HOME Curiosità di Carmelo Antinoro

FATTI E TRADIZIONI POPOLARI

 

Indice

Parti plurigemellari a Favara

La vera storia dei linticchieddri

Lotta fra bande

Ricordo di un tonfo per la mangiata dei santi

5  Il falso blasone della famiglia Fanara

Sì, sarà vostra moglie

Suppliche di una nobile donzella per il proprio matrimonio al padre

8  Sposata per forza

Nomignoli dal "500 al "900

10  A Piana Traversa come sul ponte Milvio

11  La nevicata del "56

12  Scintille di ricordi

13  Genealogia dei favaresi e la famiglia Pullara

14  Impressioni di un viaggiatore francese nella Favara dei primi del 1800

15  I figli di nessuno

16  Poesie di un ragazzino al padre carcerato

17  Levate a cammisella

18  Primo cinematografo a Favara

19  Primo esordio della Democrazia Cristiana a Favara

20  I pappagalli di donna Momma

21  Via p. Belmonte: un toponimo da correggere

22  Diamo il giusto nome alla villa liberty del Barone Mendola

23  Liti e questioni sull’eredità del sacerdote Mulè

24  Una lapide del 1846 riutilizzata come davanzale di finestra

25  La febbre del lotto

26  Bestiario favarese

27  Figlio di un dio minore

28  Il miracolo clandestino di S. Calogero di Girgenti

29  Simbologia sacra e massonica nella madrice di Favara

 

 

1 - Parti plurigemellari a Favara

 

In 320 anni di storia, dal 1565 al 1885, a Favara ci sono stati intorno a 800 parti gemellari, ma ci sono state alcune varianti:

In 19 famiglie il parto gemellare è avvenuto 2 volte;

In 1 famiglia è avvenuto 1 parto gemellare e 1 trigemellare;

In 5 famiglie è avvenuto 1 parto trigemellare.

Di questi parti se ne citano due che suscitano una certa curiosità:

quello di Laura, ragazza madre, la quale il 29 settembre 1713 ha avuto tre gemelli, tutti nati in pericolo di vita: Gaspare Michele Arcangelo, Baldassare Michele Arcangelo, Melchiorre Michele Arcangelo;

quello di Maria Francesca Bisaccia, sposata il 25 ottobre 1766 con Angelo Terranova, i quali hanno avuto tre coppie di gemelli, di cui due coppie nate lo stesso anno, la prima il 16 gennaio 1772 e la seconda il 4 dicembre 1772

 

 

2 - La vera storia dei linticchieddri

 

Premessa

Qualche anno fa sul quotidiano "L'amico del popolo" comparve un articolo  dal titolo Etnologia della stirpe dei Linticchieddi, scritto (come lo stesso riporta) secondo un’accuratissima ricerca etnologica effettuata dai più rinomati studiosi regionali. Detti studiosi  (di cui si sconoscono i nomi)concentravano la provenienza di questa etnia nella regiore di Ohrid, in Macedonia, a confine con l’Albania. Sempre secondo l'articolo, alcune famiglie della zona per sfuggire alle persecuzioni turche, si spinsero oltre l’Adriatico, stabilendosi nel territorio calabrese, nei pressi di Vibo Valenzia e più precisamente negli attuali Comuni di Ionadi e Nao. Queste famiglie che vivevano essenzialmente di pastorizia, anche se non disdegnavano certe attività illecite e ladresche a discapito degli autoctoni, successivamente furono costrette ad abbandonare il territorio, su sollecitazione degli abitanti che mal tolleravano i loro costumi e i loro arrangiamenti. Così intorno al 1548-1550 giunsero con le loro modernissime attrezzature di viaggio nella costa agrigentina, distribuendosi lungo le aree geografiche di Eraclea Minoa, Siculiana e Realmonte. In verità (continua l’articolo) queste pseudo-famiglie non erano così numerose, basta pensare che l’intero gruppo di emigranti era formato complessivamente da 35 individui: 12 donne, 8 anziani e 15 maschi già in età adulta. Mancavano solo i bambini, ma quello non era assolutamente un problema; infatti i nostri nomadi non dimostrarono alcuna titubanza nell’adattarsi al nuovo luogo e nel popolarlo di nuove creature. Questa etnia perseverò ostinatamente nelle solite attività di arrangiamento poco gradite alle popolazioni del luogo, le quali reagirono isolandola ai margini della società. In seguito, intorno al 1572 si stabilirono definitivamente nelle grotte di S. Rocco, a circa 700 metri dal casale di Favara e dal castello di Chiaramonte. Circoscritti all’interno di tali grotte, conducevano un’esistenza ancora tribale, regolata da proprie norme e consuetudini, spesso aliene ad ogni logica di legalità. Si racconta che una sera, saccheggiando i magazzini del castello, adibiti a depositi di cereali, riuscirono con grande astuzia e maestria ad impadronirsi di decine e decine di sacchi di lenticchie. Dal momento che i sacchi furono ritrovati nelle grotte di S. Rocco, tutte le accuse caddero sui nuovi arrivati, i quali ricevettero dispregiativamente l’attributo di linticchieddi.  Nel 1602 una famiglia di girovaghi e saltimbanchi di origine irlandese, durante un viaggio di lavoro, lungo le coste meridionali della Sicilia fu sorpresa da una terribile tempesta, che causò il naufragio. Questi girovaghi vennero miracolosamente salvati dai linticchieddi, accorsi prontamente alle grida di aiuto e vennero ospitati nelle loro grotte. L’occasione fu colta al volo dai nostri linticchieddi che mescolarono i loro caratteri genetici con quelli tipici irlandesi, anche se alla fine il carattere dominante fu sempre quello lenticchio.  Interessante storia quella riportata nel giornale, precisa e ricca di dettagli, di date, di luoghi, di avvenimenti, che accende nuova luce sull’etnia dei linticchieddi; c’è solo un piccolo difetto: è falsa.

 

La famiglia Stagno

Fermo restando che la storia si ricostruisce principalmente attraverso i manoscritti e negli archivi, lo scrivente ha voluto dare una svolta sull’identità di questa presunta etnia, partendo da un dato base inconfutabile: dalla famiglia Stagno, ovvero, quella famiglia di cui, è risaputo, fanno parte alcuni di questi benedetti linticchieddi, i cui caratteri somatici sono riconducibili a quelli irlandesi e che nell'albero genealogico rappresenta il portainnesti. Orbene, dopo avere individuato qualche recente cellula familiare, attraverso gli Atti parrocchiali e i Riveli dei beni e delle anime degli Archivi di Stato di Agrigento e di Palermo ho ricomposto l’albero genealogico, via via, fino ad arrivare al capostipite, alla sua provenienza, ma anche ai luoghi di abitazione delle varie famiglie, ai possedimenti ed ai figli procreati. Occorre evidenziare che in Sicilia i Riveli venivano compilati dalle singole amministrazioni comunali (Università) per conto della Magna Curia dei Maestri Razionali (dal 1569 Tribunale del Real Patrimonio) che era il supremo organo di controllo e di giurisdizione in materia finanziaria e dal 1682 di competenza della Deputazione del Regno. E siccome i Riveli rappresentavano uno strumento di controllo e di giurisdizione in materia finanziaria, in essi, oltre lo stato delle anime di ogni nucleo familiare, venivano annotati anche i beni immobili e mobili posseduti, compresa la casa di abitazione e relativo luogo d'ubicazione. Questi dati, interpolati con le nascite, i matrimoni e i decessi, hanno completato il grande collage dei linticchieddi (o forse sarebbe il caso di scrivere linticchieddri, secondo il nostro lessico). Dalla ricostruzione è emerso un mosaico di oltre 140 nuclei familiari dagli inizi degli anni “50 dello scorso secolo fino al capostipite, con un totale di oltre 500 componenti, con esclusione delle ramificazioni originate dalle componenti Stagno femminili. Per la verità, prima di partire dal nucleo familiare certo, il mio orientamento sulla provenienza si era soffermato su Pantelleria. Detta motivazione era suffragata dal fatto che nel 1829 a Favara la diciassettenne Francesca Sicurella aveva sposato il pescivendolo Diego Stagno, domiciliato nel Molo di Girgenti, ma proveniente da Pantelleria. Sempre a Favara, poi, si sono sposati i figli di Diego: Giuseppe, Raimondo e Alfonso, nati nel Molo di Girgenti, anch’essi pescivendoli. Dei tre Stagno, però, nessuna discendenza è stata più rilevata a Favara, probabilmente perché trasferitisi definitivamente altrove. La mia attenzione si era rivolta su questa provenienza perché a Pantelleria sono rinomate le piccole lenticchie rosse di antica importazione araba. A questo punto mi sono deciso di partire da dati certi, cioè da nuclei familiari vissuti tra la prima e la seconda metà del 1900. Questo lavoro mi ha condotto ad un percorso a ritroso per oltre tredici generazioni, fino al capostipite, in un arco temporale di circa mezzo millennio. Dalla ricerca emerge che il capostipite degli Stagno in argomento fu un certo Giovanni di Pietraperzia (EN), nato intorno al 1547 da Natale, che sposò Caterina Calì, da cui nacquero:

Antonino (n. 1581 ca.);

Natale (n. 1585 ca.);

Matteo (n. 1589 ca.);

Vincenzo (n. 1592);

Francesca (n. 1596);

Eufemia (n. 1602).

Di questi, solo gli ultimi tre sono nati con certezza a Favara. Dai Riveli risulta che nel 1607 la famiglia abitava nel quartiere S. Nicolò, in quattro case terrane confinanti con Giacomo Reale (alcune famiglie Reale vissero a Favara nel XVI sec. e fino alla metà del secolo successivo, a cui si rifà l'omonima via che sfocia a valle della via Umberto). Da un primo esame non sarebbe da escludere la presenza, a Favara, degli ascendenti di Giovanni, dato che i registri parrocchiali (istituiti col Concilio di Trento), hanno inizio nel 1565, però, il fatto che viene citata la provenienza, il fatto che i primi tre figli non risultano nati a Favara e che dai registri non si evincono altre famiglie Stagno prima e durante il periodo in cui vissero Giovanni e il figlio Matteo, tutto fa supporre che si tratti del capostipite, ovvero del primo Stagno venuto a Favara. Dei sei figli di Giovanni solo Matteo sposò (atto di matrimonio non trovato a Favara) una certa Giovanna, i quali ebbero dodici figli, tutti a Favara, tranne il primogenito Domenico nato nel 1617 circa. Dai Riveli risulta che nel 1623 la famiglia dimorava in una casa terrana di un corpo, nel quartiere Madrice. Matteo possedeva otto tumoli di terreno in territorio di Girgenti, che coltivava a vigneto ed un’altra chiusa di terre nel feudo Pioppitello. Possedeva, anche, tre somari e un mulo. Occorre precisare che da tempi immemorabili Favara comprendeva due grossi quartieri: Madrice e S. Antonio. La via Lunga (poi denominata Umberto), che da piazza Libertà arriva al calvario, divide i due grossi quartieri. Il quartiere Madrice comprendeva altri sottoquartieri (detti anche quartieri o contrade), fra cui: S. Nicolò, Madrice, Croce (calvario). Dei figli di Matteo si sposarono due femmine e tre maschi. I maschi furono:

Domenico (n. 1617 ca.) che nel 1654 sposò Agata, da cui ebbe tre figli;

Bartolomeo (n. 1633) che nel 1662 sposò Antonia Russo, da cui ebbe sette figli;

Giovanni (n. 1637) che nel 1657 sposò Rosaria Crapanzano, da cui ebbe undici figli.

