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Memorie storiche di Favara di Carmelo Antinoro

BIBLIOTECA E MUSEO COMUNALE BARONE MENDOLA

 

La biblioteca comunale barone Antonio Mendola

 

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Barone Antonio Mendola - foto 1903

barone Antonio Mendola

 

2

Popularis sapientiae loculus oggi adibito ad uffici del Comune

Loculus Popularis Sapientiae

 

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Salvatore Aleo Nero (1848 - 1932)

Salvatore Aleo Nero

 

4

Antico palazzo di città riutilizzato come biblioteca e museo del Comune

Il palazzo di citta - poi biblioteca com.le - nel 1885 ca.

 

5

Anemometro facente parte dell'osservatorio meteorologico

 

6

Campioncini di marmo inviati da Napoli

 

7

Cigno imbalsamato nel 1903

8

Pappagalli

 

9

Barbagianni

 

10

Acquila imbalsamata nel 1907

 

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Ganasce di pescecane inviate da Internicola nel 1901

 

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Oggetti africani inviati nel 1901

 

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Seme di Ladoicea sechellarum inviato dall'Africa nel 1901

 

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Lapilli eruttati dal Vesuvio nel 1906

 

 

Caro barone, quando io vidi la sua biblioteca così bene ordinata di opere sceltissime e costose, dissi fra me e me: il barone ha commesso uno sbaglio, vuole anticipare la civiltà di Favara e della Sicilia di almeno un secolo.

prof. Michele Basile, 1905

... mi si stringe il cuore ogni volta che mi reco nella mia Favara, sempre dilettissima, non ostante l'ombra sanguigna che l'offuschi e avveleni, non vedere nei miei concittadini quel senso di gratitudine, anzi quel senso di orgoglio per l'uomo, che più di ogni altro la beneficò e onorò con un nome che non morrà giammai.

prof. Salvatore Vullo, 1919

 

 

Il loculus popularis sapientiae

 

Scrisse il barone Antonio Mendola (v. f. 1): Dopo di aver provveduto ai poveri fin dove consentivano le mie forze, pensai di erigere una palazzina intitolata Popularis sapientiae loculus, cioè un pubblico luoghicino di popolare sapienza (v. f. 2). Mi pareva vergogna, in un paese di più di 20.000 anime come il mio di Favara, non esserci un libro, un apparecchio, un segno scientifico di uso pubblico. Mi sono spinto e sforzato di togliere questa macchia. Ho detto ai miei paesani: Accettate il mio Loculus, se non ad utilità almeno a decoro.

Carmelo Airò, figlio di Giuseppe, bravissimo ed abile capomastro, fin da ragazzo impiegato in casa Mendola, ideò, diresse e sorvegliò la costruzione della palazzina dedicata alla scienza.

 

 

La biblioteca

 

Il barone Antonio Mendola, dotato di fine senso artistico, ha voluto i libri della sua biblioteca rilegati con gusto ed eleganza, per questo motivo nel 1895 ha mandato a Napoli il suo collaboratore di fiducia Aleo Nero (v. f. 3), per apprendere l’arte della rilegatura e dell’imbalsamazione di uccelli ed altri animali, dal diletto amico e collega prof. Achille Costa, direttore del museo zoologico di Napoli e prof. di zoologia all’università, per molti anni nella Commissione Antifilloserica Centrale in Roma assieme al barone Mendola. L’arte dell'imbalsamazione l’ha appresa nel laboratorio annesso al museo del prof. Achille Costa, mentre la legatura presso il legatore della regia università.

La biblioteca accoglieva circa 14 mila volumi schedati e catalogati, in ordine alfabetico, per autore e titoli di opere, e con indici bibliografici per materia.

Nonostante gli sforzi e le spese fatte dal barone per i propri concittadini nessuno ci andava a studiare, nessuno si avvicinava al suo Loculus, anzi lo sfuggivano come un sito appestato. Ricantavano la solita nenia che chi ci andava moriva d’insolazione d’estate e di polmonite in inverno, che la distanza era troppa, che era in campagna deserta e pericolosa.

