uomini, per l’influenza che esercita l’esercizio femminile sulla famiglia. Le orfanelle prese dal trivio, rubate per così dire alla destinazione del bordello e chiuse fra le sante mura dell’orfanotrofio di S. Francesco sotto la vigile ed amorosa cura delle bocconiste, saranno buone ed ottime madri di famiglia. Accarezziamo anche per questo riguardo, questa primissima nostra associazione pia e facciamola andare avanti. A differenza di altri Comuni, solo Favara non ha mai dato nulla. Io ho fatto la casa, l’ho arredata, l’ho aperta al pubblico esercizio senza recare nessun disturbo al Comune. Ma ormai è tempo che si dia qualche cosa per fare progredire l’opera e farla salire dalla piccola orbita privata alla grande sfera della potenza pubblica. Voi vedete i buoni effetti, voi vedete come in pochi giorni vengono trasformate e migliorate quelle piccole creature prese dal fango e dai bassifondi della plebe. Ho già pronta la casa per ospitare gli inabili al lavoro; non l’ho arredata, non l’ho aperta perché le mie sole forze non bastano. La carità privata è poca, nessuna la pubblica”.

Lo stesso anno il barone Mendola cominciava i lavori per la costruzione del muraglione di sostegno nel terrapieno davanti l’orfanotrofio, per allargare, allineare e sistemare meglio lo spiazzo e faceva completare i muri di cinta del giardino.

Il 14 dicembre 1897 (da poco era stata completata la torretta di guardia fra il loculus e l'orfanotrofio) ha fatto fotografare da Maniglia gli stabilimenti nell’intera visuale. Verso le ore 15,00, il barone dal suo loculus vedeva il Maniglia col suo obiettivo nel giardino del marchese Cafisi attorno al castello e giusto quando il sole è venuto meno ha immortalato l'immagine (v. foto 2). Nel marzo 1899, come per gli anni precedenti, il barone ha invitato le orfanelle, per la mattina di S. Giuseppe a godersi dai suoi balconi in piazza, l’arrivo delle promesse dei voti, dei doni, la calata e mangiata dei santi. La superiora gli rispose negativamente. Era la prima volta che succedeva questo diniego ed il barone temette che sotto quel diniego gatta ci covava.

Un giorno il barone è passato dalla scuola che era aperta, ha visto le ragazze; la superiora ha taciuto ed è passata celere, per metterlo subito sull’uscio. Diceva il barone: "Io guardo le orfanelle come mie seconde figlie, io le amo davvero in Gesù Cristo, come mio prossimo; il loro stato infelice, le loro miserie mi commuovono: eppure il mondo calunnia". Il barone, allora, si mise in guardia e non visitò più con frequenza l’orfanotrofio. Da quando era arrivata suor Gennarina, tanto per non cadere nell’eccesso opposto, si limitò a vederle una volta al mese. Diceva il barone: "Le innocenti creature, nella loro ingenuità mi rimproverano appunto l’abbandono che io mostro; mi dicono: Come? Ella non si fa più vedere, ci ha dimenticate, non ci vuole bene più come prima!”. Io rispondevo: “No care mie, vi voglio bene lo stesso, anzi più, credetemi! Però non posso palesarvi la ragione del mio operare, ritenuto che ci sono motivi forti che non sono imputabili a voi. Sono sempre lo stesso, vi amo e vi amerò; infatti vedete che nelle festività, benché io mi astenga di visitarvi personalmente, vi mando il pranzo e provvedo ad altre necessità”.

Così andava il mondo - commentava nei suoi diari intimi il barone - Dappertutto si trova disseminato e sparso il dolore e il dispiacere. Anche sopra il prato fiorito della carità, di tanto in tanto passo rettili, che tentano di guastare o di avvelenare i fiorellini; poi fuggono e si disperdono. Ma la verità torna a galla e trionfa. Attraverso un periodo di disgusto, con la rassegnazione, col silenzio; ma deve passare. Dio si muoverà a misericordia verso la povera anima mia straziata da tante ambascerie morali. L’oppressione morale, derivante da questi fatti, accresce la mia melanconia, mi crea un groppo al cuore: voglio sempre piangere; mi crea insonnia la notte, mi guasta lo stomaco. Il vedermi separato dalle mie orfanelle mi procura torture indicibili, un dolore, un cruccio nero. Penso che, per lunghi mesi, forse, non varcherò le soglie di quella casa che io stesso ho eretto con tanto amore e dove ho racchiuso le seconde mie figlie. Le vedrò raramente quando usciranno a passeggio o per accompagnare qualche feretro. Già da un pezzo non vengono più condotte alla Piana per visitarmi. Nella mente della superiora è entrata la diffidenza, la paura. Mi crede qualche cosa di cattivo. Io non ho saputo scrivere nel mio diario le brutte parole con le quali volevo significare quel che io pensavo, che la superiora pensava di me. Quanto sono infelice! Sono condannato alla più terribile solitudine, alla privazione degli affetti, alla forzata comprensione del dolore e del pianto. Io solo mi vedo; io solo considero i miei patimenti; io solo mi compiango; io solo chiedo a Dio il suo aiuto e conforto.

Il 28 marzo 1899 la superiora Gennarina è andata in biblioteca per invitare il barone ad andare in orfanotrofio. Già essa aveva fatto parola a Carmine Airò della sua sorpresa o fatto non spiegabile a proposito della sua reticenza ad entrare dallo stabilimento. Essa non sapeva spiegarsi questo fatto o fingeva. Il barone ha detto che non poteva manifestare le sue ragioni e che si sarebbero sapute col tempo. Il suo cuore si faceva sempre più nero; non sapeva pensare o fare cosa alcuna. Si sentiva come un essere disgraziato, che girava e rigirava dentro se stesso e non trovava pace o posa.

Dopo una settimana la superiora ha invitato il barone a prendere il caffé già apparecchiato nell’orfanotrofio. Si guardava sempre dal nominare le orfanelle. In una materia così delicata il dubbio del dubbio rendeva il barone guardingo e riservato al massimo.

Il 13 maggio la superiora ha nuovamente visitato il barone in biblioteca ed ha portato con se due nuove orfanelle. Il barone (come dallo stesso scritto) sentiva emozioni delicate e soavi quando mi trovava in compagnia di queste piccole figlie dell’innocenza e della sventura; ma doveva starne privo. Anche il fato avverso lo colpiva in questa corda delicata e si rassegnava. Lasciava fare e restava dolente; ma allo stesso tempo sottomesso in uno stato indefinibile, di abbandono, di scoraggiamento, di vuoto nel cuore, di paura di sentirsi solo.

Il 10 giugno 1899 la superiora Gennarina ha invitato nell’orfanotrofio il barone, nel giorno del suo onomastico, perché le orfanelle volevano mostrare la loro gratitudine ed affezione, con un piccolo trattenimento in forma privatissima. Il barone ha dovuto tenere forte ed essere duro; ha risposto: “La ringrazio assai; la prego, per favore, non parlarmi di queste cose; non verrò mai, né ora, né in appresso; mi risparmi sofferenze, mi perdoni se sono così scompiacente ed agreste”.

L’8 luglio 1899 la superiora lo ha nuovamente invitato nella casina di Fontana degli Angeli di donna Momma, sorella del barone, per partecipare ad una scampagnata delle orfanelle; ha risposto che era cosa difficile.

Il 1 agosto 1899 il vescovo Lagumina ha visitato l’orfanotrofio. Le orfanelle hanno recitato una commovente chiacchierata. Facevano, s’intende, l’encomio al nuovo pastore diocesano ed un pochino hanno toccato il barone, piangendo commosse. Monsignore era impassibile, quasi annoiato e scherzerellava su tutto e non vedeva l'ora di andarsene. Suor Gennarina disse al barone: “Quanta differenza, come variano i tempi! Due anni fa mons. Blandini, ora mons. Lagumina”. Avanti alle altre suore non mi poteva dire di più; ma il barone ha compreso, ha pesato tutto il valore occulto di quelle parole, sgorgate dal suo petto.

Il 17 settembre finalmente ha visitato le orfanelle, le quali gli hanno fatto grata e festevole accoglienza.

Il 24 novembre, col bel sole e con l’aria tiepida, verso le 15,00 è andato nuovamente dalle orfanelle per visitarle de per fare la prima prova fotografica su di loro. Di fotografia aveva cominciato ad occuparmene già dal 1863, con metodi allora assai difficili.

Il 30 novembre 1899 il barone ha deciso di fabbricare sul dormitorio delle orfanelle un altro dormitorio superiore. Alla fine del mese di gennaio 1900 ha incaricato l’impresa ad Antonio Castronovo di preparare la pietra a S. Francesco per il nuovo dormitorio.

La domenica del 18 marzo 1900 le orfanelle sono ritornate in casa del barone Mendola per vedere la discesa dei santi. La verità sembrava trionfare. La superiora era rinsavita. Si erano dissipati i dubbi e le calunnie della maldicenza. Giorni prima il barone avevo fatto sentire alla superiora, indirettamente, che lui non invitava; ma che la mia casa e il mio cuore erano sempre disposti ad accogliere le orfanelle.

Il 5 aprile 1900 si sono cominciate le fabbriche del nuovo dormitorio, con Carmine Airò e per spaddaloro (mastro aiutante), suo cognato Peppe Lo Porto coi rispettivi manovali. Il cattivo tempo si avvicinava.

Il 26 aprile 1900 sono andato nell’orfanotrofio per vedere lo stato delle fabbriche ed il lavoro nel nuovo dormitorio. Le suore, e soprattutto le orfanelle, mi hanno fatto festa: una festa innocente. Ne ho ricavato sollievo per il mio povero spirito. Queste ore di diletto intimo mi ripagavano delle spese che avevo sostenuto. Era benedetto Iddio, che tra i guai che amareggiavano la mia vecchiezza, mi concedeva queste gioie somiglianti a gaudi di paradiso.

Il 20 maggio 1900 sono venuti mastro Giacomo La Russa con un parente di mastro Antonio Amico, pregandomi di fare entrare nell’orfanotrofio delle bocconiste la piccola delle due figlie di detto mastro Antonio, orfana di padre e di madre, sola, abbandonata, anzi, reietta da tutti.

Il caso muoveva a pietà, ma io non avevo forza di pagare le spese per l’accrescimento delle orfanelle sulle mie spalle che già erano 41, oltre le suore e il culto della chiesa.

Il 22 maggio, per la forte pioggia, un pezzo dell’orfanotrofio, che si è trovato scoperto, si è inumidito nel soffitto del sottostante dormitorio. Il tetto è stato tutto coperto e integolato.

Il 28 maggio sotto la pioggia si è coperto il corridoio di passaggio, che dalla scala del quarto delle suore, conduceva al nuovo dormitorio. Proprio la pioggia mi ha inquietato durante questa costruzione, nel coprire i tetti. Così avvenne, nel piccolo e grande corridoio e nel dormitorio.

Il 31 maggio 1900 la volta del piccolo corridoio era quasi finita e, nel frattempo, si è cominciata quella del grande corridoio.

Il 2 giugno, mentre l’asino e infingardo manovale Antonio Sajeva di mastro Delfio, scaricava sul ponte o palco del corridoio piccolo dell’orfanotrofio la gavita di calce, per intonacare i muri, non sapendo ben portarla e ben scaricarla, me la rovesciò addosso, giusto mentre io passavo sotto il ponte. Mi colpì la falda del cappello e mi riversò l’impasto addosso; sicché ci ho perduto il vestito nuovo d’inverno leggero fattomi a marzo dal mio sarto Albergamo. La calce l’ha fatto ingiallire e cangiar colore. Meno male che non ci ho rimesso il cranio.

Il 9 giugno risultava finito l’intonaco esterno della facciata del nuovo dormitorio e quasi un terzo dell’interno. Si sono levati i ponti esterni. Erano già collocate finestre, balcone e usci. Rimaneva la pavimentazione e l’altra mano d’intonaco anche nel corridoio e l’imbiancamento.

Il 12 giugno è stato cominciato l’ammattonamento.

Il 13 agosto si è iniziato l’allattamento o imbiancamento del tetto e delle pareti del corridoio e del dormitorio nuovo delle orfanelle, con calce della mia fornace, non avendo potuto averne altra buona da Sciacca.

Il 1 settembre si è finito di dipingere finestre ed usci nel nuovo dormitorio e corridoi dell’orfanotrofio.

Il 12 ottobre si sono alzati i ponti per collocare le palle sulle piccole cuspidi di campanile e pinnacoli in centro e in alto. La pietra cosiddetta di Ciccione ha fatto cattiva prova. In pochi anni si è logorata, ha crepato ed è caduta giù, producendo guasti ai tetti, ai muri e minacciando pericolo alle persone. È stata buona ventura che nessuno sia stato colpito dai frantumi.