Dei tre figli maschi suddetti, solo Giovanni ebbe la discendenza arrivata ai nostri tempi. Nel 1682 Giovanni possedeva un appezzamento di terra in contrada Falsirotta con 1500 viti, una balduina e una giumenta. La famiglia abitava in due corpi di case, nel quartiere S. Nicolò. Degli undici figli di Giovanni si sposarono tre femmine e tre maschi e di questi ultimi solo l'ultimogenito Francesco (n. 1688) continuò la discendenza; infatti dal matrimonio, avvenuto nell’anno 1715, con Angela D’Anna  nacquero quattro figli. Un’altra figlia nacque da un secondo matrimonio con Onofria Renda. Dei primi quattro figli si sposarono solamente due maschi:

Giovanni (n. 1716);

Calogero (n. 1727).

Giovanni nei Riveli del 1748 dichiarò di essere povero e  la sua discendenza, meno nutrita rispetto a quella di  Calogero, si estinse nella seconda metà del 1900.

Calogero, contadino, nel 1756, sposò Antonina Mazza, da cui nacquero cinque figli, fra cui, gli unici che si sposarono:

Giovanni Angelo (n. 1765), contadino);

Stefano (n. 1768), zolfataio).

Il primo sposò Francesca Russello, nel 1787, da cui ebbe dieci figli; il secondo sposò Rosa Ursola Sicilia, nel 1787, da cui ebbe sette figli e, in seconde nozze, Angela Spina, nel 1819, da cui nacquero altri tre figli, ma senza ulteriore discendenza. Dai suddetti Giovanni Angelo e Stefano hanno avuto origine due rami, gli unici, in parte arrivati ai nostri giorni.

 

Discendenza di Giovanni Angelo Stagno e Francesca Russello

Dei dieci figli nati si sposarono una femmina e quattro maschi, ma l'unico ad avere discendenza fino ai nostri giorni fu Giuseppe (n. 1804), contadino, che nel 1829 sposò Anna Salvaggio, da cui nacquero cinque figli, ma senza discendenza. In seconde nozze, nel 1842, Giuseppe sposò Rosalia Presti, da cui ebbe altri quattro figli, fra cui, gli unici ad avere discendenza fino ai nostri giorni:

Calogero (n. 1843);

Giuseppe  (n. 1848).

Nel ramo di Calogero dalla fine del 1800 alla prima metà del 1900 hanno confluito le famiglie: Pirri, Pagano, Campione, Castellana, Pecoraro, Maria, Fanara, Alcamisi e Arnone. Nel ramo di Giuseppe nella prima metà del 1900 hanno confluito le famiglie Airò Farulla, Barzasi, Alì, Roveda, Milioti, Fallea.

 

Discendenza di Stefano Stagno e Rosa Ursola Sicilia

Dei sette figli nati e fra i quattro maschi sposati, solamente Calogero diede continuità alla discendenza fino ai nostri giorni. Calogero (n. 1790), contadino, nel 1813 sposò Francesca Costa, da cui nacquero sette figli e, fra quelli sposati, l'unico ad avere discendenza fu Antonio. Antonio (n. 1817), zolfataio, nel 1840 sposò Concetta Bennardo, da cui nacquero nove figli e fra questi, l'unico ad avere discendenza fino ai nostri giorni fu Gaspare.Gaspare (n. 1855) nel 1873 sposò Rosalia Costa. Tra i figli si sposarono una femmina e sette maschi. Nel ramo di Gaspare dalla fine del 1800 alla prima metà del 1900 hanno confluito le famiglie: Sanfilippo, Miceli, Terranova, Paletto, Morreale, Cervello, Craparo, Di Benedetto, Crapa, Cipolla, Minolfo, Vassallo Todaro, Stagno, Montalbano, Di Salvo, La Manna, Butticè, Schifano, Russello, Bello, Alba, Maglio.

 

Considerazioni conclusive

Dai documenti citati, estremamente sintetizzati nella ricostruzione sopra descritta, è stato possibile estrapolare interessanti indicatori sull'albero genealogico della famiglia Stagno:

- la confluenza di un congruo numero di figli di genitori ignoti, provenienti da famiglie indigenti e con trascorsi di estremo degrado sociale;

- la confluenza di diverse famiglie dello stesso ceppo, con conseguenti intrecci fra componenti caratterizzati da forti legami di consanguineità. Giova evidenziare che questi indicatori di degrado si sono manifestati nella prima metà del 1800 e man mano si sono accentuati nel corso del "900. Anche se i mestieri svolti dagli Stagno a Favara, sin dall'arrivo, sono stati fra i più umili (contadino e zolfataio), non va dimenticato che questi erano quelli più comuni. Non va tralasciato il fatto che nel 1607 il primo nucleo della famiglia Stagno abitava in quattro case terrane e possedeva dei terreni. Una famiglia modesta viveva solitamente in un corpo terrano di case: u catoju, secondo l'antico dialetto favarese, che indicava una stanza terrana o interrata.  Non va tralasciato neanche il fatto che nel 1682 Giovanni di Matteo possedeva un appezzamento di terra e abitava in due corpi di case con la sua famiglia. Altra nota che merita attenzione, perché in controtendenza, riguarda il ceppo dei coniugi Giuseppe Stagno (di Giuseppe e Presti Rosalia) e Rosa Giudice, i cui figli Giuseppe e Francesco (dopo la morte del fratello), hanno sposato Luigia Airò Farulla. Dal primo matrimonio è nato Giuseppe, guardia di finanza, che è andato a vivere in Lombardia, dove si è sposato; dei figli nati dal secondo matrimonio di Luigia: Gaetano, impiegato è andato pure lui a vivere in Lombardia, dove si è sposato.

In conclusione, la famiglia Stagno, sin dal suo arrivo a Favara (1590 ca.) e fino alla prima metà del 1700 viveva una vita piuttosto agiata. Nella prima metà del 1700 iniziava il decadimento. Giovanni Stagno (n. 1716) figlio di Francesco e Angela D'Anna, nei Riveli del 1748 si dichiarava povero. Detto decadimento si accentuava nel corso del XIX secolo e si acuiva nel  XX, con ripercussioni di carattere sociale sia per il portainnesti (Stagno) che per le varie componenti che vi sono confluite. Queste riecheggiamenti, legati spesso a un basso, in certi casi inesistente, livello di istruzione, associato ad un lavoro precario e/o inesistente, ha relegato diversi componenti e nuclei familiari ad una sorta di emarginazione o, per meglio dire, ghettizzazione sociale e ambientale. Il divario venutosi a creare con la fascia sociale media della comunità favarese ha relegato questi nuclei familiari in luoghi del centro storico in stato di parziale o totale abbandono, in aree urbanizzate e abitazioni caratterizzate da situazioni evidenti di degrado fisico e ambientale. L'epiteto linticchieddru è verosimilmente attribuibile (come raccontato da un componente Stagno) ad un fatto avvenuto nella prima metà del 1900, allorquando uno dei figli di Giuseppe Stagno (di Gaspare e Rosalia Costa) e di Antonia Miceli, bassi di statura, durante un litigio estrasse un coltello. In quella occasione uno della parte avversa lo etichettò linticchieddru.

 

Raimondo Lentini (1816-1903)

Raimondo Lentini

 

3 - Lotta fra bande

 

La prima banda musicale in Favara fu fondata dal barone Giuseppe Mendola (padre del noto filantropo Antonio), a sue spese, nel 1840 e stette sempre autonoma e libera sotto la di lui paternale protezione. Alla sua morte, la moglie Angela Licata continuò a seguire le tradizioni di famiglia. Dopo la morte di quest’ultima, il figlio Gaetano ne assunse le stesse cure fino a quando, un bel giorno, stufo delle lamentele dei bandisti sempre irrequieti e malcontenti, fece passare la banda sotto tutela comunale e la fece sussidiare e da allora perdette la libertà e l’autonomia ed è stata schiava del Comune e tenuta come strumento elettorale. Nel 1902, per iniziativa privata, è nata una nuova banda, con rivalità nei confronti di quella municipale. Tra il 10 e l’11 febbraio 1903 sono morti in Favara due popolani vegliardi, avanzatissimi nell’età: Raimondo Lentini (v. foto) alla veneranda età di 88 anni e Antonio Sorce “Pecorazza” di 93 anni. In queste due condotte funebri, le due bande musicali rivaleggianti, la nuova e quella municipale, accanitamente, nella pubblica piazza, sotto la mesta ombra dei feretri, si sono scontrate rabbiosamente e scandalosamente e, dalle parole, dalle ingiurie, dagli sguardi ed atteggiamenti irati e convulsi, ci volle poco per passare alle percosse e, chissà?, forse alle armi. Il 23 giugno dello stesso anno, dovendo entrambe accompagnare il feretro di una donzella nel piano della madrice, sono venuti alle mani per ragioni a chi spettasse seguire o precedere il feretro. Il clero in vista della burrasca rientrò in chiesa e il pubblico ne ebbe uno scandalo. La banda vecchia, con soverchieria, non voleva ad ogni costo che quella nuova suonasse. Il fatto stava che la banda nuova aveva molte simpatie nel popolo. Il popolo si è, per così dire, vivamente appassionato e diviso in due parti, uno a favore della nuova e l’altra per la vecchia. Per causa di queste rivalità il 13 agosto 1903 la Madonna Assunta è uscita senza banda, con le assuntine, senza il solito grande concorso di popolo, senza brio, con clima funereo. La banda municipale adottava tariffe altissime, ma per la concorrenza della banda nuova i prezzi si sono ribassati quasi a metà, a vantaggio del pubblico. Nella metà di luglio 1904 si cercò la conclusione di un accordo attraverso la fusione delle due bande: la municipale e la parrocchiale (come veniva chiamata); ma alcuni bandisti nuovi non si sono voluti mescolare con la banda vecchia. Il 17 luglio i bandisti delle due bande, eccetto i piccoli, furono invitati a presentarsi nella casa comunale con lettera del sindaco, il quale tenne loro un discorsino per riappacificarli, facendo stringere loro la mano. Immediatamente il corpo così amalgamato, andò nella sorbetteria Albergamo per festeggiare. Solo due dei nuovi bandisti non aderirono all’invito del sindaco. In realtà le cose non sono state così semplici, perché nella prima metà del dicembre 1904 ci fu l’esame plenario del Municipio. Fu richiamato da Girgenti il capo musica di quella banda cittadina, sig. Bolletti, il quale dichiarò un buon numero dei bandisti, atti solo ad occupare la quarta classe. Prevedevo che da questo doveva nascere un gran malcontento e che molti, troppo tardamente pentiti di essersi sciolti dalla banda nuova per aggregarsi alla vecchia o municipale, sarebbero rimasti fuori dal corpo musicale nuovo e vecchio. Nella primavera del 1905 la banda cominciò a manifestare i primi segni di insofferenza per voler sottostare ai patti stabiliti con contratto e regolamento, con conseguente pericolo di scioglimento. Il 31 ottobre giunse il nuovo capo musica Luigi Di Marco, cavaliere della Corona d’Italia; un attempato reduce da Mussomeli. In soli otto giorni ha fatto concertare alla banda vari pezzi di musica nuovi, tutti strumentati da lui, alcuni composti del tutto. La banda in pugno del Di Marco in pochi giorni pareva miracolosamente rinnovata. Col tempo però iniziarono i malcontenti e nel mese di aprile 1906 i bandisti non vollero più saperne del nuovo maestro. C’erano ribellioni e insubordinazioni. Durante la festa del martedì dell’Itria il Di Marco fu ripudiato, scartato dalla banda stessa, anzi, gli fu proibito di seguirla. La sera di martedì in piazza, la banda fece il suo servizio senza la presenza e la direzione del maestro; lo hanno costretto a dimettersi, perché non si volle assoggettare a loro. Il Municipio volendo castigare Giuseppe Lentini (v. foto) che era il maggior ribelle, ordinò che funzionasse da direttore musico Maniglia fino alla venuta di un nuovo maestro. Da qui screzi e dissidi. Lentini, che di tutto grandeggiava e che nelle serate in pubblico palco della festa dell’Itria dirigeva e batteva la musica, non poté sopportare la detonazione. Voleva con la sua cricca, cioè con la maggioranza dei bandisti, protestare contro la deliberazione della Giunta, però alla firma molti vennero meno, con conseguente pericolo di scissione tra Lentini e Maniglia. I parenti e partigiani del Lentini (da 8 a 10 bandisti) disertarono la festa di S. Giuseppe. Nel maggio 1906 la Giunta municipale ha cacciato via per sempre otto bandisti per le liti accese tra Lentini e Maniglia. All’inizio di novembre 1906 è arrivato in Favara il nuovo maestro della banda musicale municipale cav. Salvatore Effetto di Napoli, ex capo banda militare. Il facile assessore delegato per la banda musicale Gabriele Dulcetta, dopo avere cacciato alcuni bandisti per gravi motivi, fece rientrare nella banda i cosiddetti vecchi dissidenti Lentini, bravi suonatori, ma pessimi elementi di discordia. I caporioni e tra essi il più tracotante e torbido Lentini inteso “la tromba”, si coalizzarono per cacciare via il maestro Effetto. Lentini era orgoglioso, voleva fare il capobanda e gli pesava la censura di Effetto, che si mostrava abilissimo direttore musico di banda e uomo forte in fatto di disciplina. Effetto non dava soverchia confidenza a nessuno dei bandisti, né sbevazzava con loro nelle bettole, ma si teneva decoroso e grave al suo posto; era aitante e robusto e poteva farsi valere anche fisicamente con la sua forza fisica. A poco a poco i bandisti si sono sbandati fino a ridursi a pochissimi, al punto da non potere più formare un concerto. Nel mese di ottobre 1907 la banda musicale è stata messa fuori, cioè privata della sovvenzione annuale di circa 2 mila lire, da parte del Comune. Si trattava di bande formate da operai e non da professionisti. Non potevano eseguire a perfezione le loro suonate. All’inizio di dicembre 1907 la banda di Favara era definitivamente sciolta. Il Municipio non più a parola, ma con i fatti, ha chiamato a sé gli strumenti, gli apparecchi musicali, le uniformi o abiti di gala e mezza gala.Il 19 gennaio 1908 fece la prima comparsa con uniforme di gran gala la nuova banda musicale municipalizzata.