Diceva il barone: Il mondo è fatto così, nemo profeta in patria acceptus. Io lavoro per il bene, nella convinzione che un giorno la verità distruggerà la calunnia, la menzogna e il bene trionferà sul male. I forestieri vengono a vedere queste mie creature e mi incoraggiano. I paesani mi sparlano e mi avversano. Ma perché tutte queste cose? Povero me! Sogno di offrirle alla patria ed essa non le vuole.

Per rendere più agevole il percorso ai cittadini desiderosi di recarsi nel piccolo luogo di sapienza popolare e nell’Opera Pia, ha contribuito con somme e terre proprie ad aprire una comoda strada che dalle vicinanze della chiesa dell’Itria arrivava al piano del colle S. Francesco (via beneficenza Mendola). Purtroppo in tempi di vera fioritura della malandrineria e d’ignoranza, quel luogo era ritenuto di terrore, figuriamoci se la gente si avventurava colà per la biblioteca e la cultura.

In tarda età il barone, quando pensava alla sua biblioteca gli si rattristava l’anima, non aveva visione chiara di ciò che doveva farne, gli sembrava di introdursi nelle selve selvagge ed aspre del divino Alighieri. Qualunque era la condotta del suo paese nativo, non voleva tuttavia dargli uno schiaffo solenne e pubblico.

Fortemente dispiaciuto di vedere, per certi versi, fallita l’opera, nell’indifferenza di chi avrebbe dovuto invece accettare i frutti dell’intelletto generosamente offerti, ha scritto al Ministero per affidare a miglior mani la preziosa raccolta di libri, ma anche questa sua richiesta non è sortita a niente.

Molto sconfortato e quasi ottantenne, consapevole dell’imminenza della morte e che quanto prodotto con tanti anni d’impegno e spese potesse finire nel nulla, il 13 febbraio 1906 il barone ha aggiunto un codicillo al proprio testamento del dì 12 antecedente come estrema speranza, dove ha scritto, con amarezza, l’estrema decisione che la biblioteca, museo, gabinetto, casa, cisterna e tutto passassero, dopo la sua morte, in proprietà ed uso del Comune di Favara, alle seguenti condizioni:

- che libri, oggetti nel museo, l’osservatorio meteorologico, le diverse collezioni e tutto ciò che si trovava dentro la palazzina, rimanessero sempre in essa e nessuna cosa venisse portata fuori. La sede ferma del Popularis Sapientiae Loculus doveva essere sempre quella di contrada Itria S. Francesco;

- Che il Comune mantenesse un custode fermo notte e giorno che curasse la pulizia dei libri, la tenuta dei cataloghi, la ripulitura e racconciatura degli animali e degli oggetti riposti nei musei, e nell’osservatorio meteorologico;

- che venisse proibita al pubblico la lettura nelle ore notturne;

- Che durante i giorni e le ore di lettura il Comune mandasse un suo impiegato per sorvegliare sia la custodia dei libri e degli oggetti, che il buon andamento dei frequentatori;

- Che il Comune provvedesse a stampare il catalogo dei libri, accennando almeno il titolo dell’opera, il nome dell’autore e i volumi di ciascuna opera, a comodo e garanzia del pubblico;

Infine ha scritto che il Comune doveva entro 6 mesi dichiarare l’accettazione o meno del legato del Loculus Popularis Sapientiae.

Dopo la morte del barone Mendola avvenuta la mattina del 18 febbraio 1908, nei successivi mesi di aprile e maggio il Consiglio comunale, con apposite deliberazioni, ha accettato la donazione in favore del Comune, autorizzando il sindaco a stipulare con la baronessa Angela Mendola il relativo atto di donazione ed espletare le pratiche legali per ottenere le prescritte autorizzazioni prefettizie.