I pinnacoli vecchi, già fiaccati e distrutti, erano stati scolpiti da Stefano Russello del fu Gaetano e messi al posto il 18 maggio 1889. Questa data era incisa sulla pietra della base, levata il 12 ottobre.

La mattina del 13 ottobre, alle ore 7, si alzarono nuvoloni da tutte le parti, maggiormente dal mare di mezzogiorno, che minacciavano tempesta. Alle 9 si ripresero i lavori e i manovali ripigliarono l’alzatura del ponte sui campanili della chiesa delle bocconiste. Alle 3 si riannuvolò nuovamente il cielo, ma poi schiarì. Il lunedì del 15 ottobre la giornata passò liscia, senza le temute piogge e tempeste. L’aria era fredda. Era il vero principio d’inverno. Si è collocato il pinnacolo del campanile dell’orologio e si è dato mano a scendere le travi del ponte per riaccomodare e alzare l’altro nel vicino campanile il giorno dopo. Il pinnacolo l’ho lasciato neutro, cioè col colore naturale del piombo, perché stava bene e in armonia con la croce, pure di piombo. Il 16 ottobre c’erano poche nuvole, ma l’aria era fredda e verso le 10 c’era un vento forte, che ha fatto scendere i muratori che accomodavano il ponte nel campanile delle campane e del calendario, perché a quell’altezza non si poteva resistere all’impeto del soffio. Il 19 ottobre finalmente si sono messi i pinnacoli e le palle e si è sceso il ponte.

Il 18 Ottobre 1900 ho visitato p. Mammana e abbiamo parlato del modo come organizzare alla meglio il futuro dell’orfanotrofio di Favara. Manifestai la mia intenzione di erigerlo in ente morale. Con i bocconisti non sapevo raccapezzarmi; volevano e disvolevano ogni momento. Un giorno si proponeva, anzi proponevano loro stessi un progetto e il giorno dopo ne vagheggiavano un altro.

P. Boscarino nel 1898 mi aveva fatto uscire dai gangheri, poiché, al momento stesso del mio consentimento ad una sua proposta, si smentiva, recedeva, metteva avanti altre difficoltà, altri progetti. P. Mammana invece voleva che io cedessi la casa di Favara al Comune, per evitare le tasse di successione e assegnassi una rendita affinché il Comune stesso curasse le orfane sotto il governo delle bocconiste, con tutte le clausole legali atte a mantenere la perfetta osservanza dello scopo. Se la cosa poteva essere attuabile, a me non dispiaceva questo sistema.

Nel mese di gennaio 1901 è venuto a Favara il superiore generale e non ha voluto che io perseguissi i procedimenti per ottenere l’entità morale, ma che cedessi al Comune di Favara i locali.

Il 20 gennaio sono andato dalle bocconiste per la celebrazione, a mie spese, delle 40 ore. Ho preso il liquore La Ville per la podagra e poi in carrozza sono andato nella chiesa delle bocconiste.

C’era un affollamento straordinario. C’erano tutti i francescani. Prima della predica, davanti la porta della chiesa, p. Alfonso ha benedetto il paese. Il sacramento stava di rimpetto a tutto il paese e questa benedizione, in un sito così eminente e santo, diventavava imponente e sublime.

Una lava di popolo gremiva il piano. Rientrato p. Alfonso ha poi benedetto le orfanelle, le suore ed anche il pio fondatore. Io, per naturale rossore, mi sono nascosto dietro un pilastro. Chi avrebbe potuto prevedere tutto questo? Quanto dovevo essere grato a Dio di essersi servito della mia povera persona per compiere questa santa opera e per vederla fiorire per come fioriva. Io non lo avrei sognato giammai. Erano miracoli, erano doni della Provvidenza.

Il 21 febbraio 1901 ho scritto una lettera al reverendo Mammana, superiore dei boccononisti, dicendo che non avevo parlato al sindaco per la cessione dei locali dell’orfanotrofio. Avevo una doppia ripugnanza, soprattutto perché il sindaco, nelle cose di beneficenza, non mi era mai stato favorevole, oltre a dubitare molto sulla legalità dell’atto e della sua curabilità. Io invecchiavo sempre più e dovevo pensare presto a sistemare l’avvenire dell’orfanotrofio. Ho pregato il reverendo Mammana, prima di dare corso alle trattative col sindaco di Favara, di consultare la faccenda con qualche bravo avvocato.

Il p. Mammana ha risposto alla mia lettera che, dopo le informazioni assunte, la via di legare l’Orfanotrofio all’Amministrazione di Favara non era percorribile.

Nel mese di aprile 1901 ho cominciato a soffrire i primi dispiaceri per atti poco corretti della superiora Gennarina.

Mandava continuamente da me i parenti delle orfanelle, che bussavano alle porte dell’orfanotrofio per entrarci. Il no lo faceva dire sempre a me. Poi, quando ad essa pareva e piaceva, faceva entrare le orfanelle. Ho inteso avere asilato la figlia della cosiddetta “Callararella”.

Padrona la superiora di fare ciò che voleva; ma non c’era nulla di male nel darmene notizia, sia per poter regolare i miei discorsi e le mie risposte alle domande di diverse persone, sia per conservare le forme di gratitudine, almeno apparentemente, verso me che ho edificato a spese mie l’istituto. Ma Iddio voleva darmi sempre questi piccoli contrattempi. Ho manifestato ai miei impiegati il mio risentimento; così, conversando loro con la superiora, glielo avrebbero fatto sapere. Quello che si sarebbe detto era che il torto stava dalla parte mia, che non seppi serbare concordia con la superiora Orsola e che non ho mutato stile con la superiora Gennarina; ma il tempo mi darà ragione.

Verso la fine di aprile Baldassare Airò ha palesato il mio risentimento alla superiora Gennarina per la mancanza di convenienza verso di me nel riceversi le orfanelle. Ha negato tutto. Bel modo di uscirsene. Ha detto che con me ha parlato sempre e più volte delle orfanelle candidate per l’entrata. Ciò era vero; però nell’atto di entrare o poco prima non mi diceva nulla, anzi, mi mandava le orfanelle dopo la loro entrata e dopo che i loro parenti si erano un poco dispiaciuti delle mie ostinate negazioni. Io non ricordavo nulla di tutto ciò che diceva la superiora, forse ero divenuto imbecille per la vecchiaia.

Il 4 maggio 1901 sono venute a trovarmi le due suore Arcangelina ed Eusebia. Abbiamo parlato delle sconvenienze usate dalla superiora Gennarina verso di me nell’atto di accogliere le orfanelle allo stabilimento. Abbiamo pure parlato dei fatti di Peppina Maniglia e della mia retta condotta. La superiora ha apprezzato male i fatti. Io parlavo con verità. Non era vero che io ho minacciato la Peppina di non sussidiarla per farsi suora e di sussidiarla solamente per andare a marito. Io l’ho sconsigliata a farsi suora, sia perché preferivo le buone madri di famiglia nel mio paese, sia perché volevo essere certo di una vocazione vera.

Il 13 giugno 1901, verso le 14,30 è venuta alla casina della Piana la superiora Gennarina, alcune suore e quasi tutte le orfanelle. Suor Felicita ha fatto cantare col pianoforte un coro ad meam gloriam. Prima tre e poi altre quattro orfanelle hanno recitato e mi hanno regalato mazzetti di fiori odorosi. Infine le orfanelle mi hanno presentato un bel cuscino da divano di seta bianca, con un tralcio di rose e altri fiori ricamati bene, con bei colori. Ho dovuto ringraziare tutti. Mi erano care le orfanelle; ma gli elogi sperticati del mio oramai vecchio corpo non mi andavano a genio e mi disturbavano.

Il 15 giugno 1901 hanno finito le fabbriche del corridoio e due camere dell’orfanotrofio, coprendone i tetti, riadattando le canalate di zinco e intonacando i muri esterni di calce. Rimaneva da fare un pò d’intonacatura.

Il 17 giugno fui chiamato dalla superiora Gennarina e trovai lo scultore Calogero Cardella34 da Girgenti. Lo incaricai di abbozzare una statuetta dell’Immacolata per poi convenire al prezzo di una statua riprodotta in grande da mettere nell’altare maggiore della chiesa delle bocconiste35.

La sera del 15 luglio 1901, zoppicando, sono andato a passeggio fino all’aia. È venuta la superiora con le orfanelle. Era disturbata e piena di dispiaceri per la ingratitudine, la superbia e la cattiva maniera di come la trattavano le orfanelle, le quali, già cresciute, all’età di marito, vedendo già maritate le loro compagne Assuntina Butticè e Peppina Maniglia, erano piene di desiderio di mettersi al pari loro. Ho fatto loro un piccolo sermone di rimprovero, con invito ad essere dolci e grate, a mostrarsi come figlie buone e obbedienti verso la superiora, che era la loro madre adottiva, che le curava e le amava da vera madre. Si sono mortificate o indispettite e, partendo, non mi hanno nemmeno salutato.

La superiora mi diceva, altresì, che la mafia era penetrata e radiata dentro il cuore delle orfanelle. Se una faceva una mancanza non era possibile che l’altra lo svelasse. C’era il silenzio più profondo e rigoroso. Soffrivano qualsiasi castigo, ma in silenzio.

Il 7 settembre 1901 sono stati ripresi i lavori del corridoio e annesse stanze dell’orfanotrofio.

Nel mese di settembre 1901, nel n. 219 del giornale Il sole del mezzogiorno, c’era un articolo troppo laudativo per l’orfanotrofio e per me.

Quanto suono di tromba attorno alle opere di beneficenza; nientemeno mi mettevano alla pari col vescovo. La beneficenza doveva stare raccolta, modesta, inosservata. I colpi di grancassa le facevano male. L’articolo si riferiva alla festicciola celebrata nell’orfanotrofio il 31 agosto, in occasione del compleanno del vescovo.

Nella prima metà di settembre alcuni giornali hanno pubblicato estese corrispondenze spronandomi a prevedere la dotazione e sistemazione dell’orfanotrofio.

In un saggio pubblicato nel n. 34 de Il Cittadino di Girgenti del 15 settembre 1901, si diceva che, versando il Boccone del povero in tristi condizioni, come non si era trovato mai, si era costituito un comitato per raccogliere qualche somma per le misere orfanelle. Si sollecitava tutto il paese, per sfamare le povere orfanelle, a cooperare tutti assieme “al benefico e generoso fondatore l’illustre barone Mendola ...”

Ecco gli zuccherini adulatori e bugiardi imbottiti di veleno. Ci voleva proprio la penna del corrispondente Lutid (così si qualificava) per salvare l’istituto e per ricondurre all’adempimento del proprio dovere l’illustre benefico fondatore barone Mendola.

Io non mi sono quasi mai dati pensieri delle lodi e dei biasimi; agivo per Dio e per doveri civili. Ma, arrivati a tal punto, non potevo provare altro che tutto il disgusto, il dispiacere, il malessere, che la calunnia e la menzogna poteva produrre.

Ne Il Giornale di Sicilia, n. 257, 13-14 settembre 1901, in una corrispondenza di Favara si parlava e si deplorava la misera condizione in cui versava il nostro orfanotrofio. Si parlava anche di un comitato provvisorio per una passeggiata di beneficenza. Che l’orfanotrofio andava a degradarsi era vero, non era novità. In tutto questo ci vedevo l’intenzione di nuocermi e denigrarmi.

Tutta questa carità improvvisa mi pareva pelosa; era fatta per denigrarmi, per mostrare che io avevo quasi abbandonato le infelici recluse.

L’orfanotrofio non doveva cadere. Già da tempo avevo in mente di dotarlo con testamento. Fatte le giuste riflessioni e tenuto conto dei miei interessi, non conveniva erigerlo in ente morale. Dovevo preparare il regolamento e provvedere alla dote di lire 6.000 all’anno; il tutto da eseguirsi dopo la mia morte. A me, vivente, non conveniva pagare circa 20.000 lire per tassa sul valore del fabbricato della rendita. Dio avrebbe accordato maggiore prosperità al pio istituto. Io li lasciavo dire e fare, non mi curavo di nulla, ero avvezzo ai dispiaceri.

I componenti del comitato provvisorio erano ottime persone e miei amici. Essi agivano in buona fede e credevano farmi un favore. Non si accorgevano che Caramanno, cognato del Valenti, non era in buona fede. Egli più volte in pubblico aveva manifestato l’inopportunità della mia opera e lo spostamento delle orfanelle raccolte. Dubitavo pure di Pietro Vasta che, se somigliava al padre, doveva essere un vaso di Pandora. La guerra sorda e triste contro di me continuava sempre. Avversavano le opere buone, le istituzioni utili al paese, per nuocere alla mia persona.