 

Il capobanda Giuseppe Lentini (1859-1945)

Giuseppe Lentini

Foto della mangiata dei santi 20 min. prima della caduta

 

4 - Ricordo di un tonfo per la mangiata dei santi

 

Il 19 marzo di ogni anno, anticamente, si svolgeva a Favara, per la solenne festa di S. Giuseppe e sul tradizionale palco di legno: la solita “mangiata dei santi”, cosa tra il grottesco e il sacrilego. La Madonnina e il bambino si tiravano a sorte, ciascun anno, da una nota di ragazzine e bambini poveri. Quando c’erano gravi ammalati il S. Giuseppe lasciava il bastone per uno o più giorni al capezzale del malato, fino a che veniva fatta la grazia o moriva. Se per caso l’ammalato guariva, erano soldi per il governante. Poi, sopra un’asinella guidata da “S. Giuseppe”, con lungo strascico di popolo, la “Madonna” col “Bambino” facevano la fuga in Egitto, con la solita discesa fino alla madrice, dove veniva celebrata la messa cantata. Verso mezzogiorno, in piazza Cavour, montavano sul palco apposta alzato sotto il balcone della casa di donna Momma (Girolama Mendola) e pranzavano con le pietanze offerte dalla carità popolare. Il popolo correva appresso a queste scene con ardire e ammirazione. Una gran folla godeva lo spettacolo dai balconi. Chi guardava, chi piangeva, chi si picchiava in vista di questa commemorazione. Nel popolo avvezzo alla quiete, al silenzio, alla pace sepolcrale, in queste ore regnava un grandissimo ininterrotto frastuono, un vocio incessante. È stata clamorosa la “mangiata dei santi” del 1897. La piazza era addobbata con i soliti archi, i palchi della banda, con l’impianto di illuminazione ad acetilene, con la forma dei fanaletti e palle di vetro bianco opaco. In fondo stava l’impalcatura del castello di fuoco (fuoco artificiale). una serie di tende bianche difendevano dal sole i banchi di vendita del torrone e della "cubaita" sotto i palazzi. Un mucchio di gente stava assiepata attorno al palco dei santi che mangiava, mentre il vicino palco della banda era gremito di ragazzi, che si godevano meglio la vista della mangiata. L’orologio del castello segnava le ore 13, quando ad un tratto si è sentito un tonfo, uno scroscio sordo, prolungato, misto a gemiti e seguito da un vocio confuso. Il palchetto dei santi è crollato e tutti giù, sulla folla. Tutti correvano e si accalcano. Vennero i carabinieri, il sindaco, gli assessori, i medici che erano in piazza. Grazie a Dio non è accaduto nulla di grave, solamente rottura di piatti, bicchieri e bottiglie, dispersione di pietanze e nulla più. È stato un vero miracolo, ma c’era da rimanere inorriditi dal cinismo, dalla barbarie di questo popolo, che non si dava pensiero dei poveri caduti, ma avidamente rubava tutto ciò che trovava sotto mano, chi un'arancia, chi un pane, chi un bicchiere. Gente senza cuore, che idoleggiava solo la rapina e gavazzava nella voluttà del furto. Nella foto si vede la scena 20 minuti prima del tonfo.

 

Falso blasone in bronzo nella cappella della famiglia Fanara

 

5 - Il falso blasone della famiglia Fanara

 

Qualsiasi famiglia ricca e/o notabile nel passato agognava ad un titolo nobiliare; qualcuna, per una serie di eventi, è riuscita a comprarlo (la famiglia Mendola), qualche altra è rimasta a bocca asciutta, qualche altra ancora si è inventato uno stemma araldico (v. le famiglie Cafisi e Fanara). La famiglia Fanara in questione risale ad un Girolamo (nato intorno al 1543) sposato intorno al 1573 con Margherita Pasciuta e nel 1593 dimoranti a Favara nella pubblica piazza (piazza Cavour), in una casa (ricadente nello stesso luogo dove Salvatore Fanara - uno dei discendenti - nella seconda metà del 1800 ha fatto costruire il nuovo palazzo) confinante col fondaco dei principi De Marinis Tagliavia e Aragona (attualmente bar Italia). Risulta probabile l'attribuzione dell'invenzione del blasone o almeno di quello in marmo sottostante, un tempo esposto nel bar Italia e di quello in bronzo sul prospetto della gentilizia al cimitero di Piana Traversa (v. foto sopra), al detto Salvatore Fanara. Ma cosa rappresenta questo stemma? Risulta evidente, dai segni araldici, che l'arma è una rielaborazione di quello dei Lucchese Palli: rosso, con tre palle d'oro ordinati 2 e 1, con scudo accollato da un'aquila bicipite di nero armata e beccata d'oro, linguata di rosso, con corona di principe (v. foto). Ma chi erano i Lucchese Palli e quale relazione c'è coi Fanara? Presto detto. Secondo il Villabianca l'antica e nobilissima famiglia Palli dovrebbe prendere origine da un Adinolfo Palli figlio di una sorella di Desiderio re dei Longobardi, signore d'un castello detto Tre Palli. I suoi discendenti governarono la repubblica di Lucca, ed un Andrea Palli, essendo passato in Sicilia, fu nominato Lucchese Palli in memoria della sua patria. Fu egli, dunque, il ceppo di questa famiglia in Sicilia, dove si diffuse, specialmente in Sciacca e Naro e, da qui, in Palermo. Vanta soggetti famosissimi per dignità e ricchezze: un Luigi Antonio rettore di Sciacca sotto la regina Margherita, e da Federico II imperatore creato gran prefetto del regno nel 1239; un Nicolò di lui figlio giustiziere del val di Mazara ed altri che furono capitani di guerra di Licata, Girgenti, Taormina, Trapani, Salemi, Mazara e Sciacca loro patria, nella quale goderono le baronie di Magazolo, Perrana, Bertolino, Martogna, Bellapietra, della Salinella, del Giardinello, e di Cianciana. Dai Lucchese Palli di Naro derivarono i baroni della Gresta della Delia, di S. Fratello, ed i principi di Campofranco duchi della Grazia come dal Savasta. Primo ad investirsi di tal titolo fu il principe Fabrizio Lucchese Palli nel 1625 pervenutogli dalla moglie Eleonora del Campo erede della baronia di Campofranco. Fiorirono inoltre: un Antonio investito nel 1720, gentiluomo di camera, capitano giustiziere di Palermo 1739, brigadiere dei reali eserciti, cavaliere professo dell'ordine di S. Gennaro, istitutore dell'Accademia Palermitana detta dell'Unione della Galante Conversazione, inaugurata nel suo palazzo nel 1760, della quale fu poeta e mecenate; un Andrea vescovo di Girgenti ove istallò una biblioteca (ancora oggi esistente) ed un medagliere (razziato); un Emmanuele teatino oratore sacro; altro Antonio principe di Campofranco, gentiluomo di camera cavaliere grancroce di vari ordini equestri, brigadiere dei reali eserciti, luogotenente generale in Sicilia, ministro e consigliere di stato; un Ferdinando fratello del precedente onorato di varie incombenze diplomatiche, distinto economista. Là rappresenta il vivente principe di Campofranco D. Emmanuele Lucchese Palli e Pignatelli gentiluomo di camera, grancroce del r. Ordine Costantiniano, e cavaliere gerosolimitano. Figlio di Giovanni Lucchese Palli (4° principe di Campofranco) e Stefania del Bosco fu Gabriele (n. 1687) che sposò Melchiorra Fede, da cui nacquero Bernardo (Capitano di Giustizia a Naro nel 1742-1743) e Anna (1715-1799) che sposarono due giovani rampolli della famiglia Fanara: Caterina e Paolo (n. 1709) figli di donna Antonia Bardi e don Angelo Fanara. Quest'ultimo fu trisavolo di quel Salvatore di cui si è parlato inizialmente, che fu sindaco di Favara del 1864-1865. La numerosa famiglia di Paolo Fanara e Anna Lucchese Palli coi 13 figli, nel 1748 abitava nel quartiere Madrice, in un tenimento di case di 21 stanze fra terrane e solarate, confinante con il fondaco ducale (oggi bar Italia di piazza Cavour) e strada pubblica, esistente nello stesso luogo dove, come già detto, Salvatore Fanara nella seconda metà del 1800 ha fatto costruire il nuovo palazzo

 

Blasone proveniente dal Palazzo Fanara di piazza Cavour

Blasone della nobile famiglia dei Lucchesi Palli

Foto del 1883 della famiglia di Dulcetta Vincenzo (1811-1892) e Giuseppa Fanara (1814-1886) con i 14 figli (da sx a dx), prima fila seduti: Gabriele, Salvatore, Bernardo, Paolo; seconda fila seduti: Rosalia, Vincenzo con la moglie Giuseppa Fanara, Giulia, Anna; terza fila in piedi: Rosa, Carmela, Ludovico, Calogero; quarta e ultima fila in piedi: Angelo, Giuseppe e Stefano. (inviata da Ludovico Dulcetta)

 

6 - Sì, sarà vostra moglie

(di Giacomo La Russa)

 

Seduto in cucina, incurante dei continui e rapidi spostamenti della moglie e della sua ostentata disattenzione (si serviva di quel suo lamentoso enigmatico borbottare come di una maschera dietro la quale nascondere la sua insopprimibile curiosità e quel rigoroso impegno che nulla, voce parola o suono, potesse nascere e propagarsi per la casa senza che lei non ne fosse già stata messa al corrente), per nulla distratto e forse anzi stimolato dagli odori fumanti che, dirigendosi verso il soffitto, tendevano ad allargarsi abbracciando l'intera stanza, raccontava. "Tutti suoi, quattordici figli, nove maschi e cinque femmine" ripeteva mentre, sorridendo e compiaciuto, fissava illuminandola la vecchia dagherrotipia che teneva fra le mani come un'ostia, piegando leggermente il capo sul lato destro quasi volesse incrociare lo sguardo di quei suoi antenati che, per la posizione trasversale della camera oscura, erano stati costretti a volgersi in maniera opposta alla sua (benché qualcuno mantenesse compostamente lo sguardo dritto davanti a sé come se non avesse udito il richiamo del fotografo o temesse chissà quale sorta di inganno celarsi in esso).