Nella seduta consiliare del 23 maggio 1909 il sindaco e la Giunta, concordemente, hanno stabilito di interpellare il Consiglio per ben ponderare tutte le conseguenze derivanti dall’accettazione delle condizioni irrevocabili imposte dal donante ed emettere il proprio responso. Dopo tante discussioni si è rinviata la seduta dando mandato all’avv. Bennardo ed ai nipoti della donante, consiglieri notar Gabriele Fanara e Stefano Miccichè di far preghiera alla baronessa, al fine di ottenere la variazione avanzata dal Bennardo di trasportare la biblioteca nel centro abitato. L’avv. Bennardo ha parlato con la baronessa cercando in tutti i modi di convincerla che l’istituzione di un gabinetto di lettura all’interno del paese non veniva a menomare la volontà paterna e che la stessa, pur condividendo ciò, era decisa a far valere la volontà paterna. Nonostante i vari tentativi, il Consiglio si è trovato a decidere se accettare incondizionatamente la donazione secondo quanto richiesto dalla donante o rifiutarla.

Dopo cinque mesi di discussioni la Giunta municipale ha ripreso nuovamente i contatti con la baronessa, affinché i libri e gli oggetti costituenti la donazione fossero trasportati dentro l’abitato e, a seguito di insistenti suppliche, ha ottenuto il consenso, a condizione che il palazzo in c. da S. Francesco (il Loculus Popularis Sapientiae del barone) fosse utilizzato solo per scopi di beneficenza.

L’ex palazzo municipale (alla fine del 1800 utilizzato come ufficio del registro), veniva riadattato a biblioteca ed il fondo Mendola sistemato al primo piano, dentro apposite scaffalature lignee. L’ex palazzo di città, ad est della piazza Cavour, già esistente nella prima metà del 1700, in aderenza alle antiche fabbriche della cinta muraria fortificata che proteggeva il castello, comprendeva tre elevazioni, con doppio scalone esterno baroccheggiante, che permetteva l’accesso all’aula delle sessioni, al primo piano (v. f. 4).

La baronessa pare abbia speso circa centomila lire per la sistemazione della nuova biblioteca. Durante il trasporto dei circa quattordicimila volumi, alcuni di questi, di rilevante interesse, risultarono mancanti. Al controllo risultò mancante pure il microscopio che il barone aveva comprato con circa quattromila lire.

Il 9 maggio1937 il Loculus di S. Francesco veniva riutilizzato come ospedale, con dodici posti letto e l’assistenza delle suore del Boccone del Povero, ma dopo pochi anni dovette chiudere per mancanza di fondi, venendo a mancare il presupposto uso di pubblica beneficenza per cui era stato donato al Comune di Favara. In questi ultimi decenni il palazzo è stato adibito all’uso improprio di caserma dei carabinieri prima e di scuola dell’infanzia poi.

Negli anni “80 del sec. XX l’elegante palazzo neoclassico è stato barbaramente restaurato e deturpato all’esterno con l’introduzione di infissi di metallo e plastica e con la stesura di anacronistico intonaco sulle superfici lapidee dei muri, sulle modanate, colonne ed elementi architettonici vari.

Alcuni libri recano, sul frontespizio, il marchio di possesso del Barone. Si trovano numerosi esemplari rari, tra cui Antichità siciliane del Pancrazi, del “700, in folio, con copertine in cartapecora; un rarissimo Sicilia antiqua del Cluverio, del “600; l’intera Enciclopedia francese di Diderot e di D’Alambert, in folio, con l’elegante carattere disegnato dal tipografo inglese Baskerville, considerato tra i migliori del XVIII secolo. Il gioiello più prezioso all’occhio del bibliofilo è senz’altro il libro sul duomo di Monreale, stampato nel 1859 dalla tipografia palermitana di Francesco Lao, con copertina in pelle finemente intarsiata, suddiviso in due tomi, uno di testi, di Domenico Benedetto Gravina, e l’altro di tavole a colori, con fondi d’oro e a margini vivi. Tra gli altri libri d’arte, in folio, vanno citati l’opera in otto volumi sul Vaticano del Pistolesi e un altro in tre volumi sul Campidoglio. Utile, per una ricatalogazione e rivisitazione dei beni presenti al museo nazionale di Napoli, è un’opera dell’800, in diversi volumi, riproducente i reperti archeologici. Interi scaffali di classici latini e greci nelle edizioni dei fratelli Treves; una straordinaria e curiosa storia mondiale della prostituzione; trattati di medicina; i manuali tascabili Hoepli; numerosissimi trattati, anche rari, di botanica. Numerose sono le enciclopedie tecniche, merceologiche, opere di alta divulgazione scientifica della UTE (poi UTET), tutte quante rilegate dall’Aleo Nero; un’abissale differenza si riscontra tra la rilegatura editoriale del testo di botanica di Kerner di Marilaun e quella rifatta dal barone.