Oramai in Favara mancava l’amor di patria, la religione e il culto della scienza. Cresceva una gioventù presuntuosa e nulla.

I miei nemici, con alla testa il dr. Valenti e suoi, stavano dietro ai vetri a guardare, imponendosi amici, usando un linguaggio non solamente blando ma elogiativo, per sorprendere, così, le persone di buona fede. In mezzo, agli encomi e agli aggettivi di lode apatica, essi frammettevano sempre quei benedetti “ma”, “l’orfanotrofio è un ottimo istituto, il migliore che abbiamo in Favara, ma le orfanelle soffrono troppo, muoiono di fame. Sarebbe bene soccorrerle e aiutarle. Mettiamo su un comitato di beneficenza”. Con questa trovata hanno avuto l’agio di strombazzare ai quattro venti e nei molti giornali, a mio danno, la sanzionante (come si diceva) notizia calunniosa e imbellettata di miele che io, il pio fondatore, volevo imitare Saturno, che mangiava i propri figli, cioè che io abbia abbandonato insanamente l’opera mia, la figlia mia, condannando alla fame le orfanelle.

Subito dopo la pubblicazione di questi articoli faziosi mi sono recato dalla superiora Gennarina. Ho letto a lei i diversi giornali diffamatori e ho detto: “È vero che l’orfanotrofio versa attualmente in condizioni come non si è visto mai dacché esiste? È vero che le orfanelle periscono di fame? Ella sola conosce i veri bisogni dell’istituto. Ha ella manifestato questi lagni a qualche componente del comitato per la passeggiata di beneficenza? Perché non l’ha detto prima a me? Io non farei morire di fame le orfanelle!”.

La superiora è cascata dalle nuvole. Aveva essa con sorpresa e dispiacere letto la corrispondenza e ne aveva rilevato gli eccessi. Mi ha assicurato non esser vero che l’istituto versasse nelle tristi condizioni espresse dai giornali e non essere vera la fame delle orfanelle. Bastava vederle per accorgersi del contrario; che erano sane, belle e grasse. Ha detto che le bocconiste stavano sempre alle prese con urgenti bisogni, che accoglievano quasi sempre orfanelle in numero maggiore di quello previsto. Ma gli eccessi manifestati nei giornali erano esagerati e calunniosi. L’opera del comitato era santa e cadeva opportuna, perché l’orfanotrofio necessitava di tante cose.

Con lettera del 15 settembre, il comitato mi notificava che, da provvisorio, si era tramutato in definitivo e mi invitava ad intervenire e far parte di esso comitato e, per dar prova di solidarietà, ad una solenne adunanza, che doveva avere luogo nella casa di Miccichè il 29 settembre alle ore 4 p. m. La lettera concludeva col solito frasario massonico: “Nutriamo fiducia che la V. S. vorrà facilitare il compito nostro, onorandoci del suo valido appoggio”.

Io ero deciso a non dare nulla del mio, per confonderlo nella raccolta delle oblazioni che si ricavavano dalla passeggiata di beneficenza. La parte materiale la facevo da me, versando io direttamente, come avevo già fatto, le mie elargizioni nelle mani della superiora.

Il 19 settembre ho scritto una lettera alla superiora, per avere una risposta scritta, da portare al comitato, per sbugiardare le calunniose eccessive notizie apparse sui giornali, col finto e pietoso pretesto di aiutare le orfanelle, ma col fine vero e reale di mettere in cattiva mostra la mia condotta. Sopportavo queste contrarietà con rassegnazione e fidavo in Dio, fonte di verità e di giustizia, che col tempo saprà mostrare le cose e i fatti, quali effettivamente erano.

Lo stesso giorno la superiora Gennarina e suor Felicita sono venute alla Piana, per dirmi che non si poteva dare risposta alla mia lettera, senza prima informare il superiore generale, poiché probabilmente sarebbe stata consegnata alla stampa. Abbiamo discusso a lungo la cosa. Ho dimostrato la necessità della mia difesa e che avrei usato ogni mezzo, per dimostrare la verità che doveva uscire fuori. Ho soggiunto alla superiora che poteva far leggere l’articolo de Il Cittadino di Girgenti e la mia lettera al Gabriele Dulcetta presidente del comitato, che stimavo giovane buono e, se lo riteneva giusto, correggere e fare dichiarazione nello stesso giornale per salvare il mio.

Il 21 settembre l’articolo fu scritto da un ragazzo chierico, forse il figlio di Valenti.

Intanto ho sospeso ogni operazione con la superiora.

Il 29 settembre è arrivato il n. 36 de Il Cittadino di Girgenti del 29 settembre che, con mia soddisfazione, chiariva il senso dell’articolo precedente. Un altro articolo più esplicito in mio favore veniva pubblicato nello stesso giornale, nel n. 38 del 13 ottobre 1901. La questione venne chiarita definitivamente e l’equivoco dissipato nel n. 39 del 29 settembre.

Nei primi di novembre si dovevano imbiancare ancora i muri, si doveva mettere un’altra finestra nel corridoio, la ferrata nel gran balcone del corridoio, i cristalli che non erano pochi, un nuovo cesso per il quarto superiore. Si è fatto un condotto sotterraneo per versare le acque lorde delle pile invece che in giardino, dentro un’antica cava di pietra sotterranea, colmata di sterri, che poteva ricevere acqua, quanta se ne voleva. Lo scolo dell’acqua nel giardino, pienissimo, ristagnava e rendeva insalubre l’aria, molle e fangoso il suolo. La spesa è stata forte e la superiora chiedeva cose nuove.

Il 10 novembre il carro di beneficenza ha fatto la sua prima giornata percorrendo molta parte del paese. Era uno dei carretti comuni e forse quello di Dulcetta. Era parato tutto come un padiglione, come una casetta con tetto e pareti, tutta vestita, o forse composta, di ramoscelli di alberi sempre verdi, di mirti, carrubi ed altro. Era accompagnato da molti gentiluomini, maestri e popolo, don Gabriele Dulcetta e altri civili, il prof. Darò, il nuovo provinciale dei frati minori Vincenzo Bongiorno con altri religiosi, il sac. Pirrera, mastro Michele Lentini di Antonio “Cenzu russu”, un tenente delle truppe: insomma la rappresentanza di tutti i ceti.

Con zelo il comitato promuoveva, chiedeva e quasi estorceva il dono, l’obolo per le povere orfanelle. Era la prima volta che, in una colletta di beneficenza, tutti i ceti erano rappresentati. Mi ha recato sorpresa e piacere l’intervento dei frati minori. Essi, mendicanti come le bocconiste, solevano contendersi la pubblica carità ed in questo esercizio si erano sempre guardati in cagnesco.

Verso le 4 p. m. i componenti e agenti del comitato di beneficenza sono saliti in casa mia per salutare e ringraziare il fondatore e benefattore dell’orfanotrofio. Mi hanno detto tante belle parole. Dulcetta mi diceva che la colletta era venuta meno alle loro aspettative e non era corrispondente alle forze del nostro paese. Si erano raccolte circa 700 lire e diverso genere di roba. La banda musicale accompagnava il carro, rendendo più pomposo e festevole il cammino e aiutandone lo scopo. Dio rendeva mercede al Dulcetta ed agli altri cooperatori di tanta buona opera.

Un migliaio di lire in quel momento era una vera manna dal cielo per le orfanelle, per una una comunità di più di 60 persone.

Molti del popolo lodavano la pia opera; molti altri borbottavano e si lagnavano. Alcuni hanno chiuso gli usci, si sono tappati e nascosti in casa al passare del carro. Molte porte furono fortemente percosse e fatte aprire a forza. Alcuni, a ragione, non hanno condiviso questo modo d’agire ed io ero d’accordo con loro. La carità deve essere spontanea o almeno non violentata. La carità estorta si denatura, non è più carità, ma atto amaro e odioso per chi viene costretto a farla.

Il 17 novembre la superiora mi ha detto che, in solo denaro, erano state raccolte 1.119 lire circa.

Il 24 novembre, alle 3 p. m. sono andato all’orfanotrofio in carrozza, per l’invito datomi dalla superiora, al fine di assistere ad un trattenimento che le orfanelle offrivano al pubblico di Favara e, segnatamente, a coloro che si erano affaccendati per la buona riuscita della passeggiata di beneficenza. Il trattenimento fu grazioso ed ha destato meraviglia nel vedere la pazienza straordinaria delle bambine.

Un tenente pianista, molto avanti nella musica, ha lodato il fare delle fanciulle, che cantavano intonate, senza saper musica e senza studio di carte. La gente era poca, pochi preti, gli ufficiali e pochi civili. Dei Dulcetta c’era solo Gabriele e poi una ciurmaglia di ragazzi.

Il 19 dicembre si è realizzata la muratura della latrina del piano superiore dell’orfanotrofio. Oltre al cesso ho visto che i muratori hanno accomodato il fumaiolo girevole sulla canna fumaria della cucina, che rappresentava un gatto intagliato in grezza latta.

Il 10 febbraio 1902 le orfanelle, mentre andavano a passeggio all’Itria, mi hanno avvistato, mi sono corse incontro e mi hanno augurato il buon Carnevale, ringraziandomi del pranzo che avevo fatto apparecchiare loro per Carnevale.

Quando meno me lo aspettavo, il 19 marzo 1902, le orfanelle sono venute in casa mia, con la superiora Gennarina con altre suore, compreso le due novelle: Colomba e Felicita. Suor Felicita ha suonato discretamente il pianoforte. Tutti gli anni, dacché fu aperto l’orfanotrofio, ho avuto il costume d’invitare le orfanelle nei miei balconi per godersi la festa di S. Giuseppe ed ho loro apparecchiato qualche refezione in dolci, frutta secca, vino o rosolio.

Nel 1901 la superiora Gennarina non accolse l’invito e fece fallire per la prima volta la lunga consuetudine.

Nel 1902 non mi è convenuto rifare l’invito. Spontaneamente è venuta la superiora con le orfanelle; ma non potei offrire nulla a loro perché la loro venuta era inaspettata, ma anche perché dopo il fatto del 1901, non mi pareva opportuno mostrarmi troppo caldo e cortese.

Le orfanelle sono ritornate il 29 marzo con la superiora ed altre suore ad augurarmi la buona Pasqua.

Il giorno 7 settembre 1902 le orfanelle sono venute con le suore alla Piana, per invitarmi ad assistere, all’indomani, alla messa cantata, per commemorare il decimo anniversario dell’apertura al pubblico servigio del mio orfanotrofio. Molte mi dicevano: “Sono già 9 anni che io ci vivo dentro e mi pare ieri”.

Nel 1898 non si festeggiò per nulla l’apertura. La superiora Gennarina era a Sciacca ed io seriamente ammalato.

Nel 1899 mandai un piccolo pranzo alle orfanelle. Avrei dovuto darne un altro nel 1902 come decennale ricordo; ma la mia malattia mi ha distratto dal pensarci.

Ogni anno la memoria, il ricordo dell’apertura dell’orfanotrofio si affievoliva. Io ringraziavo Iddio che mi aveva fatto vedere e compire il primo decennio di caritatevole esercizio delle orfanelle.

Il 2 maggio 1903 Il presidente dell’Assise di Girgenti, il regio procuratore, il cancelliere, giurati, etc, venuti in Favara per un sopralluogo sul luogo dove avvenne l’assassinio di Calogero Sorce, per la causa di Diego Vitello, alle 5 p. m. sono venuti a visitare l’orfanotrofio e la biblioteca. Mi hanno colmato di lodi e di buone parole. Dai forestieri riscutevo conforto, dai paesani oltraggi.

Raccontai i principali aneddoti che sembravano incredibili: l’affare dell’osservatorio meteorologico, dell’asilo infantile, dell’ospedale e dicevo al presidente, in faccia all’avv. Vullo, cognato del sindaco ed al Carbone suo adepto: “Contradditemi se potete. Io parlo perché ci siete voi, altrimenti tacerei, temendo di non essere creduto, tanto sono inverosimili e barbari gli aneddoti”.

Alle 4 del mattino del venerdì 8 maggio 1903 è spirata suor Felicita. Era la prima volta che una suora bocconista moriva nell’orfanotrofio di Favara. Nella comunità è stato un lutto, un pianto sincero, vivissimo. Suor Felicita era una perla; insegnava nelle scuole elementari alle orfanelle secondo i programmi didattici governativi, insegnava ricamo di ogni maniera, in biancheria, in applicazione pittoresca, in lana, in seta, in oro. Insegnava musica e canto ed era valente suonatrice. Insegnava la rappresentazione e recitazione teatrale, era dotata di molta saggezza e perspicacia e bene sapeva consigliare ed aiutare la superiora. Il popolo sentiva anch’esso il lutto e il dispiacere come lo sentivo io.