Non seppe mai nulla lei, fino a quel giorno, nulla le fu mai ufficialmente detto. Le richieste andavano avanti da tempo ma suo padre non ne voleva sapere e terre e animali e proprietà non lo convincevano perché era un burgisi, questo era, arricchitosi certo, ma che non per questo poteva pretendere la mano di sua figlia Giuseppina.

E abbassò allora la fotografia, abbandonandola sul tavolo con noncuranza e tornò a guardarmi come per cancellare con gli occhi ogni mio possibile dubbio, per soffocare ogni mia eventuale obiezione.

Poi, autonomamente, riprese, spiegando che loro, i Fanara, discendevano dai Lucchesi Palli, una nobile famiglia di Naro, con i quali condividevano pure lo stemma e precisò, insistendo più volte sull'espressione, senza neanche volere dissimulare il proprio orgoglio, che solo "dicerie malevole" attribuivano la loro fortuna e la pretesa nobiltà all'intraprendenza di una cameriera che si era fatta sorprendere dall'irrefrenabile brama di possesso del suo padrone.

Fino a quel giorno dunque, comunicata ogni volta tramite uno dei suoi contadini il giorno e l'ora della propria visita, Vincenzo Dulcetta (1811-1892) aveva enumerato a don Paolo Fanara tutte le sue proprietà, senza tralasciarne alcuna e per ognuna indicando qualità e caratteristiche. Centinaia e centinaia di salme di terreno distribuite nei feudi di Gibisa, Mandra di Schiava, Misita, Celso Vecchio, San Benedetto, Cannatello. Ed ogni volta don Paolo, consapevole senza averci mai seriamente riflettuto dell'impossibilità di quella proposta, eppure comunque inorgoglito per il fatto di riceverla, appoggiati i gomiti sui braccioli della poltrona e strette le mani, ascoltava ora annuendo in silenzio ora lasciandosi andare a qualche espressione di compiaciuto stupore che aveva solo l'effetto, interrotto per qualche secondo il racconto dell'ospite, di donargli maggiore fiducia e rinnovato slancio.

E lui che solo in chiesa e da lontano aveva visto l'oggetto del suo desiderio, che mai aveva osato avvicinarsi o rivolgere al padre più di un fugace saluto in presenza della figlia, scambiatosi d'un tratto un cenno di intesa con l'amico comune che lo accompagnava e che aveva avviato la trattativa, si alzava e precipitosamente cercava di guadagnare l'uscita, sperando che don Paolo non dicesse nulla, che tutto rimanesse in sospeso, che, una volta lontano, l'eco delle sue parole e dei nomi delle sue proprietà avrebbe ricamato in lui i fili di una diversa risposta.

Lei non seppe mai nulla, nessuno le diceva niente, eppure qualcosa doveva avere capito, che quell'uomo elegante, sempre molto educato, che dal balcone del palazzo vedeva di tanto in tanto arrivare o i cui passi sentiva risuonare mentre saliva le scale per raggiungere il salone dove il padre l'attendeva, eppure ti dico che qualcosa doveva avere intuito, non foss'altro per quell'istintivo senso femminile o per certi rapidi e sommessi accenni al suo nome che doveva avere certo colto in mezzo alle conversazioni familiari o anche, chissà, perché il padre non l'avrà più guardata allo stesso modo, come se il fatto che qualcuno l'avesse chiesta in moglie gliela facesse apparire più grande, meno bambina e forse donna.

Lei che nonostante la comprensibile curiosità non avrà ritenuto la cosa riguardarla più di tanto, ma scorrerle accanto estranea, come se non potesse pensare ad una vita diversa, a staccarsi da quell'esistenza, appena solleticata da quella sua intuizione, come una farfalla che presto abbandonerà il fiore ove si è posata.

Così, quando quel giorno lui si presentò in quel modo, sudato e polveroso sopra l'abito scuro, e si fermò davanti al palazzo e non bussò e attese senza neanche guardare se qualcuno avesse già visto o anche solo compreso, subito attratta alla finestra e dai belati e dai grugniti e da ogni altra espressione animale, lei faticò a ritrovarci qualcosa che le appartenesse, un significato riconducibile al suo mondo e, appena scorsa la tenda, rimase subito perplessa, senza nessun pensiero né prospettiva ad aleggiare nel vuoto della sua mente. Eppure lo vide arrivare che era già a metà della piazza e che la risaliva puntando con passo deciso verso il palazzo e a qualche metro da dove si sarebbe fermato lo riconobbe e, per paura che sollevasse lo sguardo, si ritirò veloce lasciando ricadere la tenda e rimanendo immobile dietro di essa, quasi impietrita, e piacere e timore, pur ancora confusi e inconsapevoli, cominciarono a penetrare dentro di lei.

Fu allora che qualcuno informò don Paolo e gli spiegò e gli disse e lui che smise di leggere, rimanendo a guardare davanti a sé, seduto in salone, dov'era in attesa del pranzo, come se un pensiero avesse rapito la sua mente o l'avesse paralizzata, mentre tutti apprendevano e accorrevano attorno a lui e la moglie e i figli e i domestici e vedendolo così, in quella specie di estatica perduta contemplazione, senza ancora avere visto nulla ma soltanto immaginando, gli si misero a cerchio, fors'anche imbarazzati ma silenziosi, a scrutarsi a vicenda, nella comune speranza che qualcosa si muovesse, che il tempo riprendesse il suo battito consueto.

Così quando infine si alzò e si diresse a sua volta verso il balcone mentre i presenti si allargavano al suo passaggio e con sincronica precisione gli si richiudevano subito alle spalle, stava ancora immaginando quell'uomo, che tutta la notte non aveva chiuso occhio girandosi e rigirandosi nel proprio letto e che non c'era ancora un filo di luce quando in sella al proprio cavallo era uscito di corsa dal palazzo e aveva fatto il giro di tutte le sue terre e proprietà e ai suoi uomini aveva dato l'ordine di liberare tutti gli animali e di condurli in un punto preciso all'imbocco del paese e di aspettarlo lì e che era tornato a casa che il sole era ormai alto, per ripulirsi e cambiarsi e che profumato e con un abito nuovo era quindi uscito, sempre a cavallo e da solo, e che poi ne era sceso mettendosi alla guida di quell'esercito infinito e a piedi l'aveva condotto fino a piazza del Carmine attraversando tutto il paese, senza dire una parola, senza che nessuno avesse comunque il coraggio di rivolgersi a lui e vi era giunto, mentre alle spalle la piazza non riusciva più a contenere tutti quegli animali che come un fiume in piena cominciavano a spargersi per le vie adiacenti e laterali, scivolandovi ed inondandole, e lui che si arrestava e si toglieva il cappello ed abbassava il capo, immobile.

Non ebbe quindi bisogno di molto a capire, a confermare l'ipotesi e si volse per questo subito indietro e con un cenno immediato congedò tutti, che riprendessero le loro occupazioni, che tornassero ai loro posti, e trattenne con lo sguardo solo un figlio, ordinandogli di chiamare Vincenzo Dulcetta e di farlo accomodare che lui gli voleva parlare, anche se non subito però, mentre lui rimaneva a pensare in quale modo gli avrebbe detto: "Sì, sarà vostra moglie".

 

 

7 - Suppliche di una nobile donzella per il proprio matrimonio al padre

 