Dei 14 mila volumi esistenti nel Loculus nel tempo in cui viveva il barone Mendola, oggi ne sono rimasti 8 mila.

Tutte le collezioni comprendenti diverse centinaia di fotografie di vario genere (alcune riproducenti momenti di vita, di usi, costumi e tradizioni popolari di Favara), di stampe (oleografie) ed altro ancora sono sparite e sono andate ad arricchire i cassetti e i muri domestici di alcune famiglie.

L’acquarello del castello chiaramontano di Favara eseguito dal barone nel 1853, che aveva ritrovato dopo tanto tempo e depositato in biblioteca l’11 dicembre 1897 oggi si trova in possesso di un veterinario. Povero barone ! ... poveri noi!

 

 

Il museo

 

Nel Loculus Popularis Sapientiae c’era ancora un museo con un pò di tutto: un gabinetto d’imbalsamazione, una raccolta di uccelli di stazione e d’immigrazione passeggera in Sicilia, di quadrupedi, rettili, insetti, pesci, etc. C’era un germe di musei geologici, mineralogici, etnici, numismatici ed una legatoria di libri; un gabinetto di microscopia al completo, con un bel microscopio che ingrandiva più di 1200 diametri, sufficiente ai bisogni della igiene e della medicina. C’era un piccolo osservatorio meteorologico (v. f. 5). Ci doveva essere un gabinetto di fisica ed un altro di chimica, una piccola tipografia, tanto per insegnare la nobile arte della stampa, quanto per dar pane a parecchi poveri orfanelli.

Il barone voleva annetterci una scuola di disegno lineare, geometrico ed ornamentale per tutti gli artigiani, e, forse anche, una scuola di musica.

Ci sono i resti di alcuni reperti archeologici sepolcrali di creta cotta ordinaria, ritrovati nel vangato , come vasetti, lacrimatoi e monete, divelti dall’aratro Guyot in c.da S. Pietro nel 1906, durante l'aratura per piantumazione di vigne.

C'è una collezione di campioncini di marmo, mandati da Gerlando Spadaro, studente di medicina in Napoli (v. f. 6). Gli uccelli del museo venivano, per la maggior parte, dal lago di Lentini, mentre gli oggetti vari di imbalsamazione come ferro filato per le armature, occhi, etc. provenivano dalla bottega di un naturista di Siena.

Risalgono al 1897 alcuni fra gli uccelli imbalsamati, fra cui un martin pescatoreun fagiano nero imperiale, un Ardea Alba bianco, un bell’uccello acquatico bianco con piume nere alle ali della grossezza di falcone, quattro uccelli acquatici neri con becco bianco, un grosso piccione di carcarazzo, tre piddottule o donnole, di cui una proveniente dall'Africa, delle conchiglie ed una stelletta marina, un crostaceo grossissimo, tra il granchio e l’aragosta, privo di una delle antenne, cavallucci marini, corallo, un bel sasso spiccato dal fondo del mare di Malta, popolato da una colonia di coralli.

Risale al 1897 un grosso uccello bianco con zampe e piedi neri, non molto alti, almeno più bassi del trampoliere.

Risale al 1902 un piccione di barbagianni.

Risalgono al 1903 un cigno maschio (v. f. 7), ucciso il 18 gennaio; il pappagallo verde ed un altro Giaco (v. f. 8).