Suor Felicita ha lasciato un gran vuoto nell’orfanotrofio. Si sono preparate le pompe funebri per esaltare tanta virtù prematuramente spenta. Pare fosse stata assalita da meningite.

Mancava la neve. La neve mancò altresì per i poveri fratturati delle miniere. La Campana del popolo se ne dolse. Il sindaco fece orecchio da mercante e lasciò gli ammalati di un paese di 20 e più mila abitanti senza questo necessario mezzo di cura. Se la neve era pronta forse suor Felicita si sarebbe salvata. Sono venute due carrozze con le sorelle e con le cantatrici di Girgenti per celebrare la messa in musica di requiem.

Alle 3,30 sono scese in piazza poche persone a due gruppi, nel primo 6 orfanelle vestite di angiolette, portavano una grande corona mortuaria. A breve intervallo seguirono le altre orfanelle in abito dimesso, di giornata, come manifestazione di lutto e di dolore e piangenti ed indi la cassa mortuaria. Tutto era mesto, modestissimo, come si addiceva a poverissimi, senza banda, senza carro mortuario. Alle 4 si mossero dalla piazza i gonfaloni del circolo cattolico della Fratellanza, della Maestranza, della Lega di Difesa e Camera del Lavoro per accompagnare il feretro, che ebbe concesso dal municipio il carro mortuario di 1 classe e banda musicale in gran tenuta.

Sei orfanelle angiolelle con ali e veli variopinti e ingramagliati di nero scortavano il carro. Altre grandi corone mortuarie erano vicinissime al carro. Un vero colpo d’occhio, un miracolo di carità e di buon esempio.

Ci fu un gran concorso di popolo dalla madrice al cimitero. Erano passati poco prima i francescani terziari e i frati minori con la croce. Pure il gonfalone della Cassa Rurale e le figlie di Maria. Il sindaco e il paese resero veramente grandi onoranze a questa vergine morta a 32 anni, fior di vita religiosa e civile. Il sac. Antonio Giudice ne commemorò la vita e le virtù nella chiesa delle bocconiste. Il municipio ha accordato il posto nel cimitero monumentale (di Piana Traversa).

Alle 4,30 è passato il corteo imponentissimo, con immenso popolo, che si avviava nel luogo di riposo che non ha fine. Un’orda immensa di popolo commosso e piangente in omaggio alle virtù della povera caduta avanti tempo. Per rendere più solenne il fatto, dalla madrice i nove gonfaloni scesero per la strada Albergamo - S. Onofrio, traversarono la piazza, risalirono la madrice e per la strada detta nuova o V. Emanuele, processionalmente, marciarono per il camposanto vecchio. Precedeva un gruppo di orfanelle con grandi corone mortuarie. Seguivano le altre orfanelle, poi le figlie di Maria con donna Gesuela Giudice in gonne celesti, poi i francescani.

Quanto tributo di affetto reso ad una povera monachella! Onorava chi lo rendeva e colei che lo riceveva.

La prima suora del boccone del povero che moriva in Favara era nata in Palermo. Orfanella a 6 anni d’entrambi i genitori, entrò nelle bocconiste, si professò e si spense santamente lavorando in Favara a 32 anni. Marrone regalò 125 lire per la carrozza di gran gala. Il sindaco 150 lire per la banda musicale, oltre alle spese per entrata nel camposanto. Don Angelo Avenia era pronto a pagare le tasse del camposanto, se il sindaco non avesse accordato franchigia. Mastro Giacomo La Russa ed altri mi hanno detto che c’è stato vero lutto, vera commozione, vero pianto nel popolo.

L’orologiaro Onofrio Tuttolomondo lesse il discorso sulla salma dell’umile suora appena deposta sul suolo del cimitero, al cospetto di un’orda immensa di popolo piangente. Non credevo che questa pietosa cerimonia dovesse essere così solenne, così commovente.

Nel corteo vidi anche il dr. Antonio Valenti e figlio.

Il 19 luglio 1903 le orfanelle sono venute a trovarmi in villa Piana. Non essendo io al casino mi hanno seguito fino all’aia. La loro compagnia piena di vita, di brio, di spensieratezza, di cinguettio di voci e di risate ha scosso il mio letargo malinconico. Ho inteso il palpito esuberante della vita. Vedere quella ingenuità, quella specie d’innocenza nelle piccoline, mi ha infuso un senso di piacevolezza, di soddisfazione interiore e morale, che non so dipingere a parole. Queste seconde figlie nella carità hanno confortato ed un poco esilarato la mia depressa vecchiaia.

Io per un pò di tempo non sono andato più a vedere le orfanelle. Non sapevo più quello che facevano.

Eravamo al 7 settembre 1903, vigilia dell’undicesimo anniversario dell’apertura al pubblico servizio del mio orfanotrofio ed io ringraziavo Iddio, che mi aveva fatto godere del mio orfanotrofio, introducendomi nel secondo decennio.

La sera del 9 settembre ho visitato le orfanelle. Non si sono presentate tutte. Fu una visita formale, fredda. Non parlavamo. Non sapevo che dire. Le nuove orfanelle, circa un quarto, non le conoscevo neppure. Le cose sono mutate, da quando mi sono dovuto allontanare da esse.

Il 17 novembre mi hanno visitato le orfanelle (non tutte, circa la metà) in villa Piana, accompagnate dalla superiora.

La sera del 31 ottobre 1903 si è posto fine ai lavori di riattazione e riparazione dei muri a secco o bastioni nella terra di S. Francesco.

Il 30 dicembre 1903, alle ore 3,30, sono venute le orfanelle a visitarmi. Non erano tutte, ma circa la metà e tre suore. La superiora, timorosa di cadere ammalata, non è venuta. Mi hanno dato buoni auguri. Ma che buoni auguri, nello stato di malattia e di vecchiaia dov’ero! Io aspettavo solamente la morte. Tutto mi era di peso. Guardavo tutto con indifferenza. Vedevo fermato il mio tempo, non avevo più scopi, né ragione di vivere più oltre.

Il 7 maggio 1904 sono venuti Giacomo La Russa e Bellavia detto “Fedele” con una fanciullona seminuda e mezza macilenta, detta Gaetana Sanfilippo del fu Gaetano, orfanella abbandonata, scalza, nuda e cruda, che viveva alla ventura.

In vista di questa creatura molti benevoli si erano cooperati a raccogliere il corredo, anzi più, circa 500 lire per entrare nel mio orfanotrofio. Volevano il mio assenso. Ho detto: “Non uno, ma ve ne do mille. Da parte mia sempre approvo e vi lodo della pia cooperazione a favore di una creatura così disgraziata. Però non dipende da me. Il pubblico non lo crede, ma io dico la verità”.

Giacomo La Russa mi ha detto: “Siamo già andati dalla superiora Gennarina, la quale ha accettato la nostra domanda ed ha promesso che l’orfanella Sanfilippo prenderà parte, appena sarà uscita un’altra orfana, in vista di maritarsi fra breve”.

Ma cosa potevo fare? Ho detto che pochi anni prima, in un caso identico, dovetti ripetere la stessa canzone a Ciccio Spadaro.

Il 2 giugno 1904, giorno del Corpus Domini, ho visitato le orfanelle. Ho trovato novità. L’antico parlatoio è stato trasportato nella casa di rimpetto a sinistra di chi entra, destinata a portineria e la stanza grande da lavoro è stata montata a bella stanza da ricevere insieme all’antico dormitoio. L’infermeria è stata rimessa dov’era stata destinata da principio, con quattro letti in ferro, con pulizia ed una certa eleganza. Ho portato alla superiora il libro con la mia biografia da cavaliere del lavoro. Tutte le orfanelle stavano bene. Faceva piacere a vederle.

Il 13 giugno 1904 le orfanelle, dopo che anni addietro avevo mostrato dispiacere per le lodi del mio compleanno e onomastico, non si sono fatte vedere. Tutto era silenzio e indifferenza attorno a me.

Il 26 luglio 1904 è venuta in casa mia Carmela Cordaro che già era stata mia serva, con la figlia sua Checchina Airò Farulla, sortita il giorno prima dall’Orfanotrofio. La ragazza voleva farsi ad ogni costo suora bocconista, non voleva uscire dall’orfanotrofio. La madre voleva maritarla. Io avevo già prescelto lo sposo, un bravo giovane detto “Santagatuzzo”, calzolaio.

Ho detto a Checchina, che si mostrava ostinata nella sua risoluzione, di monacarsi: “Il primo tuo dovere, secondo i comandi di Dio è ubbidire e onorare il padre e la madre. La tua madre ti vuole in casa e tu per ora devi seguirla. Non si può affermare come vera la tua vocazione religiosa. Sei troppo giovane, esci da un ambiente speciale, monachizzato e monachizzante. Mettiti un poco nel mondo, nella famiglia, prova gli stati differenti. Se è vera vocazione, se persisti, dopo questi esperimenti non dubitare, tua madre ti farà suora ed io te lo prometto”.

Essa ha risposto di conoscere il suo dovere verso la madre, ma che il dovere verso Dio era ancora più rispettabile e imperioso. Ad una ragazza in questo stato come mettere accanto la suocera?

Il 29 luglio la Checchina ha voluto rientrare in convento. Pareva ormai decisa la sua monacazione.

L’8 settembre 1904 ricadeva un giorno per me memorabile; si compivano 12 anni da quando era stato aperto il mio orfanotrofio e due anni da quando è mancato ai viventi mio fratello.

Un misto di piacevoli e spiacevoli ricordi. Io, più passava il tempo e più divenivo meno sensibile. Il tempo mi afferrava per i capelli e mi trascinava con una velocità vertiginosa verso la fine della vita. Mi sentivo quasi separato dal mondo; perdevo la sensibilità, scemavano le speranze, le reminiscenze; vedevo quasi confusi il passato e il presente. Non frequentavo più come prima l’orfanotrofio. Il mio cuore, per questo materiale allontanamento, non ricavava più quei diletti, quei conforti di prima. Ero assai vecchio, tutto mi infastidiva, ero sordo e, quando parlavo e non intendevo, mi pareva che tutti, anche le orfanelle si burlassero di me. La superiora Gennarina con le sue trascuranze e sconvenienze di forme sociali, ha contribuito pure a questo penoso distacco tra me e le orfanelle. Molte di esse, oramai erano grandette e bellocce ed a me conveniva, attesa la infame maldicenza dei favaresi, tirarmi indietro.

Le orfanelle con la superiora sono venute a trovarmi alla Piana verso le 5,30 del 22 dicembre 1904 ad augurarmi il buon Natale e Capodanno. Mi hanno insistentemente invitato, come gli altri anni, alla festa che esse facevano la sera in casa e la notte in chiesa per la notte di Natale.

Ho ripetuto a loro che era ben difficile, per non dire impossibile, che io potessi accettare il loro invito.

Il 20 gennaio 1905 quattro ragazze sono state imputate di aver guardato, dalle finestre dei balconi del quarto superiore dove abitavano, la faccia di certi monachelli nel vicino convento dei frati minori. Le mamme di Sajeva. Lombardo, Maniglia ieri sera dopo le minacce e le invettive della superiora Gennarina, che aveva fatto il giro completo delle case e poi era venuta da me, andarono all’orfanotrofio per riprendere le proprie figlie.

Ci fu una scena straziante. Piangevano assieme alle loro compagne. Un pianto generale, una commozione generale, resa più sensibile dal sesso e dell’età quasi infantile. Finalmente, anche dopo il pianto delle stesse suore, la superiora perdonò le ree. Esse, prostrate ai piedi di lei, abbattute per un giorno di digiuno e di dolore facevano pietà. La superiora alzò le mani e sospese le misure severe. Più sentivo queste cose e più censuravo la superiora; perché questo rimbombo per una piccola cosa? Il vero chiasso, il vero scandalo l’ha fatto lei.

L’1 marzo 1905 la superiora Gennarina è venuta a darmi la buona novella che il padre generale ha mandato una bella statua di gesso alta m. 1,70 dell’Immacolata fatta a Milano, che è costata 250 lire benché in gesso, ed un servizio di candelabri da chiesa di legno rivestito di una patina di rame, fabbricato a Malta.

Il 23 marzo 1905 p. Bongiorno mi ha scritto una raccomandazione per un’orfanella sua parente. Con vergogna e dispiacere ho dovuto dirgli che non dipendeva da me asilarla nell’orfanotrofio. La superiora era gelosissima della prerogativa di scegliere le orfanelle. Il mio nome, la mia raccomandazione sarebbe stata d’ostacolo.