Rovistando fra i tanti documenti della nobile famiglia dei baroni Ricca, della quale, un ramo è stato presente a Favara fra la prima metà del 1700 e la seconda metà del 1800, ho trovato un documento tra il serio e il faceto, oggi definibile molto strano dal punto di vista delle consuetudini, anzi, oserei dire inquietante. Detto documento, chiamato atto di rispetto è stato vergato dal notaio Nicolò Montalbano il 23 novembre 1833 su richiesta della nobile donzella Giuseppa Ricca (nata nel 1812), figlia del cav. Riccardo e Carmela Licata (sorella di Angela, mamma del barone Antonio Mendola). In cosa consisteva questo atto di rispetto? Ebbene Giuseppa Ricca, all’età di 21 anni, si è recata dal notaio Montalbano a cui ha spiegato che da diverso tempo progettava il proprio matrimonio con don Nicolò Lombardo di 23 anni, figlio di Francesco e Grazia Chiaramonte Bordonaro di Canicattì, ma che il padre continuava a non volerne sapere. Già in precedenza, tramite lo stesso notaio, aveva mandato altri due atti al genitore, il primo il 21 settembre e il secondo il 22 ottobre 1833, affinché prestasse il proprio consenso al matrimonio col detto Nicolò, ma niente da fare! Il notaio Montalbano, con due testimoni, per la terza volta, si è recato al piano della madrice, in casa del cav. Riccardo per notificare la preghiera rispettosa della donzella Giuseppa al cavaliere suo padre, a cui è stata fatta lettura a chiara ed intelligibile voce. Il cav. Ricca ha risposto: << Io sempre persisto e persisterò nella ferma opposizione al matrimonio che invano mi propone mia figlia con don Nicolò Lombardo di Canicattì, anzi perché la stessa disubbidiente ed impertinente ancora nelle sue risposte meriterebbe l’oblio del padre, di quel padre dove dovrebbe fondare le sue speranze, di quel padre che ha avuto l’ardire d’insultare con le controrisposte in piè degli atti impertinenti che le hanno fatto fare quegli sconsigliati che la conducono con la benda sugli occhi al precipizio senza che se ne accorga, non sarebbe stata così la faccenda se fosse stata ubbidiente e consigliarsi con me, suo padre, che oltre d’aver il piacere di vedermi baciate le mani, locché non ha fatto in diciannove anni, l’avrebbe distolta di battere quello spinoso sentiero che un mal consiglio e l’invidia le han fatto intraprendere. Mia figlia, nell’impertinente controrisposta del giorno 22 ottobre ultimo, ebbe l’ardire o, per meglio dire, le suggerirono di dire che tutti siamo figli d’Adamo e che tutti abbiamo un sangue. Io mi sono inorridito nel sentire tali proposizioni: dunque mia figlia vuole confondersi colla moglie, colla figlia del bifolco, del mendico, del beccaio, del vile carnefice? Con queste sole massime, con una tale educazione potrebbe alla cieca sposare chiunque; ma quando la consigliasse suo padre cangerebbe certamente una tale maniera di pensare e non ardirebbe financo a negare la dinastia alla quale appartiene, chiamandola chimerica, quando così non è stata guardata né dalle altezze eminentissime dei Gran Maestri del Sacro Militare Ordine Gerosolimitano, né dagli augusti regnanti Giovanni d’Aragona l’anno 1426 e Filippo V l’anno 1447 che la distinsero dalla classe alla quale vuole appartenere. Dappiù ha avuto la baldanza e la temerarietà bugiarda di dire che io mi arrogo titoli che non mi appartengono; d’una tale bugia ve ne fanno chiara testimonianza le mie firme negli atti notarili. Io sebbene appartengo alla famiglia dei baroni della Scaletta, che tali erano i miei bisavi, e mio nonno di cui ne porto il nome, pur non di meno di tale titolo non ho riempito le minute dei notai. Le dico inoltre che mia figlia scioccamente nega lo stato cronico della salute del signor Lombardo e dice che andò ai bagni di Sclafani non già per curare se stesso, ma per accompagnare suo padre, quando la voce del pubblico, la sua fisionomia, quel tetro e giallo pallore, la fattezza dei suoi denti confermano i veridici detti di quei che da vicino lo conoscono; perciò prevengo mia figlia a non insultare suo padre quando al contrario deve addolcirlo. Infine conchiudo che mia figlia non meriterebbe queste delucidazioni, ma qualunque siano le mie ragioni saranno umiliate a quei magistrati ai quali l’Augusto Sovrano ha dato le facoltà di bene intendermi e compartire giustizia ad un padre che non proverà altro che il solo vantaggio della stessa mia unica figlia >>. Nonostante le forti riluttanze del cav. Riccardo Ricca, Giuseppa sposò Nicolò Lombardo il 7 gennaio 1834 a Favara, e da questo matrimonio nacquero Grazia nel novembre 1834 (che nel 1850 sposò Giuseppe Sammarco di Canicattì, figlio del notaio Placido e Aurora La Lomia) e Biagio nel 1838 (che nel 1871 sposò Angela Mendola del barone Antonio e Angela Licata di Favara). Nicolò Lombardo è morto nel 1834, all'età di 36 anni. Si legge in uno scritto canicattinese inedito: Lunedì mattino alle ore 11 e mezza, morì Don Nicolò Lombardo e Bordonaro, figlio del fu dottor Don Francesco Lombardo e la vivente Donna Grazia Bordonaro, dell'età di anni 35, mesi 6 e giorni 22, avendo nato a 14 dicembre 1810. Sezionato il cadavere si è trovato nello stomaco un fungo così detto "ematodes" che interessava tutta la cavità dello stomaco, causa della sua morte. A 73 anni di distanza da quel sofferto matrimonio, l’ 8 marzo 1906, il barone Antonio Mendola scriveva nel suo diario: << Mi ritorna in mente una splendida serata (il 7 gennaio 1834), quando la mia cuginetta Peppina Ricca figlia di mia zia Carmela e del barone Riccardo Ricca, si sposò in questa camera con Nicolò Lombardo da Canicattì, padre di mio genero Biagio Lombardo. Quante reminiscenze! Che folla di sensazioni e di ricordi mi assalgono! Ripenso che io ero tanto piccino che non mi volevano fare entrare nella stanza della solenne cerimonia nuziale. Io piangevo e strillavo. Allora per contentarmi, a stento mi fecero arrivare fin davanti la sposa che mi amava tanto quando ero bambino e mi dava frutta e dolci e scusava e copriva le mie maccatelle, poiché io bambino ero irrequieto davvero. Ripenso che mi mise vicino a lei, quasi tra le sue gambe e mi diede un gelato, allora per me dono insolito e dolcissimo. E tutto quanto io dico tra me avvenne proprio nella stanza in cui mi trovo vecchio, solo con mia sorella. Rimangono muti e fedeli testimoni, le pareti, i dipinti della volta, i mattoni del pavimento e null’altro. Tutto è svanito. Non c’è più nessuno >>.

 

Epitaffio di Maria Licata al cimitero di Piana Traversa

 

8 - Sposata per forza

 

Nel Cimitero di Piana Traversa di Favara, percorrendo il viale che conduce alla chiesa, all’angolo nord si erge dal terreno una stele da cui emerge, a mezzo tondo, la testa di una donna, contornata da una corona di fiori sorretta da due angeli, con la scritta: << Baronessa MARIA LICATA FU ANTONIO E TERESA LA LOMIA nata in Favara il 25 settembre 1834, morta a Palermo l’11 giugno 1916 – La vita è breve ma il ricordo della virtù è perenne>> (v. foto). Chissà quanti favaresi osservando quella stele si sono chiesti: Ma chi era questa donna? Questa donna era Maricchia Licata, sorella di Biagio (primo principe di Baucina della famiglia Licata), figlia di Antonio (giovanissimo sindaco di Favara dal 1834 al 1836 – anno della sua morte) e di Teresa La Lomia da Canicattì (figlia del barone Agostino e zia del più noto frate Gioacchino). Morto il marito, Teresa La Lomia ha risposato, nel 1841, Giuseppe Cafisi (cugino di primo grado di Antonio Licata). Maricchia in questo periodo aveva 7 anni. Giunta a 13 anni il patrigno cominciò a meditare di procurarle un buon partito per poi accasarla ed insieme alla moglie Teresa pensarono a Salvatore Petta di Agatino (famiglia notabile e benestante di origine greco-albanese, venuta a Favara all’inizio del 1700, il cui palazzo principale si trovava in piazza Madrice, dove oggi c’è il Banco di Sicilia). Ma c’era un problema: il Petta non piaceva a Maricchia, la quale si ostinava a non volerlo per fidanzato e marito, anzi (come lei stessa ha scritto) le risultava ripugnante. Questa sua continua ostinazione fu causa della  sua segregazione forzata. Venne rinchiusa da parte dei genitori in una stanza e privata della libertà, dei cibi prelibati e delle vesti lussuose, fino a quando, stanca delle vessazioni e delle privazioni Maricchia, appena diciassettenne, il 21 gennaio 1849 ha detto “SI”. Ma al Petta interessava più la dote che Maricchia, per cui i problemi continuarono anche dopo il matrimonio, con la richiesta, da parte di Maricchia, di annullamento alla sacra ruota. Nel dicembre 1906 moriva Salvatore Petta e con lui si estingueva la famiglia. Antonio Lo Verde, genero del Petta, per avere sposato una figlia adulterina, trovandosi in Favara, ha ordinato un solenne funerale. Il Petta per molti anni aveva vissuto pubblicamente concubinato con Angela Cafisi e la sua famiglia era composta da figlie adulterine. L’arciprete di Favara Antonio Giudice, non solo si rifiutò di recitare l'elogio funebre nella madrice per i funerali, ma non permise ad altri di farlo.

La sfortunata Maricchia Licata gravemente ammalata, colmò la sua vecchiaia con la “morte civile” della cecità.

 

 

9 - Nomignoli dal "500 al "900

 

A Favara, come in altri luoghi, erano d’uso comune i soprannomi, tanto da annotarli, in molti casi, nei pubblici registri, al punto da sostituire negli anni gli stessi cognomi.

Nel XVI sec. c’erano gli Azzolino Nobile, Agliata Cifrè, Cammalleri (poi Cammilleri) Carthia, Carlichi Zarzana; Caruso Malapezza, D’agostino Urso, Farruggia Mangiadenari, Galioto Percontra, Gorgone Placido, Grilletto Mazzulo, Minardi Infurna, Montagnino Neglia, Pregadio Azzarello, Russello Monserrato, Russo Ficarrotta, Vaccaro Bardazza, Vassallo Ciancela.

Nel XVII sec. c’erano gli Airò Farulla, Airò Varisano, Agliata Cifrè, Alaimo Guardavasca, Alfano Cent’onze, Alotto D’anna, Amari Portannese, Amella La Vecchia, Attardo Muto, Avola Carlino, Azzolino Nobile, i Bellassai Scaglione, Bennardo Portannese, Berlingeri crivaru, Bronzo Costantino, Bruno Pipitone, Calameli Muzzo, Cammalleri (poi Cammilleri) Carthia, Canta Spatilla, Caruso Modicano, Castellana Purmuni, Castronovo Calcinaro, Cosentino Iannazzo, Costanza Pillizza, Crapanzano Mani di ferro, Crapanzano Scroppo, Curto Stincone, Cutraro Soldano, Dardo Daniele, Di Caro Savino, Di Marco Montalbano, Di Nolfo Collirone, Farruggia Baio, Ferraro Cannizzo, Filocca Mazzarello, Galioto Sciantra, Galioto Percontra, Gallo Firrizzuni, Geraci Serravillo, Giangreco Cusumano, Grilletto Mazzulo, Iembula famula, Laudico Civalupu, Lauricella Patacchi, Lena Vaccaro, Licata Ciranna, Licata Inferno, Licata Caruso, Lombardo Marrella, Lombardo Gianpietro, Mannella Scaglione, Mancuso Baganella, Marino Ruggero, Marzetta Chianetta, Mastrosimone Montalbano, Mendolia Calella, Merlo Punturo, Merlo Musca, Miccichè Monaco, Milanese Pollicino, Minardi Infurna, Montagnino Neglia, Montana Testalunga, Moscato Chianetta, Mossuto Cucuzzella, Mossuto Puglisi, Muglia Barandano, Nastasi Nona, Palumbo Scumunicato, Pino Pittinaro, Pitruzzella Papia, Raimondo Curatolo, Raimondo Di Grazio, Randazzo Sutera, Renda Andreotto, Rizzo Scaldaferro, Rizzo Gulino, Russello Monserrato, Russo Lo Destro, Russo Milanese, Salerno Reale, Sciarrotta Corvu, Sciortino Marchetta, Sgarito Carlotto, Sicilia Canalaro, Taibi Lana, Taverna Manna, Trapani Cannizzu, Urso Cardarella, Vaccaro Purcaru, Vetro Tallarita, Vita Guadagno, Vitello Polisena.

Nel XVIII sec. c’erano gli Airò Varisano, Airò Farulla, Alaimo Minutillo, Alaimo Tiberio, Alfano Margaglione, Alfano Cent’onze, Amari Portannese, Amella Valerio, Amico Ricotta, Arancio Cacici, Arnone Manfrè, Avola Carlino, Balistreri Gentilomo, Balistreri Granatello, Bellavia Crivaro, Bellavia Granatello, Bennardo Portannese, Bennardo Tagliarinella, Bisaccia Baggianello, Bruno Virone, Bruno Racinella, Bruno Pipitone, Busachino Baccarella, Butera Paracasa, Caico Curatolo, Caico Azzolino, Caico Babalucello, Caico Franzina, Cammalleri (poi Cammilleri) Carthia, Canta Spatilla, Carusotto Gibardo, Castellana Ingralla, Castronovo Calcinaro, Costa Mustafà, Costanza Pellizza, Costanza Pillizza, Crispo Pandicasa, Crapanzano Sgroppo, Curabba Russo, Cusumano Grattalora, Daino Ventura, D’anna Pintaloro, Di Caro Savino, Di Caro Marrixi, Giangreco Cusumano, Di Maria Varvantoni, Di Maria Monacu, Di Maria Nasonte, Di Maria Cricchia, Di Nolfo Romano, Furneri Caminante, Gallo Tirruzzuni, Gelo Monnalisa, Giglia Mezzomondello, Giglia Giorgi, Imbergano Peluso, Impiduglia Sacchitello, Lauricella Patacchi, La Rocca Drago, Lentini Purro, Lentini Tascarella, Lentini Aggarrato, Licata Ciranna, Licata Quartarone, Inferno, Licata Papa, Liotta Monnalisa, Livreri Baccarone, Magliocco Tarantola, Mancuso Baganella, Mangravita Portannese, Mangravita Campione, Maria Fastidiu, Marino Ruggero, Mastrosimone Montalbano, Mendolia Calella, Merlo Mosca, Milanese Pollicino, Milia Pilodoro, Minardi Infurna, Montagnino Neglia, Morreale Craparo, Moscato Nasca, Muglia Barandano, Muscarà Bellanca, Nona Bellavia, Noto Campanella, Palumbo Picciuni, Passarello Caico, Pecoraro Zichirì, Piazza Cavatu, Piparo Terranova, Presti Gammaru, Presti Canzonello, Pullara Ficarella, Randazzo Sutera, Rinoldo Collirone, Rinoldo Brasciarello, Rizzo Lupotto, Russello Pannuzzo, Russello Drago, Russello Monserrato, Russello Crudo, Salamone Andreotto, Salso Carrubba, Sanfilippo Gattonero, Schifano Canino, Sciacca Garozzo, Sicilia Canalaro, Sutera Pillino, Terranova Portafarina, Terranova Testabianca, Vassallo Todaro, Vella Purpillo, Vetro Cataletto, Virgone Cavallaro, Zirretta Traversa.