Risalgono al 1904 un porcospino; un altro pappagallo Giaco; due barbagianni (portati da un ragazzo che diceva di aver preso sulla Rocca di Stefano.

Risale al 1905 un uccello detto Camola, di colore verde smeraldo, con qualche tinta di giallo e castagno.

Risale al 1906 un'anatra imperiale col ciuffo (tuppo) sulla testa e un Barbagianni (v. f. 9).

Risale al 1907 un superbo esemplare di aquila reale uccisa con una fucilata al petto nei cieli di c.da Pioppitello il 18 febbraio. Ferita a morte, continuò a volare andandosi a schiantare nelle colline Priolo (v. f. 10).

Risalgono al 1901 alcuni oggetti inviati dall'Africa da Michelino Internicola* di Favara (sottocapo timoniere di una nave governativa sempre in giro per il mondo) ed in particolare le ganasce di un pescecane (v. f. 11) e un arco con 5 frecce, di cui solo una munita di punta di ferro. Un arco, un turcasso con dieci frecce a punta o lancetta di ferro; uno scudo; un poggia scudo o braccio; una sciabola con fodera di cuoio; un bastone; cinque lance diseguali con rispettivi manici di legno; due coltelli; un coltello con fodero di legno; un coltellino come una mezza forbice; tre cucchiai di legno per cucinare; un paio di scarpe di cuoi e vegetali; un paio di pantofole di legno o zoccoli; una campana di legno per buoi e una piccola per pecore, con batacchi pure in legno; un pettine per donne e per capellatura a due dentiere dritta e rovescia; uno più piccolo a una dentiera; due goliere bianche d’osso a piccoli pezzi; una goliera a lunghi pezzi d’osso bianco; due goliere di ferro con pendagli; un paio di anelli di bronzo per orecchini; quattro braccialetti diversi; un braccialetto di ferro; vegetali: carte con foglie secche; frutti diversi; denti di cinghiale; spugne; conchiglie di diversa forma: a dischi grossi e pesanti, a spugna, pietrose, bislunghe, a fava, a rogna con escrescenze lunghe, etc., frutti, tra cui un seme di Ladoicea sechellarum già maldivica, dal caratteristico aspetto di bacino muliebre (v. f. 12-13).

Risalgono al 1905 due fossili conchigliferi rinvenuti nell’appennino ligure e regalati al barone Mendola da Beltramo La Lumia di Marco, capitano del 28° reggimento fanteria di Firenze.

Risalgono al 1906 sei bottiglie di cenere e tre di lapilli eruttati dal Vesuvio dal 9 al 28 aprile 1906 (v. f. 14) (mandate dal capitano Beltrando La Lomia da Firenze, che raccolse mentre aiutava la popolazione vesuviana).

C'erano pure due mobilucci in ebano, intarsiati d’avorio, con cassetti (regalati al barone dalla figlia Angela), forse fatti in Germania nel corso del 1600. Un armadietto portava le figure bianche d’avorio sopra fondo nero. L’attico, le figurine nere di ebano sopra fondo bianco d’avorio. I mobilucci erano assai malandati e guasti e necessitavano di un diligente restauro.

Facevano parte del museo, ma oggi non più esistenti, un gran numero di francobolli esteri regalati al barone dalla sorella Girolama;  un album di 47 fotografie dell’Africa portati da Michelino internicola; due pepite o frantumi di minerali metallici miste d’oro, argento, piombo, stagno e qualche altra cosa, come sottilissime lamine sovrapposte a cristalli di quarzo estratti dalle miniere del Brasile, prov. Minas Gerais, portate dal favarese Salvatore Arcadipane, dove ha lavorato per otto anni; una grande medaglia di bronzo del 1907 sulla commemorazione dell’Unità d’Italia (donata al barone dal sindaco Angelo Giglia).

Nel tempo il museo è stato depredato di parte del materiale che il barone, con grande pazienza e spese, aveva raccolto.