L’1 aprile 1905, verso le 4, dopo pranzo, studenti e professori sono venuti a visitare prima la biblioteca e poi l’orfanotrofio e le orfanelle che più non riconoscevo. Le piccine si erano fatte grandicelle e si erano trasformate, cosicché non mi riusciva facile ravvisarle. Le nuove asilate non le conoscevo affatto. Carmelina e Tina Lombardo, del fu Giovanni, si erano fatte due belle ragazze ed erano così vive e frementi di giovinezza e di voluttà, che faceva paura vederle rinchiuse in un orfanotrofio come usignoli in gabbia.

Ho visto la nuova statua di gesso dipinta, venuta da Milano e mi è piaciuta. Ci trovavo solo il collo un poco lungo. Ho visto i nuovi candelieri modellati, con ornamenti di bello effetto. Ho visto pure una bella pala d’altare sopra un fondo di seta e foglia bianca ad unico pezzo, ricamata a fiori a colore, col calice in mezzo e la simbolica spiga di frumento e grappolo di uva in oro. L’ostia sovrapposta al calice in argento e due angeli in adorazione.

Il 2 luglio la superiora mi ha detto che erano state consacrate a Dio, nella pia Congregazione dei bocconisti: Chiarina Butticè (suor Battistina), Peppina Maniglia del fu falegname mastro Peppino (suor Lina), Giovannina Lo Brutto (suor Angelina), Maddalena Torricelli (suor Marianna).

Il 13 agosto 1905 ho avuto un momento di dispiacere.

Da anni avevo fatto piantare ai lati della chiesetta dell’orfanotrofio due cipressi che erano già abbastanza cresciuti. Dovevano rendere più pittoresca e più gradita la vista dell’orfanotrofio dal paese.

Le suore, barbaramente e scioccamente, li hanno denudati. Hanno lasciato due fusti brutti con fiocchetti più brutti ancora in testa. Ignoravano che le conifere, e segnatamente i cipressi, tagliati e potati, non potevano più rimettere fogliame e rimanevano eternamente tosati.

Io facevo e le suore disfacevano. Ci voleva una spesa per estirpare i tronconi già resi inutili e le radici e ripiantare nuovi cipressi e quel che era più ci voleva, poi, molto tempo a crescere.

Questi fatti mi dispiacevano, mi scoraggiavano dal fare ornamenti all’orfanotrofio. Ne ho fatto un forte risentimento alla superiora Gennarina, la quale si è scusata dicendo che il danno era stato fatto da un villano all’insaputa delle suore, che volle entrare in quella specie di giardinetto con le rose per zapparlo e credette di fare opera buona nel rimondare gli alberi; ma io non credevo alla superiora.

Il 23 dicembre 1905, verso le 3 p. m., mi sono ritirato dalla villa Piana a casa in Favara perché minacciato dalla gotta al ginocchio. Appena in casa, sono venute le orfanelle, la superiora ed altre suore per darmi le felicitazioni per il Natale e Capodanno. Erano tutte allegre, vispe, gioconde, come incoscienti del loro stato. La giovinezza e la salute usciva loro da tutti i pori. Una vita rigogliosa e di buon umore, un contrapposto troppo amaro con la mia cadente età, alla vecchiezza troppo avanzata. Le ho ringraziate ed ho ricambiato le felicitazioni. Ho detto: “Godete voi che siete stelle nascenti. Io sono un astro tramontato”.

Il 26 dicembre 1905 mi riferirono che la lesione del muro di oriente rispondente nel sesto acuto della finestra dell’ordine bastardo e discendente sino alla sottostante porticina, che dalla chiesa immetteva nel corridoio per dove le orfanelle frequentavano la chiesa, andava lentamente allargandosi. Il pericolo imminente non esisteva, ma poteva venire nel futuro. Il male veniva dalle fondazioni, in questo punto poggiate sopra molle e cattivo terreno. C’era poi da far cadere una piccola cornice cadente nell’arco centrale, che divideva la chiesa dall’abside o cappellone.

L’orfanotrofio mi dava da fare e da spendere, era un tarlo continuo.

Le suore erano pretenziose. C’era ancora da rinnovare e restaurare gran parte della facciata dell’orfanotrofio ed asilo, segnatamente nelle iscrizioni in pietra e negli emblemi o simboli del sole di carità e di giustizia. Erano in pietra o gesso fissati con ferri. La ruggine aveva fiaccato i materiali e li aveva sgretolati. Da decenni ho avuto il pensiero di questo lavoro ma un pò per una cosa, un pò per un’altra, sono stato impedito dal farli.

Un altro gravissimo pericolo minacciava il tetto della chiesa. Le grandi travi che io, con forte dispendio, secondo il consiglio di mastro Antonio Lentini, avevo fatto tagliare dai boschi sull’Etna e con immense difficoltà ho fatto trasportare in Favara, non so per quale cagione sono tutte infradicite. Il colore di cui erano dipinte all’esterno nascondeva il vizio e il danno interno.

Il 10 gennaio 1906, verso le 3 con mia figlia, che era in Favara, abbiamo visitato la superiora e le orfanelle. Ho tenuto ragionamento con la superiora delle voci, che correvano intorno al comitato pro Calabria, che con lire 1.500 voleva asilare tre orfanelle calabresi vittime del terremoto. Secondo il mio parere non conveniva accettarle. Per il solo corredo bisognavano circa 400 lire, con le altre 1.000 lire non si poteva compensare la retta di un biennio.

C’era nel paese una corrente favorevole alle piccole calabresi. Il Comune non aveva mai favorito l’orfanotrofio e i signori ricchi di Favara avevano fatto ben poco e viveva soprattutto delle sole sovvenzioni mie e di mia sorella e del poco che raccoglieva nel popolo. Il sindaco Giglia, che era la negazione del bene, è venuto il 23 gennaio 1906, per parlarmi delle orfanelle calabresi, che il comitato pro Calabria voleva asilare nel nostro orfanotrofio, offrendo un vantaggio per le povere calabresi e per le bocconiste (quale?).

Me ne sono tosto spicciato, dicendo: “Non ho nulla da fare con le bocconiste. Non vado più nell’orfanotrofio. Ci entro appena due volte l’anno. Ella conferisca con la superiora. Ciò che essa farà sarà ben fatto da parte mia. Se ne è andato mogio mogio”.

Credeva forse che io avrei dovuto accogliere entusiasticamente la sua proposta e ringraziarlo. La mia inaspettata freddezza e indifferenza forse lo ha colpito.

Nei primi di febbraio 1906, nello scrivere il mio testamento ho dovuto vedere le grandi difficoltà, che mi si paravano davanti, per dotare di una rendita l’orfanotrofio. Anni addietro avevo dato l’incarico all’avv. Ciccio Bennardo per portare avanti le procedure; ma, dopo due anni, non aveva fatto ancora nulla. Io mi scoraggiai. Le tasse e le spese erano enormi; io volevo risparmiarmele e volevo risparmiarle successivamente anche a mia figlia. Ho chiesto a Ciccio Scaduto di fare uno studio preventivo sulla questione, con la promessa di 200 lire in premio, oltre le spese documentarie. Egli aveva accettato, ma senza il pagamento delle 200 lire. Fare gratis il lavoro non potevo permetterlo.

La sera del 31 maggio 1906 sono andato nell’orfanotrofio per visitare p. Mammana, da poco venuto in Favara, ma non l’ho trovato. Le orfanelle mi hanno fatto molta festa; ma io dovevo tenermi riservato. Mi hanno invitato a visitarle spesso e intervenire giorno 13 nell’orfanotrofio per la festicciola del mio onomastico. Mi sono negato. Ho detto, scherzando, che il mio santo non voleva. Prontamente, a coro, hanno risposto: “Che vanità! Noi vogliamo semplicemente mostrarle la nostra gratitudine, il nostro affetto”. Io ho replicato: “Il santo non vuole. Ci vede vanità da parte mia, non da parte vostra. L’affetto e la gratitudine devono stare nel cuore ed io, per crederci, non ho bisogno di festicciole”.

Il 12 giugno 1906, alle 2,30, quando meno me lo aspettavo, le orfanelle sono venute alla Piana con la superiora e le suore. Mi hanno offerto un quadro ricamato. Hanno suonato un inno di felicitazioni sul mio pianoforte della Piana. Hanno recitato poche poesie. Io soffrivo nel sentire queste lodi vanitose, ma dovevo subirle.

L’orfanotrofio andava benissimo. Le orfanelle da 42 erano salite a 52. Dopo attento esame, dopo aver consultato valenti avvocati, ho disposto tutto col mio testamento.

Mi sono messo d’accordo con mia figlia per la costituzione in Ente Morale della Pia Opera Barone Mendola dopo la nostra morte. Ho assegnato 6 mila lire annue e un fondo di accrescimento perenne intangibile di 10 mila lire e lire 500 di frutti da impiegarsi e reimpiegarsi tutti gli anni, con un accrescimento ogni 16 o 17 anni di un patrimonio ordinario di lire 500 annue. Ogni volta che le lire 500, fondo intangibile, piglieranno altre 500 lire annue, esse 500 lire si distaccheranno, per così dire, dalla madre ed andranno ad impinguare la rendita attiva della pia opera.

Il 21 ottobre 1906 le orfanelle, passando per una loro passeggiata davanti il portone della Piana ed avendomi visto mentre scendevo dalla stradella della carretteria, scortato dalla superiora Gennarina, della di lei sorella e da altre suore, sono venute a vedermi.

Io non capivo perché non provavo più per queste povere orfanelle quelle dolci emozioni di prima. Ci siamo allontanati e distaccati. Non conoscevo più nessuna delle piccine delle nuove ricoverate. La superiora non mi diceva nulla su chi usciva ed entrava nell’orfanotrofio.

A poco a poco sono diventato un perfetto estraneo. Come sono mutati i tempi! Anche la vecchiezza mi ha fatto più pigro e meno sensibile. La superiora però era sempre insistente a chiedermi la soddisfazione dei bisogni dell’orfanotrofio. Voleva riacconciati i tetti, voleva riparato un muro nel grande dormitorio di sopra dicendo di essere spaccato in modo da entrarci il sole e via via altre cose.

L’orfanotrofio, ossia le orfanelle, non erano più fisse nel mio cuore come lo erano nel primo decennio. Colpa delle suore. In generale, i preti, a cominciare dai vescovi, e le monache, da un certo tempo, figuravano male nella mia testa: i fatti di suor Orsola, la condotta del p. generale Mammana e poi del p. Boscarino, gli scandali di padre Fleres, le imprecazioni, i duelli o cattivi sospetti contro la mia persona, nutriti e significati da suor Gennarina e della fu suor Felicita a proposito della sortita di Peppina Maniglia sorella di Tanuzza; la condotta fredda e il trattamento sconveniente della stessa Gennarina nel ricevere e licenziare le orfanelle mi hanno reso scettico, diffidente e quasi ombroso verso l’esercito nero maschile e femminile della chiesa.

Il 26 ottobre 1906 Calogero Caramazza figlio di Giuseppe Garibaldi il vecchio, ha alzato il ponte sui campanili dell’orfanotrofio per assodare e rendere saldi i pinnacoli di legno foderati di piombo, che si sono staccati alla base.

Questi pinnacoli furono messi al loro posto da Carmelo Airò, ma non ha saputo rinsaldarli bene, non ha saputo valutare la forza dei venti e delle bufere, tanto che la muratura dove il pinnacolo si manteneva sul culmine del campanile era guasta, quasi distrutta e perciò il pinnacolo barcollava e ondeggiava. Un’asta di ferro attraversava i pinnacoli, in tutta la sua lunghezza, per renderli più saldi; scendeva per la cima del campanile giù verso l’interno, attraversava la voltina del campanile dov’erano collocate le campane e s’impernava al centro di una croce di ferro, che s’innestava nel telaio quadrato, che circondava appunto la testa dei campanili.

C’erano difficoltà gravissime a perforare le volte dei campanili, ad estrarre l’asta verticale e dislocarla dalla crociera. Questi campanili mi davano molto filo da torcere.

È venuto Vincenzo Amico e mi ha detto che, avendo esaminato con più attenzione e accuratezza le cose, ha trovato che le aste di ferro, ossia armature, erano abbastanza conservate bene e solide, erano solamente frantumate le pietre di Ciccione, che formavano il culmine dei campanili e le basi dei pinnacoli. La pietra di Ciccione era fragilissima; bisogna supplirla col calcare compatto. Si doveva avere cura d’impeciare il ferro e rivestirlo di una placca di piombo e indi murarle in gesso e pietra compatta. Anche le basi delle palle ai quattro angoli erano di pietra di Ciccione. È stato collocato e messo a punto il primo pinnacolo sul campanile a destra di chi guardava la facciata della chiesa, bene impeciato e rivestito poi di lamina di piombo e ben murato in gesso e pietra calcarea.