Nel XIX sec. c’erano gli Agrò Cavato, Airò Farulla, Airò Forcella, Aleo Stuppino, Alfano Vavuso, Amico Pitirri, Belluzzo Incandela, Castellana Ingralla, Bennardo Muzzuni, Buggea Catalettu, Cammilleri Carthia, Canta Spatilla, Casà Tarucco, Castronovo Calcinaro, Catalano Spagnolo, Cavaleri Sbargione, Chianetta Rovetto, Contrino Carbonello, Costanza Pillizza, Costanza Lampu, Crapanzano Sgruppo, Crapanzano Spinagello, Di Caro Marrixi, Di Caro Savino, Fanara Pisciano, Fradella Sciruso, Giglia Mezzomondello, Giudice Tradantola, Giudice Pillino, Greco Calabrese, Lauricella Patacchi, Lentini Natalella, Lentini Purro, Lentini Piluso, Licata Pupo lordo, Licata Tafano, Licata Quartarone, Limbrici Mangiasale, Livreri Baccarone, Livreri Quartarone, Maria Cricchia, Marrone Scagliola, Milia Pilo d’oro, Milioti Portannese, Montagnino Turruzzuni, Montagnino Neglia, Montalbano Tirrirella, Morreale Pagliarello, Nobile Pidocchiu, Parisi Nardello, Patania Befà, Pecoraro Bacucco, Pecoraro Zichirì, Picillo Pistagnone, Pirrera Pillottula, Piscopo Arvanello, Pletto Cavallaro, Principato Tissi, Pullara Ficarella, Romano Occhialone, Russello Varisotto, Russello Pizzuto, Russello Crudo, Salvaggio Valirusu, Sanfilippo Gattonero, Scalia Mutazione, Sicilia Gattu, Sicilia Canalaro, Spina Baronello, Spiteri Gobbo, Sorce Taverna, Sutera Pillino, Tabone Nasu Tagliatu, Tornabene Pagliarello, Vaccaro Cannolo, Valenti Calderone, Vetro Cataletto, Vetro Sacchitello, Vetro Tallarita, Virore Carcareddu, Volpe Tollo, Zaffuto Cicchetto.

 

Cappella Genco nel cimitero di Piana Traversa.

la cappella Genco con la scossalina, sul coronamento del prospetto, realizzata con lapidi marmoree

 

10 - A Piana Traversa come sul ponte Milvio

 

Da diverso tempo è consuetudine che due persone che si giurano amore eterno agganciano un lucchetto in una catena nel lampione centrale di ponte Milvio, sul Tevere, o in altri ponti, e gettare poi la chiave nel fiume, tale da rendere simbolicamente infrangibile il loro amore.Come sul ponte Milvio, anche a Favara due persone hanno legato il loro lucchetto, uno ciascuno, in una catena che chiude la porta di una gentilizia al cimitero di Piana Traversa. Qualcuno potrebbe pensare "Si saranno giurati amore eterno!"; niente affatto. Due persone hanno deciso di mettere un proprio lucchetto perché si contendono una cappella gentilizia da molti anni abbandonata. Trattasi della cappella della famiglia di Francesco Genco (di Paolo e Francesca Messina da Mussomeli), sposato con Rosalia Di Benedetto. Da parte dei figli Vincenzo Genco sposato con Andreana Calzarano nel 1938 e Maria Antonia Genco, sposata con Calogero Montalbano (vedovo di Calogera Contino) nel 1908 pare non ci sia stata discendenza. L'annoso stato di abbandono e degrado sembrerebbe quindi avvalorata dalla mancanza di eredi. All'interno della gentilizia sono presenti due salme estranee alla famiglia Genco: quelle dell'arciprete Pirrera (1864-1953) e del sac. Luigi Arnone (1892-1962).

Ai posteri dunque l'ardua sentenza.

 

Nevicata del "56 ( inviata da Gaetano Fradella dal Piemonte)

(foto di Gaetano Fradella durante la nevicata del "56 a Favara)

 

11 - La nevicata del "56

 

La nevicata del 1956 rappresenta un fenomeno meteorologico di particolare rilevanza. Nel mese di febbraio di quell'anno un'ondata eccezionale di freddo investì buona parte dell'Europa e dell'Italia, coprendola di neve e gelo con un'intensità tale da essere definita la "nevicata del secolo": costituì infatti l'evento nevoso più marcato e pesante dai tempi dell'inverno 1929 per tutta la penisola, ed i successivi fenomeni dell'inverno 1985, non meno rilevanti, non ne eguagliarono l'estensione temporale e geografica.

In quei giorni si toccarono temperature eccezionalmente rigide, come si evince dal seguente parziale elenco:

 

 

città

giorno

°C

Torino

12 febbraio

-22

Triestre

10 febbraio

-14,6

Bologna

4 febbraio

-13,6

Potenza

4 febbraio

-11,3

Campobasso

4 febbraio

-10,1

Genova

10 febbraio

-6,0

Bari

3 febbraio

-4,9

Napoli

9 febbraio

-4,4

Palermo

8 febbraio

+0,2

 

Si legge nel giornale “La Nuova Voce di Favara” (scritto da Gaetano Parrino) del 28 marzo 1956: "La neve, simbolo di amore, di purezza, di candore, quest’anno a Favara è caduta copiosa ed abbondante. Lo spettacolo che quel giorno si offriva ai favaresi era superiore ad ogni aspettativa e immaginazione. I giovani non ne avevano visto mai; solo i vecchi avevano un vago ricordo di neve caduta più di mezzo secolo addietro. Tutti i paesani gustavano una interna gioia che si leggeva chiara sui loro volti. La campagna, le strade, i tetti delle case ammantati di neve davano un dolce e soave senso di soddisfazione. Una simpatica ragazza con una folta capigliatura, affacciatasi improvvisamente ad una finestra incorniciata di neve, era talmente lieta da illuminare col suo sorriso la strada tutta e i dintorni, creando coi suoi riflessi di luci e di ombre un incantevole paesaggio. Uno studente e due graziose studentesse, scherzando fra loro con la neve, diffondevano d’intorno il sorriso, il profumo della giovinezza. Una veranda cosparsa di fiori coperti di neve aveva tutto l’aspetto di una cartolina di Natale. La grazia e le moine di un bimbo in mezzo alla neve erano di una giocondità e gaiezza soprannaturali. I concimai che gareggiavano nell’invettarsi sempre più, quel giorno subirono la grande umiliazione di non potersi mettere in mostra; ma è stata una delusione troppo vana e passeggera, perché dall’indomani in poi spiccavano più voluminosi e alti, quasi a rifarsi della propria umiliazione subita. Le pittoresche case di Barbarazzo, proiettate su uno sfondo bianco, avevano l’aspetto di un paesaggio alpino. I bambini, le donne e i vecchi incappucciati e inpantofolati si affacciavano e guardavano con insolita meraviglia. I giovani, forniti di lussuose macchine fotografiche, si improvvisavano fotografi per eternare sulle lastre il ricordo di quei bei paesaggi. I ragazzi, rotolando per le strade grosse palle di neve, si divertivano e godevano immensamente. In tutti regnava un senso misterioso di evasione, perché tutti pervasi dallo stesso sentimento di ammirazione."*

 

Testo della canzone di Mia Martini

 

"La nevicata del "56"

Ti ricordi una volta

Si sentiva soltanto il rumore del fiume la sera

Ti ricordi lo spazio

I chilometri interi

Automobili poche allora

Le canzoni alla radio

Le partite allo stadio

Sulle spalle di mio padre

La fontana cantava

E quell'aria era chiara

Dimmi che era così

C'era pure la giostra

Sotto casa nostra e la musica che suonava

Io bambina sognavo

Un vestito da sera con tremila sottane

Tu la donna che già lo portava

C'era sempre un gran sole

E la notte era bella com'eri tu

E c'era pure la luna molto meglio di adesso

Molto più di così

Com'è com'è com'è

Che c'era posto pure per le favole

E un vetro che riluccica

Sembrava l'America

E chi l'ha vista mai

E zitta e zitta poiLa nevicata del '56

Roma era tutta candida

Tutta pulita e lucida

Tu mi dici di sì l'hai più vista così

Che tempi quelli

Roma era tutta candida

Tutta pulita e lucida

Tu mi dici di sì l'hai più vista così

Che tempi quelli.

 

Nevicata del "56 sulla collina S. Francesco (inviata da Angelo Fanara da Modena) Nevicata del "56 sulla collina S. Francesco (inviata da Angelo Fanara da Modena)

(foto sulla nevicata del "56 a Favara inviate da Angelo Fanara)

Via Atenea, Agrigento, durante la nevicata del "56

(foto di Attilio Bianchetta durante la nevicata del "56 Agrigento) - Via Atenea - Stazione ferroviaria - Piazza Cavour

Stazione ferroviaria di Agrigento durante la nevicata del "56

Piazza Cavour, Agrigento, durante la nevicata del "56

Palazzo della Famiglia Licata in piazza Madrice (o Vespri)- sec. XVIII

 

12 - Scintille di ricordi

 