Il 31 ottobre, dopo pranzo è stato finito il primo campanile. Il 7 novembre si è messa l’ultima palla, con pericolo dei manovali, nel primo campanile. Si è acconciato il secondo e si è collocato pure il pinnacolo. Si poterono terminare i campanili e disfare i ponti la sera del 9 novembre. Il 19 novembre mastro Calogero Caramazza di Giuseppe Garibaldi il vecchio, con due manovali innalzò il ponte da terra sino all’orologio della torre campanile dell’orfanotrofio, per aggiustare il quadrante, abbassatosi da un pezzo, e quindi disadatto a funzionare. All’indomani ci sono saliti Vincenzo Amico e Onofrio Tuttolomondo ed hanno eseguito diverse riparazioni.

Il 30 novembre 1906 si è finito di piazzare il quadrante dell’orologio nel campanile della chiesa dell’orfanotrofio. A sera ho saputo che, per una distrazione di Onofrio Tuttolomondo, che dimenticò una piastra da fare a casa, non si è potuto finire di piazzare il quadrante.

La sera del 23 dicembre 1906 è venuta a visitarmi la superiora Gennarina Durante con suor Catalda. Con le orfanelle non passava più l’antica confidenza e cordialità; non c’era più lo scambio di affetti innocenti e soavi. Nella mia melanconia, nella mia desolazione interna del cuore, sino a qualche anno prima trovavo conforto nel rivedere le orfanelle, nel conversare con loro, nell’adattarmi alla loro infantile ingenuità e semplicità e mi pioveva un balsamo dolce a sanare le piaghe e le afflizioni morali. Quel filo che ci teneva avvinti, si è spezzato; si è dissipata quell’attrazione di flusso magnetico che avvicinava il ferro alla calamita.

Il 22 marzo 1907 ho fatto ripiantare due cipressi ai due lati della chiesa dell’orfanotrofio e il 26 novembre nuovamente.

Il 14 aprile 1907 ho mandato i muratori Calogero Caramazza Bertinello e Calogero Alletti Sajeva sul tetto del dormitorio superiore delle orfanelle, per indagare sulle cause che hanno reso bagnato e ammuffito l’intero muro di mezzogiorno. Ho mandato pure altri mastri. Ciascuno doveva fare la sua relazione o diagnosi della malattia del fabbricato, separatamente l’uno dall’altro.

Il 19 maggio 1907 non ho potuto penetrare nei mezzi tetti, cioè tra il tetto e la volta per esaminare da vicino i guasti e il perché l’acqua piovana invece di andare fuori, penetrava e moriva dentro i muri, perché Carmelo Airò non ha lasciato nella fabbricazione, una porticina, un buco qualunque per entrare sotto i tetti. Ho deciso di farne aprire una apposta.

Nel pomeriggio del 24 dicembre 1907 sono venute a casa mia le orfanelle del boccone del povero con la superiora e molte suore per farmi le buone feste. Delle grandicelle, che io conoscevo per averle viste crescere e quasi allevate, ne ho viste assai poche; quasi tutte erano piccine e novelle.

Io da circa tre anni non ho frequentavo più l’orfanotrofio. Ho dovuto distaccarmene per una specie di trascuranza in cui la superiora mi ha tenuto, oltre che per non dare neppure un lontano pretesto alla maldicenza, che era smisuratamente cresciuta.

Non avendo più l’antica familiarità e dimestichezza con le orfanelle, non sentivo più quelle dolci emozioni che provavo prima, quando le vedevo spessissimo scherzare intorno a me, come tante mie seconde figliolette. I tempi sono mutati. L’età, la debolezza delle mente mi hanno distratto dall’orfanotrofio. Sono rimasti integri i rapporti d’interesse e di tutela nei confronti delle orfanelle, ma quasi estinti quelli dei reciproci affetti. Il cuore mi si è inaridito. Non ho raccolto più il balsamo soave della carità. Le orfanelle non mi hanno più fatto l’effetto di figlie, ma di estranee.

Come gli altri anni, le suore hanno celebrato la notte di Natale con le orfanelle, vegliando, giocando, ridendo e poi passando in chiesa a fare la solita nascita con le solite statue di carne, con otto orfanelle che questa volta scelsero fra le grandicelle come più resistenti, vestite da angiolette, che offrivano vari doni al nuovo nato di Betlemme. Il cielo era sereno sebbene c’era un poco freddo. La luna, poco prima della mezzanotte, splendeva argenteamente chiara. Ci fu gran concorso di popolo.

Quando pensavo al passato mi veniva da piangere. Morto il figlio, morta la collezione ampelografica, rubatimi tutti i materiali scientifici da quel briccone di Peppino Caruso; inutilizzato e quasi perduto il Popularis sapientiae Loculus; reso per me quasi arido ed estraneo l’orfanotrofio. Solo, desolato, oltraggiato ingratamente con la stampa da persone, cui ho piuttosto fatto del bene, tra dolori morali e melanconie.

Nel Natale 1907 non ho avvertivo nulla, nessun ricordo, nessuna reminiscenza delle cose di Natale di quando io ero bambino. Ero preso da una perfetta apatia. Vegetavo e non pensavo.

A sera mi assaliva una profonda melanconia. Mi vedevo solissimo, vecchio e cadente tra quattro muri. Tutto era silenzio irreale per difetto del mio udito quasi perduto. Tutti gioivano, tutti godevano. I bambini non mancavano nelle famiglie e ne formavano la delizia. Le bettole erano piene. Vino e capponi, carte da gioco e dolci mettevano un tripudio eccezionale. Io solo gemevo nell’isolamento, con una gramaglia nera che mi levava la luce, mi impediva ogni gioia e mi prostrava l’anima e il corpo.

Scrivevo senza sapere ciò che scrivevo.

La notte di Natale 1907, con l’anima distrutta e in silenzio, ho mangiato una forchettata di broccolo lesso ed una piccola linguata in umido e poi sono andato a letto contristato.

Ho letto al solito e poi ho preso sonno, ma da infermo, voltandomi e rivoltandomi tra le lenzuola, sempre con la mente piena di sogni strani e penosi. Mi sono più volte risvegliato. Nonostante la mia sordità ho inteso voci e rumori di passi affrettati e cinguettii di bambini per la piazza e per le strade. Un continuo chiamarsi e richiamarsi, una festevolezza insolita, una vita vibrante di gioia. Nella notte silente tutti gioivano: io solo piangevo e mi addoloravo.

Nel silenzio pensavo a mio padre, mia madre, mio fratello Andrea, mio figlio, i miei più cari amici che non c’erano più, che ormai popolavano il regno dei morti e pareva mi dicessero col loro mutismo: “Fra poco ci raggiungerai”.

 

 

Chiesa S. Antonio da Padova e convento dei frati Minori francescani

 

Facciata della chiesa S. Antonio da Padova e convento dei ffr. minori francescani

 

Navata della chiesa di S. Antonio da Padova

 

Chiostro del convento dei frr. minori francescani

 

Statua lignea di S. francesco

 

Statua lignea di S. Antonio da Padova

 

 

L'impianto cinquecentesco

 

I frati minori conventuali sono venuti a Favara nel 1530 ed hanno utilizzato come prima dimora i locali del convento del Carmine, anticamente dedicato a S. Antonio da Padova e poi all'Annunziata. Nel 1574 hanno abbandonato il convento e ne hanno utilizzato un altro, sotto il titolo di S. Antonio Abbate sul ridente pianoro della collina che ha preso il nome del fraticello d'Assisi. Il precedente convento venne occupato dai frati Carmelitani.

Siamo agli albori dello sviluppo urbano di Favara, quando il primo nucleo, sorto ai piedi del castello, fra le vie del Transito e S. Nicolò contava meno di cinquecento anime.

La presenza del piccolo convento sull'omonima collina ha foraggiato la formazione di un primo nucleo abitativo di piccole case terrane, con sviluppo verso la vallata, in direzione nord. Il destino di questo borgo purtroppo non è stato prospero, dato che il Comune nei periodi epidemici, ha utilizzato, prima le cripte della chiesa di S. Antonio da Padova e poi il terreno retrostante l'antico convento, come luogo per la sepoltura dei morti appestati e colerosi.

Risulta utile ricordare che tra il 1624 e 1625, la comunità favarese venne devastata dalla peste bubbonica e per evitare il contagio i morti vennero seppelliti nei terreni a sud-est dell'antico convento francescano. Il complesso architettonico era situato nell'estremità nord-est dell'attuale piazzale retrostante il convento e vi si accedeva dal paese mediante una stradina larga sei palmi che, principiando ad est del vallone, nei pressi dell'attuale piazza Libertà, si inerpicava fino a raggiungere un ampio pianoro sulla collina, da dove si biforcava, da una parte per arrivare, mediante una scalinata, al sagrato della chiesa, dall'altra parte, incuneandosi tra il muro meridionale dell'orfanotrofio e la parete del muro settentrionale della chiesa e costeggiando il convento proseguiva verso le terre che nella prima metà del 1600 avevano ospitato le spoglie dei poveri estinti di peste bubbonica.

L'imponente chiesa aveva lo stesso orientamento di quella attuale, con la facciata principale rivolta verso il paese; aveva dimensioni interne di canne 5x9,2 (mt. 10,30x19,00) con l'area presbiteriale e absidale di forma quadrangolare. Il convento si trovava ad oriente rispetto alla chiesa e, come si evince dai riveli del 1838 in quel periodo risultava abitato dai ff. francescani e comprendeva tre cellette e due sale, di cui una al piano terra, adibita a stalla, e l'altra al piano superiore, compreso un piccolo catoio. 

Col passare degli anni il convento ha subito degli alti e bassi; i forti miasmi che scaturivano dai cadaveri mal sepolti ammorbavano l'aria e più volte i frati erano costretti a lasciare la sacra dimora. Anche le famiglie che da anni abitavano il piccolo borgo, nel tempo, sono stati costretti a trasferirsi all'interno dell'abitato. Verso la fine del 1700 il villaggio era già in rovina. 

Nel 1802 convento e chiesa furono abbandonati dai frati del tempo ed i locali furono riutilizzati da alcuni eremiti fino al 1837, periodo in cui anche questi l'abbandonarono a causa del lezzo dei cadaveri mal sepolti.

Nel 1837, a seguito dell'epidemia di colera, la chiesa di S. Francesco era stata scelta come unico luogo per la sepoltura dei cadaveri e le cripte si erano talmente riempite, al punto da non poterne più ospitare, tanto che i corpi degli estinti rimasero insepolti sul pavimento del sacro edificio, con possibile nocumento per la salute pubblica.

Nel 1842, dietro richiesta sindacale, l'intendente approvava alcuni interventi urgenti bisognevoli nelle sepolture del campo santo provvisorio di S. Francesco.

Nei riveli del 1843 veniva annotato, per semplice memoria, la chiesa, la sacrestia di tre pezzi ed un cimiterio di un mondello.

Sul lato meridionale si trovava il giardino contornato da muri in pietrame alti palmi 8, con una grande cisterna interrata per l'approvvigionamento idrico, successivamente utilizzata come fossa comune.

Nel 1846 si riuniva la Decuria per discutere sui provvedimenti da adottare per condurre ad uno stato dignitoso il cimitero provvisorio di S. Francesco, meglio evidenziato nel verbale come tomba informe stracolma di cadaveri e per i quali la gente invocava maggiore rispetto.

Nel 1854 venivano concordati alcuni acconci e ripari da eseguire nella chiesa di S. Francesco e giardino adiacente.

In questo periodo il locale di S. Francesco rimaneva abbandonato per mancanza di sepolture, non venivano eseguiti i tanto discussi lavori ed i cadaveri continuavano ad essere seppelliti nelle altre chiese.

Nel 1856 si riuniva il Decurionato per deliberare sulle condizioni di appalto per il restauro della chiesa S. Francesco da destinare a campo santo. Il Consiglio d'Intendenza, visto il progetto dell'ing. Gravanti per la realizzazione del cimitero sulla collina di S. Francesco e l'inglobamento della stessa nell'impianto cimiteriale, vista la decurionale che limitava il progetto al restauro e consolidamento della sola chiesa, alla realizzazione della piattaforma per l'attraversamento del vallone e sistemazione del tratto di strada che conduceva alla chiesa, dava il proprio parere positivo.

Con la comparsa del colera, nel dicembre 1866, si riproponeva nuovamente il problema delle sepolture nella chiesa di S. Francesco.

Nella prima metà del 1800 i francescani abbandonavano definitivamente il convento e la struttura, nel corso di qualche decennio diveniva un rudere, anzi, secondo quanto scritto in una delibera del 1890: un ammasso di luride rovine in contrasto con i decorosi stabilimenti ivi sorti (opera pia del b.ne Antonio Mendola e nuovo complesso conventuale).

Nel 1999 al centro della piazza retrostante l'attuale convento di S. Francesco (oggi piazza d'Armi) si apriva una piccola voragine del diametro di circa un metro che preludeva all'imboccatura della cisterna contenente i resti umani degli sventurati morti di colera del 1837.

 

 

L'impianto ottocentesco

 

Effetti sicuramente negativi sul convento dovette avere la nefasta legge del 1866, con cui si abolirono, in Italia, gli ordini religiosi. In detto periodo i frati venivano cacciati dalle loro celle ed i beni appartenenti ai conventi venivano confiscati.

Come in altri luoghi, vegliava la provvidenza sulla Val Mazzara, che sin dal 1212 aveva accolto generosamente i figli di S. Francesco. Quanto tutto sembrava fatalmente distrutto, un uomo che, scorgendo fra le ceneri del distrutto convento cinquecentesco una favilla, la raccolse religiosamente e, soffiandoci sopra, riaccese il sacro fuoco francescano in Sicilia. 

L'origine del nuovo convento nella terra dei morti trae origine dalle predicazioni in Favara del frate Ignazio Fleres da Villafranca Sicula, sulle missioni in favore dei luoghi santi di Palestina. Il clero, la nobiltà e la borghesia del Comune, plaudendo l'opera dello zelante francescano, chiedevano l'edificazione di un nuovo edificio religioso.

L'impresa fu assai ardua, data la ristrettezza dei tempi, ma grande era la fiducia che frate Fleres riponeva su S. Francesco. Fu una gara di carità che si destò nel popolo di Favara, uomini e donne, ricchi e poveri, grandi e piccoli concorsero con il lavoro e con generose elemosine alla nuova costruzione, ma soprattutto religiosissime cospicue famiglie favaresi.

Fu uno spettacolo indicibile il giorno 8 maggio 1886, quando il vescovo di Girgenti mons. Gaetano Blandini, circondato da oltre trenta frati minori e da un popolo festante, con il rito solenne della chiesa benediceva la prima pietra del nuovo edificio religioso dedicato al taumaturgo padovano e gettava nelle viscere della terra un astuccio di piombo con all'interno una pergamena, affinché nei tempi remoti potesse testimoniare ai posteri l'avvenimento.

Questa comunità che, nell'arco di qualche mese, contava venticinque religiosi, poté celebrare la ricorrenza del settimo centenario della nascita di S. Francesco, con grande entusiasmo del popolo. Quel luogo può definirsi la culla della rinascita della provincia di Val di Mazzara, da cui, dietro il luminoso esempio di frate Fleres, partì la gagliarda spinta che ha ricostituito gli ordini religiosi in Sicilia.

Nel convento di Favara l'ingegnere Achille Viola eseguì gratuitamente la direzione di alcune riforme delle fabbriche del convento, facendovi costruire un grande scalone ed il campanile nella nuova chiesa. La presenza di Achille Viola in quel periodo è giustificata dal fatto che stava dirigendo i lavori per la costruzione della nuova chiesa madre.

Corsero appena sei anni ed il francescano edificio costituito dal grazioso convento e dalla bianca chiesa furono completati. La chiesa era ad unica navata, con presbiterio, pareti interne imbiancate a calce, prive di decorazioni e pavimento con mattoni di terracotta. Stipiti, archi, paraste e capitelli sono stati realizzati con pietra calcarea intagliata.

Nel 1889 il Consiglio comunale, su sollecito del barone Antonio Mendola, disponeva la realizzazione della strada di collegamento del piano S. Francesco con la zona dell'Itria (attuale via beneficenza Mendola).

Tra i mesi di aprile e luglio 1891 il Comune faceva esumare i resti mortali sulla collina S. Francesco e, di concerto col guardiano del convento, ne disponeva la collocazione nella cripta costruita sotto la navata della chiesa S. Antonio, afferente il convento.

Nel 1899 veniva inaugurata la statua dell'Immacolata nell'altare maggiore, pregevole lavoro dello scultore Genovese, nella cappella appositamente costruita sotto la direzione dell'ing. Giuseppe Alfuso.

Nel 1896 il convento veniva scelto per il noviziato della Provincia di Val di Mazzara sotto il titolo dell'Immacolata Concezione.

Nel 1906 veniva inaugurato il secondo piano del convento, fabbricato per le solerti premure del rev. frate Innocenzo Bumbalo, maestro dei novizi. Il convento veniva ad assicurarsi una capienza tale da contenere una ventina di novizi o chierici studenti, oltre l'aula scolastica, la cappella del seminario e le stanze per i due maestri. Il noviziato veniva trasferito dal primo al secondo piano.

Nel 1908 veniva costruito il grande coro in legno di noce.

Nel 1910 venivano costruite le mura di cinta del secondo appezzamento di terra aderente alla parte occidentale della chiesa. Il terreno vacuo è stato trasformato in giardino ed al suo interno è stato realizzato un recipiente per l'approvvigionamento idrico.

Con l'entrata dell'Italia nel conflitto bellico scoppiato negli ultimi di luglio 1914, cominciava per il convento una fase di decadenza. In convento cominciava a sentirsi la carestia della pasta e dello zucchero. Per il pane non si è sofferto perché c'era frumento a sufficienza in convento. In questo periodo la struttura raccoglieva diversi profughi.

Gli anni del dopo guerra furono, per certi versi, angustiati per il lavorio di ricostruzione nelle parti interne e per tre furti di mule perpetrati a danno dei frati questuanti mentre attraversavano le campagne.

Nel 1921veniva portata in solenne processione dalla chiesa del convento alla chiesa madre, la statua di S. Francesco, che veniva collocata sull'altare maggiore addobbato a festa, con paranze di fiori e ceri in abbondanza e, nel vasto tempio si svolsero delle solenni feste. Durante le cerimonie veniva invitato il prof. Gaspare Ambrosini che improvvisava un eloquente discorso, incitando allo studio dei nostri “Grandi”, come guida, per il sollevamento e l'educazione della gran massa di popoli. Nella chiesa del convento venivano benedette due nuove campane.

Intanto il convento passava di dominio della Terra Santa e veniva dichiarato collegio internazionale.

Dopo reiterate rapine, per opera di ignoti malfattori, perpetrate a danno del convento, il rev. frate provinciale trasferiva il noviziato da Favara nel convento di S. Maria di Gesù di Cammarata.

Nel 1925 veniva inaugurato l'impianto elettrico e di illuminazione della chiesa del convento. I lavori venivano eseguiti per carità, da alcuni giovani favaresi devoti e benefattori del convento.

Nel 1925 si iniziava per il convento di Favara un nuovo periodo di attività francescana. Tra messe ed altre iniziative di circostanza, si esibiva la Schola Cantorum del locale oratorio festivo mons. Giudice. Veniva realizzata una balaustrata in marmo tra la nave ed il presbiterio della chiesa.

Nel 1926 veniva celebrato solennemente il settimo centenario della morte del serafico fraticello di Assisi, eseguendo puntualmente e con entusiasmo il programma formulato da un apposito comitato cittadino.

Nel 1928 si spegneva il rev. frate Innocenzo Bumbalo, padre benemerito del convento e del paese di Favara dove è vissuto per 31 anni.

Dall'idea del frate Guardiano Vincenzo Sacheli, nei mesi di ottobre, novembre e dicembre 1930 la chiesa veniva sottoposta a diversi lavori che hanno totalmente trasformato il nudo aspetto originario, conferendo una nuova veste, senza esagerazione, carnevalesca. Nel 1931 veniva riaperta al culto.

Nel 1933, in occasione della festa di S. Elisabetta, patrona delle terziarie francescane, è stato inaugurato nella chiesa, il nuovo tabernacolo d'oro, con l'obolo del popolo favarese;

Nel 1935 venivano realizzati gli prospetti esterni del complesso architettonico conventuale, a cura di maestranze palermitane.

Nel 1937 venivano spedite ad Armando Marinelli di Agnone due campane rotte per essere fuse. Le due campane nuove arrivavano in convento nel mese di dicembre.

L'altare maggiore presentava un evidente difetto: le colonne mancavano di basi e la costruzione sovrapposta a detto altare lo rendeva tozzo e pesante. Il superiore del convento ha voluto far correggere tale manchevolezza e con la decorazione della cappella ha restituito alla chiesa ed alla collettività una vera opera d'arte. I lavori iniziarono nel mese di febbraio 1939 sotto la guida dell'ing. Giacomo La Russa. L'operaio Antonio Pullara ha avuto il compito di demolire l'ingombrante sovrastruttura con avvedutezza. A lui seguì l'operaio Matteo Vetro che rivestì le nuove basi delle colonne. L'altare ed il tabernacolo presero così, una elegante proporzione.

Nel mese di novembre l'abile decoratore Diego Bonsangue da Canicattì, coadiuvato dai due giovani Giuseppe Romeo e Giorgio Fedele, in circa poco più di un mese eseguirono il lavoro. L'artista ha cercato di intonare i colori a quelli preesistenti della chiesa. Ha decorato in oro i fiori, festoni e cornici. Le colonne che imitano perfettamente il marmo policromo, fanno risaltare fortemente la costruzione.

Col trattato di Versailles (1919) pareva che le guerre dovessero cessare dal funestare l'umanità, invece, proprio quel trattato è stato come un cattivo seme, dal quale sono germogliate tutte le discordie che da allora hanno travagliato l'Europa.

La causa prossima di quest'ultima fatale guerra, alla quale la comunità ha assistito, risale alla questione tra la Germania e la Polonia per Danzica e la questione del cosiddetto “corridoio”. La Polonia, fatta forte delle garanzie della Francia e dell'Inghilterra, si irrigidì in un rifiuto categorico, ma in meno di un mese fu stravolta dalle armi tedesche ed occupata in parte dalla Russia (settembre 1939). Allora la Francia e l'Inghilterra dichiararono guerra alla Germania. Nel 1940 interveniva anche l'Italia alleata della Germania ed i nostri soldati combatterono prima sul fronte occidentale nella battaglia delle Alpi e successivamente hanno occupato la Somalia inglese.

Nella seconda metà di gennaio 1941 o per gelo o per mano imperita si scopriva che la campana grande aveva una lesione, con sommo dispiacere da parte di tutti. Data la mole siè preferito aspettare la fine della guerra per staccarla dal ceppo e portarla alla fusione.

Nel 1943 veniva data ospitalità al convento ad alcuni ufficiali militari e successivamente a 75 militari di truppa e specialisti meccanici. Il mese di luglio è stato un periodo memorabile per la Sicilia per l'ingresso dei soldati americani. La sera del giorno 9 il popolo favarese rimase fortemente impressionato dal frequente e prolungato lancio di razzi luminosi che illuminavano e si spegnevano con ritmo incessante nel cielo d'oriente rispetto al paese, facendo preludere a qualcosa di grosso. Come si è saputo nei giorni seguenti, si è trattato di uno sbarco in grande stile da parte dei militari americani. Il 14 luglio entrarono anche a Favara ed il popolo, stanco di una guerra cruenta, lunga e disastrosa, li accolse serenamente e compiaciuto.

Il 30 novembre 1945 il convento ospitava duecento soldati della Centauro che tenevano l'officina mobile pesante attrezzatissima nella piazza d'Armi, accanto al convento. Aerei nemici, pur avvistando l'officina, fortunatamente, non hanno sganciato bombe.

Il frate guardiano del tempo Francesco Gaetano di Alcamo, ha voluto arricchire la chiesa di quattro altari marmorei. Uno di questi, quello dedicato a S. Francesco, è stato un dono di Giuseppe Bosco.

Nel 1949 una porzione di cornice d'angolo a nord-est del campanile si staccava e cadeva sul tetto della chiesa, vicino al coro, con danni solamente al tegolato.

Il 15 gennaio 1969, alle ore 2,53 della notte, una prima violenta scossa di terremoto sconvolgeva la zona occidentale della Sicilia, da Palermo ad Agrigento. Il triangolo Palermo-Trapani-Agrigento sussultava violentemente con danni ingenti e molte vittime. Dalle prime notizie si apprese che i movimenti tellurici avevano distrutto interi paesi, seppellendo fra le rovine, centinaia di persone sorprese nel sonno. Il giorno successivo, alle ore 5,45 il frate del convento Pacifico Nicosia da Canicattì partiva per la zona disastrata di Montevago, portando con se le apparecchiature ricetrasmittenti. A causa dell'intenso traffico riusciva a raggiungere la zona solo verso le 12,00. La stazione trasmittente rimaneva in funzione fino alla sera del giorno 19, dando e ricevendo notizie in tutto il mondo.