Qualcuno tanto tempo fa mi ha accennato qualcosa sulla venuta a Favara del noto attore Aldo Fabrizi, ma, in assenza di un supporto documentale finora non ho fatto cenno. Di questo avvenimento oggi ci da contezza  Massimo Fabrizi, il figlio di Aldo, nel suo recente libro dal titolo "Aldo Fabrizi, mio padre", edito da Gremese, anno 2006. Si legge nel libro: "Nel mio svagato procedere da un ambiente all'altro nella grande casa, ho trovato, in un quadretto, chissà di chi, raffigurante un castello con lo sfondo della marina, lo spunto per ritornare indietro di parecchi anni ... C'è stata un'occasione in cui mi sono travato con papà in un vero castello, non in quello inventato per gioco con Bonnard da Leonida. Eravamo agli inizi degli anni Cinquanta e il castello era quello di Walter Castri, ufficiale della marina, amico di vecchia data di papà, nella parte più meridionale della Sicilia: a Favara di Agrigento. Raggiungemmo il posto dopo uno stupendo viaggio nella Cadillac guidata da Giulione, attraverso un'Italia meno affollata, più silenziosa e tranquilla. Con noi erano Mario Amendola e Bruno Paolinelli. Non ricordo con sicurezza di quale film si stesse sistemando la sceneggiatura, forse "I pappagalli", ma non ha importanza ai fini di ciò che mi piace ricordare, cioè quell'aria di avventura che dava alle nostre giornate una colorazione speciale, raccolta, misteriosa, pregna di significati da interpretare, di sensazioni e di immagini dai contorni sfumati, ...". Il castello a cui fa riferimento Massimo Fabrizi è quello dei Chiaramonte che, dopo una immane fatica sono riuscito a strapparlo da un atavico abbandono e restituirlo alla città. Una nota va però chiarita. Il castello non era di Walter Castri, anche se una relazione c'era fra questo e l'antico maniero per via di donna Teresa La Lomia. Ma chi erano Teresa La Lomia e Walter Castri e qual'era questa relazione? Teresa La Lomia, zia del più noto frate cappuccino Gioacchino da Canicattì, figlia di Agostino (barone di Carbuscia e Torrazza) e donna Rosalia Li Chiavi, intorno al 1830 ha sposato l'avv. Antonio Licata, sindaco di Favara dal 1834 al 1836, morto a 34 anni,  nel 1837. Nel 1863 Teresa La Lomia ha risposato il cugino del defunto marito: Giuseppe Cafisi, proprietario del castello di Favara. Antonio Licata e Teresa La Lomia hanno avuto cinque figli, fra cui il primogenito Biagio che ha sposato Francesca Maria (principessa di Baucina, contessa di Isnello, marchesa di Montemaggiore e baronessa di Montaspro). Dalla unione di Biagio e Francesca sono venuti alla luce una femmina e quattro maschi e, fra questi ultimi Oliviero, nel 1875. Oliviero è stato l'ultimo dei Licata a mantenere i contatti con Favara (il padre Biagio si era trasferito nella Palermo felicissima a 16 anni) per via dei vasti possedimenti. Oliviero conviveva con Maria Luigia Cattalani, madre di Walter Castri (n. 1911 - m. 1993), figlio di Attilio. Walter Castri negli anni "50-"60 dello scorso secolo era conosciuto in Favara perché spesso vi si recava per amministrare i beni di Oliviero, ma soprattutto perché qui si dedicava ad attività popolari, teatrali e folklorici.

 

Gruppo folk di Favara anno 1956/1957 ca. con Walter Castri in basso al centro

 

13 - Genealogia dei favaresi e la famiglia Pullara

 

Per molteplici eventi della nostra vita, tutti noi abbiamo dovuto apprendere, nel tempo, una grande quantità di informazioni legate al nostro vivere quotidiano; sporadicamente abbiamo invece pensato di preoccuparci di conoscere i nostri ascendenti e le loro vicende. Comunemente le persone hanno spesso una così scarsa conoscenza della propria genealogia, al punto da ricordare solo i nomi dei propri nonni e, nei casi più rari, dei bisnonni. Tra le curiosita naturali dell’uomo, ritengo ci sia quella di conoscere la propria genealogia e l’origine del proprio cognome. È quindi più che mai comprensibile come, ad un determinato momento della vita in una persona possa subentrare la curiosità di saperne di più dei propri ascendenti. La curiosità, a ben vedere, in molti casi è congiunta ad un ardente desiderio di certezza delle proprie radici, per conseguire una conoscenza della propria identità. Dalla metà del 1500 ai nostri giorni Favara ha visto nascere oltre 1200 famiglie (intendendo per famiglia un cognome). Di queste famiglie il 44, 6% ancora oggi risiedono a Favara, mentre il 55, 4% si sono estinte per mancanza di discendenza maschile o per trasferimento. Tra queste famiglie ne ho scelto una a caso: quella dei Pullara, la cui presenza a Favara è intimamente legata al castello dei Chiaramonte di questa città. Per comprendere meglio questo legame dobbiamo fare un salto nel passato di oltre 350 anni, quando nel 1663 il mastro falegname Antonino Pullara ha ricevuto l’incarico, dall’arrendatario di questo Stato, per riparare le porte e finestre del castello e per tale motivo si trasferì a Favara (v. il mio libro ”Il castello dei Chiaramonte di Favara”, reperibile nelle edicole). Questo mastro Antonio abitava a S. Stefano di Quisquina ed era figlio di Biagio. Il lavoro nel castello durò abbastanza a lungo, tanto che Antonino si trasferì a Favara assieme alla moglie Antonia. I due figli Pietro e Anna Rosaria erano già a Favara da qualche anno. Pietro svolse la breve professione di notaio nella nostra città; sposò Anna Traina di Girgenti nel 1657 e successivamente, rimasto vedovo, Vittoria Biundo nel 1665. Anna Rosaria nel 1649 sposò il mastro falegname Giovanbattista Bellavia figlio di Vincenzo (notaio in Favara nella prima metà del 1600), discendente da un mastro Annibale da Sutera (il capostipite dei Bellavia di Favara, nato intorno al 1533). Da Anna traina nacquero Vittoria e Domenico; da Vittoria Biundo nacquero invece Anna Maria e Rosalia. Solo Vittoria e Domenico si sposarono e da quest’ultimo discendono tutti i Pullara di Favara. Il notaio Pietro si spense nel 1672, alla prematura età di 33 anni, ed il suo corpo è stato deposto nella cripta dell’oratorio del SS. Crocifisso (dove oggi si trova la cappella del SS. Crocifisso all’interno della chiesa madre - vedi art. “Il cimitero sotto la madrice di Favara”).

 

 

14 - Impressioni di un viaggiatore francese nella Favara dei primi del 1800

(Estratto da: G. Levrault, Paris and Meme Maison, Strasbourg, 1837 - Voyage en Sicile di Le B. Th. Renouard de Bussierre – traduzione dal francese di Rosa Criminisi)

 

Inerpicati su una montagna arida, dall’alto della quale dominavamo una grande distesa di paese e di mare, una svolta brusca ci fece entrare in una campagna bella e coltivata come quella di Girgenti; essa si estendeva verso una catena imponente, le cui sommità spigolose riflettevano ancora gli ultimi bagliori del tramonto. Una nuvola, fermandosi proprio sulle nostre teste, lasciò sfuggire una di quelle ondate fresche che caratterizzano la primavera; ma non durò affatto, e allora la freschezza sparsa nella natura, il cinguettio degli uccelli e la purezza dell’aria, ci immersero in questa vaga sensazione di felicità che fa provare il crepuscolo di una bella serata. Temendo di arrivare nottetempo a Favara, dove volevamo dormire … . Ci fermammo tardissimo davanti alla porta del fondaco di Favara (doveva essere quello esistente nella pubblica piazza o Castello, poi Cavour), città alquanto degna di attenzione costruita in una vallata, presso un fiumiciattolo che porta lo stesso nome. Sopraffatti dalla stanchezza, ci buttammo senza esame preliminare su due orrendi materassi e l’indomani mattina soltanto vedemmo, alla luce del sole, in quale schifoso tugurio ci trovavamo; era decorato con il titolo di “salotto degli stranieri” e abitato da una moltitudine di ratti, topi e insetti: Le pareti e il pavimento erano ricoperti di sporcizia; per fortuna la mancanza di soffitto, porte e finestre permetteva all’aria di circolare liberamente, e di disperdere i miasmi che senza i quali, sarebbero potuti diventare funesti a coloro che si fossero abbandonati al sonno in questo rifugio.

Rivolgemmo considerazioni di biasimo all’albergatrice; ella li accolse con un’espressione molto innocente, non comprendendo niente dell’assurdità delle nostre pretese, considerando la stanza pulitissima e comoda. La sua risposta fu: «il mio salotto è come tutti quelli del paisi (paese), e quando si vuole viaggiare bisogna sapersi adattare a vivere come la gente che vi ospita». A questo punto nulla da obiettare, ed io capii che era arrivato il momento di chiedere scusa. I Siciliani non ci tengono affatto alla pulizia; ho avuto spesso l’occasione di notarlo. Più volte mi è capitato di entrare nelle case di famiglie del ceto più basso del popolo: sono sporche, umide e infette; ci si dorme, si mangia, si lavora, si fa tutto in uno stesso bugigattolo che serve anche da bottega, da fienile, da cucina, e talvolta da concimaia. Questa sporcizia è più del tipo orientale che del tipo napoletano. In generale, sono colpito sempre più dalle numerose analogie dalle usanze del siciliano con quelle dell'abitante delle contrade arabe; stessa mimica e stessa gestualità, stesse attitudini, stesso modo di implorare la carità e posso inoltre aggiungere ad onore delle due nazioni, stessa inclinazione nel praticare l'ospitalità. La devozione del Siciliano cattolico deriva un poco da quella dell'Arabo maomettano; come gli Orientali accompagna le preghiere con genuflessioni e movimenti espressivi; si dedica ad una moltitudine di pratiche minuziose, e tutto presagisce che è più preoccupato della forma che della sostanza. Il grado di civiltà è lo stesso nelle campagne dei due paesi; i ceti sociali più bassi sono condannati ad un completo isolamento e allontanati dalle idee specifiche dello sviluppo intellettuale moderno: l'aspetto delle città di secondo ordine è triste e rovinato nelle due contrade; esse sono ambedue sprovviste di buone strade; la campagna è incolta, qui come in Oriente; insomma l'apparenza della miseria più profonda esiste sia nell'uno che nell'altro paese a discapito di una natura prodiga e di un suolo fertile.

 

 

15 - I figli di nessuno

 

Nel passato molti bambini appena nati venivano sovente abbandonati per le strade o nelle campagne, dove ordinariamente perivano per fame e spesso divorati da animali, un vero dramma che coinvolgeva, in varia misura, tutte le Università (Comuni) del Regno.

A Favara nei secoli XVI, XVII e XVIII, prima dell’uso della ruota, i bambini trovati venivano portati all’ospedale S. Nicolò (adiacente all’omonima chiesa), dove venivano curati ed accuditi dalle balie. I neonati abbandonati venivano registrati nei libris baptizatorum della madrice chiesa con l’appellativo di filius/a populi, ex patre et matre incerti, oppure spurius/a, spulius/a fino alla prima metà del 1800 e successivamente con figlio/a d’ignoto/i, figlio/a del Popolo o semplicemente del Popolo e Proietto.

Nel sec. XVIII la situazione dei proietti nel Regno divenne insostenibile e con un regolamento del 1751 venne ordinato dalla Deputazione dei proietti e ai Giurati delle Università di adottare le ruote. Gli alimenti venivano somministrati ai proietti per un periodo di soli tre anni per poi restare abbandonati a loro stessi. Per sopperire a tali deficienze venne emanato un altro regolamento nel 1760 affinché ogni Università corrispondesse gli alimenti per il mantenimento dei bambini proietti maschi fino a 5 anni e delle femmine fino a 7 anni. Per venire incontro ai dettami del perpetuo regolamento dell’11 gennaio 1751 l’Università di Favara teneva in affitto un catoio, dov’era situata la ruota, ubicato in un luogo abitato ma nello stesso tempo appartato, nel cortile chiamato della Ruota, con ingresso dalla via Margherita. In detto catoio alloggiava la ricevitrice dei proietti, che aveva il compito di tenere accesa una fiammella alimentata ad olio in prossimità della ruota, di prelevare e apprestare le prime cure ai neonati abbandonati. I proietti, dopo un apposito controllo medico venivano affidati alle nutrici che, per un periodo di tempo, provvedevano ad allattarli, pulirli e vestirli. Nella prima metà del 1800 le spese che il Comune di Favara affrontava per il mantenimento dei proietti superavano abbondantemente quelle per le opere pubbliche, inoltre variavano, a seconda delle esigenze e della disponibilità, da 200 a 400 onze all’anno (un’onza corrispondeva a circa 300 euro attuali), con punte anche di 700, contro un bilancio complessivo annuale che oscillava tra 1000 e 3000 onze.