Nel mese di luglio 1976 padre Pacifico, a seguito di decreto della Corte Costituzionale che liberalizzava l'uso della radio, unitamente ad un gruppo di amici, dava vita all'emittente Radio Favara 101, ancora oggi funzionante, la cui prima emissione avveniva il giorno 16, con pochi mezzi di fortuna, bassissima potenza irradiante, ma con tantissimo entusiasmo. Nella metà di dicembre si cominciava a potenziare la parte tecnica della Radio.

Nel mese di giugno 1980 la cooperativa R. F. 101, espressione culturale dell'attività della Radio esordiva nel locali del seminario minore vescovile di Favara con la prima commedia “U baruni”, del favarese Giuseppe Casà.

Nel mese di maggio 1982 un gruppo di giovani facenti parte di R. F. 101 davano vita al gruppo folklorico "Città di Favara” che riunivano circa cinquanta fra ragazzi e ragazze.

In questo periodo il tetto della chiesa manifestava segni di fatiscenza, con continue infiltrazioni di acqua meteorica. L'imminenza del periodo delle piogge costringeva i frati ad intervenire urgentemente.

Nel 1988 si dava inizio all'abbattimento di un vecchio salone esistente sul confine est della zona limitrofa a nord della chiesa, oltre i muri di cinta perimetrali, per far posto a quello che poi è stato la “sala teatro S. Francesco”. La sala teatro veniva utilizzata per la prima volta il 21 aprile 1989, ma l'inaugurazione ufficiale avveniva il 25 aprile.

Nella notte del 6 ottobre 1997, intorno alle ore 4,00 una bufera si abbatteva su Favara danneggiando parzialmente il manto di copertura, con notevoli infiltrazioni d'acqua. Il giorno 10 successivo, nella tarda mattinata cedeva la testa meridionale della capriata ovest della navata, già compromessa dai tarli, cadendo sulla volta e tranciandola. Nell'arco di 24 ore un'altra testa della capriata centrale della chiesa cedeva e con la caduta veniva tranciata un'altra porzione della volta ed alcuni fogli di faesite dipinta si staccavano.

Tra il 1998 e 1999 il convento veniva sottoposto a lavori di ristrutturazione.

Tra il 2002 e 2003 la chiesa veniva sottoposta ad un radicale restauro e, per l'occasione venivano eliminate le raggianti pitture murali e della volta e le pareti venivano finite a calce, mentre la pavimentazione in marmo veniva sostituita con altra di mattoni in cotto.

 

 

Chiesa di S. Lucia e collegio di Maria

 

Prospetto principale del collegio di Maria e chiesa S. Lucia di Favara

 

Regio Decreto del 2 marzo 1881 per lo scioglimento del collegio di Maria di Favara e relativa cessione al Municipio

Regio Decreto per lo scioglimento del collegio di Maria di Favara e cessione al Municipio 1

 

Regio Decreto per lo scioglimento del collegio di Maria di Favara e cessione al Municipio 2

 

Regio Decreto per lo scioglimento del collegio di Maria di Favara e cessione al Municipio 3

 

Regio Decreto per lo scioglimento del collegio di Maria di Favara e cessione al Municipio 4

 

 

Il 4 aprile 1616 donna Maria Aragona e De Marinis, marchesa di Favara (moglie di Giovanni Aragona e Tagliavia e proprietaria del castello dal 28 agosto 1605 all'8 agosto 1616 - data della sua morte), disponeva il suo testamento e legava l’annua rendita di lire 2.550 per erigere in Favara un monastero di donne sotto la regola di S. Domenico, rimanendo tale reddito per sostegno delle monache. Stabiliva, però, che durante la vita di suo figlio don Ferdinando, fosse il reddito usufruito dallo stesso. Morto costui la rendita si trovò ridotta a lire 943, quindi quel monastero non ebbe compimento.

Da quell’epoca al 1789 la struttura venne utilizzata come collegio mariano. In merito, risulta eloquente una nota del vescovo Andrea Lucchesi Palli del 12 luglio 1768, redatta a seguito di una sua pastorale visita. Nella missiva si compiaceva per i modi e le regole mantenuti dalle convittrici del collegio.

Rocco Pirri nella sua Sicilia sacra scriveva: Il collegio di Maria è massimamente fiorente per l'osservanza delle regole e per le pratiche proprie del sesso, dove s'insegna ogni giorno il catechismo a 500 e più ragazze che vi vanno da ogni ceto e persone. Delle onze 200 superiormente assegnate, oggi se ne percepiscono se non 90 ed altre onze 70 dalle doti delle professe. Il numero delle collegine è quasi 45, delle quali 20 professe, 17 educande ed 8 inservienti.

Successivamente, mons. Gioacchino di Marzo nel Dizionario topografico della Sicilia scriveva: Il collegio è venuto sempre estendendosi, tal che oggi va tra i primi della diocesi ed è molto utile al paese per l'educazione del sesso femminile alle arti ed alla domestica economia.

Con decreto reale del 21 marzo 1789, a seguito di determinazione del supremo Tribunale del Regio Patrimonio in Palermo, veniva assegnata al collegio, sopra gli introiti dell’azienda gesuitica, l’annua rendita di lire 637,50 per il mantenimento di cinque maestre monache del collegio e, in più, per una sola volta, lire 1275 per la costruzione di due scuole per uso pubblico.

Durante la sorveglianza del Consiglio degli Ospizi, il collegio vi rimase soggetto secondo le istruzioni del 1820 fino al 1833, quando, per l’influenza del vescovo, l’amministrazione del collegio venne sottratto all’autorità laicale e devoluta alla corte vescovile e l’istruzione femminile interamente cessata.

Per mutamenti avvenuti nel regno il collegio entrò nella giurisdizione della deputazione provinciale e l’amministrazione del fondo per il culto con lettera del 26 giugno 1867 dichiarava che il collegio di Favara, risultando di natura laicale, non poteva essere soggetto all’art. 1 della legge 7 luglio 1866 sulla soppressione dei sodalizi religiosi.

Nel 1870, con l'apertura della strada nuova (corso V. Emanuele) venne sventrato il giardino del collegio, che si affacciava ad est, con un belvedere.

Secondo il R. D. 313 del 20 giugno 1871 i collegi dovevano passare alle dipendenze del Ministero della Pubblica Istruzione, affidando l’amministrazione ad una speciale commissione composta, per ogni collegio, da un presidente, due consiglieri nominati, uno dal consiglio provinciale e l’altro dal consiglio comunale.

Con decreto del 31 luglio 1874 il collegio di Favara venne dichiarato pubblico istituto educativo e, sulla analoga proposta dei consigli scolastico e comunale, venne nominata la commissione per occuparsi definitivamente dell’amministrazione del collegio e questo avvenne senza opposizione della superiora e delle oblate del collegio; anzi, per parecchi anni le nuove regole ebbero piena attuazione.

Degli ostacoli, però, col tempo, si frapposero, pare (come scritto dall'Amministrazione favarese), per difetto di istruzione da parte delle oblate (incapaci di apprestare istruzione), congiuntamente al determinato proposito di paralizzare gli atti e i provvedimenti della commissione amministrativa e per le scarse rendite di questo Ente, bastevoli appena per gli scarsi alimenti per le oblate, mentre nessuna somma restava per le riparazioni del vasto fabbricato che necessitava di interventi. Detta situazione richiamò l’attenzione del Consiglio Comunale di Favara, il quale attenzionò la questione al Governo che, a seguito di verifica, appurò che le condizioni in cui si trovava il collegio non corrispondevano alle finalità dell’istituto. Sentita la deputazione provinciale ed il parere del Consiglio di Stato, con D. R. del 24 marzo 1881 vennero modificati i propositi del collegio, ordinandosi la cessione al Comune di Favara del fabbricato e dei beni appartenenti ad esso, per essere destinato alla pubblica istruzione.

In attuazione delle sovrane determinazioni, il 21 giugno 1882 si passava alla formale stipula dell’atto di cessione fra il Ministero della Pubblica Istruzione ed il sindaco di Favara e con ministeriale dell’8 luglio dello stesso anno veniva definitivamente approvato.

La superiora del cessato collegio, Celestina Spataro, con citazione del 13 agosto 1881, chiamò avanti il tribunale civile di Girgenti il prefetto (nella doppia qualità di rappresentante dei ministeri della P. I. e dell’Interno) e il sindaco di Favara e chiese al magistrato il riconoscimento del collegio come opera pia laicale governata dalla L. 3 agosto 1862, a dichiarare inapplicabile il R. D. del 20 giugno 1871 e lesivi, per i diritti del collegio, i decreti ministeriali del 1873 e 1874 e quello regio del 24 marzo 1881 che ne aveva ordinato la cessazione.

Esaminata la controversia il tribunale civile di Girgenti non accolse le richieste della superiora, la quale, avverso la sentenza propose ricorso in Cassazione a Roma. La Corte di Cassazione si espresse con sentenza del 16 luglio 1884 in favore della superiora del collegio.

Il Comune di Favara, nel frattempo, utilizzò per proprie finalità il collegio, fra queste le scuole elementari e un ufficio del telegrafo, fino a tutto il 1888, spogliandolo di molti arredi.

Dal 1889, anno in cui il collegio venne reintegrato nel possesso delle collegine, le scuole comunali vennero trasferite, in affitto, nel palazzo Dulcetta di via Bersagliere Urso (nella zona dove oggi si trova la scuola elementare).

Il collegio venne riaperto il 19 agosto 1889 con solenne cerimonia, in presenza del vescovo mons. Blandini e nell'occasione venne eletta nuova superiora suor Vincenzina Grillo di Palma di Montechiaro, che tenne tale carica fino al 1926.

Importante ruolo, per la vita del collegio, ha avuto donna Gesuela Giudice di Gaspare, la quale era sempre pronta a tutelarlo con proventi personali.

 

 

Chiesa Madonna delle grazie di Arrigo

(della della Grazia lontana)

 

prospetto della chiesa

Chiesa di N. S. delle Grazie di Arrigo (o della Grazia lontana)

 

Dipinto della chiesa del pittore favarese Pasquale Farruggia

Chiesa della Grazia Lontana in un dipinto di Pasquale Farruggia.

 

 

 

 

 

La piccola chiesa dedicata a Nostra Signora di Tutte le Grazie, che sorge sullo stradale Favara-Castrofilippo (ora di fronte l'istituto superiore M. L. King) viene volgarmente appellata dai favaresi "chiesa della Grazia lontana" per distinguerla dall'altra chiesetta di Nostra Signora di Tutte le Grazie della Portella o "chiesa della Grazia vicina" situata nell'omonima contrada, alle spalle del calvario. Entrambe, fino a qualche decennio fa erano fuori il centro abitato, soprattutto quella in argomento. Oggi le troviamo all'interno del tessuto edilizio urbano.

L'origine della chiesetta di Nostra Signora di Tutte le Grazie di Arrigo risale al 1602. L'aveva in concessione un gruppo di laici del luogo che diedero luogo ad un eremitaggio. Successivamente la chiesetta venne abbandonata e cadde in rovina. Ciò che rimaneva del sacro edificio passò in proprietà del Demanio.

Nel 1885 il dott. Francesco Miccichè, con la somma di 100 lire, riscattò i resti dell'antico fabbricato che nel frattempo era stato adibito a deposito di materiali durante la costruzione della strada Favara-Castrofilippo. In questa occasione l'area di risulta venne accorpata al fondo Baglì, di cui era proprietario il Miccichè.

L'obiettivo di Francesco Miccichè era quello di costruire la chiesetta per destinarla a cappella gentilizia di famiglia, ma il suo progetto svanì a seguito delle nuove norme di polizia mortuaria che vietavano il seppellimento di cadaveri fuori il cimitero.

Alla morte di Francesco Miccichè, avvenuta nel 1905, la chiesetta venne ereditata, in usufrutto, dalle figlie Graziella e Giuseppina, che ne furono fedeli custodi e ne tennero vivo il culto.

Dopo diversi passaggi ereditari, la chiesetta pervenne al dott. Gaetano Miccichè (di Stefano e Giuseppa Mendola) e su sua proposta, nel 1966 venne eretta ad Oratorio Pubblico da parte della Curia Vescovile.

Da allora molti fedeli si recano in devoto pellegrinaggio, in particolare nel mese di maggio.

Per disposizione testamentaria, a seguito del decesso del Gaetano Miccichè, la chiesetta è divenuta proprietà della Curia Vescovile.

 

 

Seminario vescovile minore