Mensilmente si contavano mediamente da 50 a 65 nutrici che accudivano altrettanti bambini proietti. Non mancavano le speculazioni nel mondo dei proietti e per questo nel 1870 vennero denunciate una certa Giuseppa Frisino e le quattro figlie, note prostitute che illecitamente dichiaravano in diversi Comuni alcuni proietti (tra cui anche figli propri) e con diversi nomi, al fine di percepire danaro pubblico per la somministrazione di alimenti dai diversi Comuni, con conseguente danno per l’erario e la morale.

L’ultima ruota che memoria d’uomo ricordi a Favara è quella del collegio di Maria, attiva nella prima metà del XX sec.. Molti dei bambini abbandonati spesso venivano marchiati da strani cognomi. Se ne citano alcuni dell’800: Fortuna Salvatore, Miracoloso Alfonso, Cristallino Salvatore, Brillante Giuseppe, Dumas Alessandro, D'Arimatea Melchiorre, Dante Giuseppe, Petrarca Giuseppe Marcello, Di Napoli Antonio Masaniello, Saltalamacchia Calogero, Macco Giovanni, Bombolo Giuseppe, Bramato Giuseppe, Scordato Gaetano, Miserino Giuseppe, Defuntino Gerlando.

 

 

16 - Poesie di un ragazzino al padre carcerato

(Alcune parti sono state tratte da: Natale Di Roma, Strenna della Poesia Dialettale, anno XVI, vol. II - inviato da Raimondo Lentini da Ribera)

 

Domenico Montalbano, ragazzino di 11 anni, nell'ottobre del 1891, accompagnava il padre al carcere di Favara per scontare una condanna di sei mesi. Tornato a casa sconfortato il ragazzino sentì forte il desiderio di mostrare al padre il dolore per la prigionia e scrisse questi versi:

 

Carissimu patri

 La porta 'nfami assai pisanti e dura

si chiusi e nni spartì viventi ancora;

tu rimanisti strittu in quattru mura,

ed iu darrè la porta chianciu ancora;

ni l'occhi mi ristau la to figura,

nni l'oricchi la to duci parola,

e nni lu pettu 'na tali puntura

chi pari ca lu cori mi trafora.

Doppu a lu chiantu di me mamma badu,

cchiù forti di lu miu certu lu cridu,

e perciò pi la casa mi ni vadu,

sebbeni a caminari nun mi fidu,

miraculu pi via comu nun cadu,

ccu l'occhi chini li petri nun vidu;

trovu la mamma, e forsi mi digradu

pirchì, pir finta, mentri chianciu, arridu.

Arridu pi purtarici cunfortu,

e sirenu mi finciu ed anzi spertu;

ci dicu: Pirchì chianci? E' forsi mortu?

E' viventi, in saluti e virrà certu.

Ora ogni ghiornu lu vittu ci portu,

lu carciri è abitatu, 'un è disertu;

si lu purtuni mi chiusiru a tortu,

a se misi sarà di novu apertu.

Ora, patri, tu stai cuntenti e sanu,

semu in saluti e semu a tia vicinu;

lu carciaru nun è tantu luntani,

sutta li mura sugnu ogni matinu;

pi entrari prighirò lu castillanu,

chi è sempri megliu assai di lu bicchinu;

ora finivu e ti vasu li manu,

sugnu to figliu Mimu, lu piccinu.

 

Il carceriere fece entrare il ragazzino e lì stiede tutto il giorno col padre. Il carceriere poi disse al ragazzino che l'avrebbe fatto entrare ogni volta che avesse portato una poesia.

Forte della promessa, Domenico ogni mattina portava una poesia e così poteva stare col padre.

 

Domenico Montalbano nacque a Favara e visse ad Aragona, dove faceva il cantoniere nella conduttura del Voltano e dove morì il 28 Ottobre 1948.

Ha scritto un poema dal titolo: Le ombre romane e tre volumi in versi dialettali:

- Lotta politica fra Gallo e Scaduto, Agrigento, 1906;

- La partenza per l'America, Agrigento, 1912;

- Poesie, 1921;

Domenico Montalbano nell'Aprile del 1901 ha sposato, a Favara, Carmela Cammilleri, da cui ha avuto dei figli, fra cui Carmelo, nel 1908, di professione orefice, sposato a Favara nel 1932 con Anna Saieva, da cui è nato Domenico nel 1933.

Nell'atto di morte ed in quello di matrimonio Domenico Montalbano risulta figlio di ignoti. In realtà, indagando sulla questione, il cognome Montalbano non gli deriva dal padre, ma dalla madre. Dall'atto di battesimo Domenico risulta nato, e battezzato a Favara, il 2 febbraio 1880 da Domenico Vaccaro e Maria Montalbano. Cosa sia successo dopo non ci è dato saperlo.

 

 

17 - Levate a cammisella

 

In occasione della fiera di ottobre 1903 un gruppo di canzonettiste, com'era uso, in piazza Cavour, a Favara, tenne alcuni dei soliti concerti, dove si cantavano le più o meno scollacciate canzonette. Durante una di queste rappresentazioni, uno zolfataio, con insistenza ha chiesto alla cantante Gemma Rossi di 23 anni da Firenze, la tanto vecchia canzonetta "Levate a cammisella". Lei oppose un rifiuto; ma non l'avesse mai fatto, questa semplice negazione recò offesa mortale allo zolfataio, il quale estrasse la rivoltella e scaricò alcuni colpi all'indirizzo della Rossi e dell'impresario Salvatore De Maria di anni 28 da Cerda. La prima rimase ferita lievemente ad un dito di una mano, mentre il De Maria rimase gravemente ferito al torace, con lesione al polmone. A questa scena seguì una fuga generale degli spettatori, mentre i feriti si misero a gridare finché furono uditi da alcuni cittadini che si trovarono in piazza, i quali prestarono i primi soccorsi. La pubblica sicurezza individuò subito i responsabili e procedette all'arresto di Carmelo Tinaglia di Giovanni di anni 28, di Leonardo Fiascone di anni 30, entrambi di Favara, e Leonardo Polipo di anni 30, inteso "Turiddu Franculinu" da Racalmuto, i primi due furono cooperatori immediati e l'ultimo esecutore materiale del ferimento. Il Polipo, individuo di bassa statura, con lungo ciuffo di capelli e brutto in viso, reo confesso, con ributtante cinismo, ha ricostruito la scena nei termini di seguito descritti. Il Polipo si trovava in compagnia dei suoi amici in quel locale canzonettistico, quando avendo inteso diverse canzonette, richiese "Levate a cammisella". La chanteuse oppose un rifiuto, anzi ordinò che finisse lo spettacolo. Il Polipo allora uscì e si recò a casa ad armarsi e ritornò nel locale nel momento che si dava principio ad un altro spettacolo. Richiese nuovamente la desiderata canzone e tanto De Maria, quanto la Gemma persistettero nel negarsi perché quella canzone si trovava fra quelle censurate dal delegato di P. S. Inoltre, secondo quanto detto dal Polipo, il De Maria gli avrebbe detto; "Falla cantari a tò soru". A questo punto estrasse l'arma e scaricò all'indirizzo della coppia De Maria-Rossi cinque colpi, mentre gli spettatori, oltre un centinaio, fuggirono da quel ritrovo.  Il Polipo, messosi al braccio di uno dei due amici che lo fiancheggiavano, con la massima disinvoltura uscì dal gabinetto canzonettistico ed incontrò suo cognato, tale Puma Giovanni di anni 12, a cui consegnò l'arma ancora fumante, incaricandolo di portarla alla famiglia e come nulla fosse avvenuto, si è messo a passeggiare per la piazza fino a ora tarda.

 

 

18 - Primo cinematografo a Favara

 

Risale al 4 maggio 1906 il primo cinematografo mobile a Favara. Era un grosso carrozzone, come un vagone tirato da tre robusti muli, con tettoia di lamiera metallica e dentro una caldaia a vapore. Per la prima volta questo spettacolo, vero trionfo della scienza moderna, arrivava in Favara. Ha preso stanza in fondo alla piazza Cavour su concessione del Comune, per 4 lire al giorno, tra le chiese del Purgatorio e del Rosario, dove, per l’occasione venne eretto un grosso padiglione in legno da parte di Marrone. Sotto la direzione del pittore adornista Calogero Cascio, venne dipinta la facciata di tavole del cinematografo. Il popolino non comprendeva il magistero tecnico e scientifico di quelle apparecchiature e accorreva spinto dalla curiosità. Quando giunse l'ora della proiezione la popolazione venne avvisata con fischi simili a quelli lanciati dalla locomotiva e dalla sirena dei piroscafi. A tutti piacque questo nuovo divertimento procurato dalla scienza; anche le donne affluirono. Il cinematografo levò le tende al nascere del sole del 21 maggio. Sarebbe rimasto ancora a Favara, ma Marrone, aveva promesso l’uso della struttura ad una compagnia di operetta.

 

Arciprete Salvatore Pirrera

il sacerdote Salvatore Pirrera

 

19 - Primo esordio della Democrazia Cristiana a Favara

 

Il primo partito cattolico ispirato da Papa Leone XIII, col nome “Democrazia Cristiana” nacque in Favara nel 1904. Fu iniziale espressione di una riservata combriccola di alcuni preti che assorbirono tutti i poteri e che in intime confabulazioni decisero e fecero ciò che vollero. Nel proporre un candidato al Consiglio Comunale non consultarono alcuno, non radunarono l'assemblea, non chiamarono i membri più influenti e interessati. Le conseguenze furono che il monte partorì il topolino. Nel rinnovo del Consiglio Comunale del 1905 venne candidato ed eletto il sac. Salvatore Pirrera (v. foto) che fece la prima comparsa in Consiglio il 10 settembre. Per l’occasione lesse una lunga filastrocca, una sorta di predicazione che fece ridere tutti. Ecco la superbia dove ha condotto Pirrera ed il partito. Pirrera avrebbe potuto chiedere consiglio e certamente avrebbe risparmiato beffe, danno a se stesso e al partito cattolico. Il direttore del giornale “La Campana del Popolo”, il sicario della penna Menico Sajeva ebbe bella occasione per tartassare il sacerdote Pirrera nella sua Campana del Popolo (n. 12 del 18 settembre 1905) dove gli ha fatto una solenne lavata di capo. Oggi qualcuno si stupisce che spesso i preti si intromettono in affari di politica. Se l’intromissione ha per obiettivo la moralizzazione, che ben venga, Favara ne ha tanto di bisogno. D’altronde negare l’intervento della chiesa nella vita socio-politica significherebbe negarne la storia.

 

Salvatore Pirrera - v. foto -fu nominato sacerdote nel 1881 e arciprete di Favara nel 1927, fino al 1947; morì nel 1953 e il suo corpo giace in un loculo dell’abbandonata cappella Genco, nel cimitero di Piana Traversa.

 

Pappagallo

 

20 - I pappagalli di donna Momma

(tratto dai diari intimi del barone Antonio Mendola e liberamente interpretato)

 

I pappagalli di mia sorella Momma (Girolama) hanno preso il volo assieme agli altri animali del museo, imbalsamati dal mio protetto Aleo Nero. Sono stati portati nella mia antica residenza di piazza Cavour (ora municipio). Chi lo doveva dire!. Povero museo! … quanta cura, quanto interesse e … quanta espoliazione dopo la mia morte. Mentre il mio corpo giace inerme nella tomba, da quassù quanto ancora devo vedere!. Dei tanti oggetti etnici mandatimi dal mio carissimo Michelino Internicola, sempre in giro per il mondo sulla sua real nave, non sono rimaste che poche lance. Resiste ancora l’inerme e tenace corazza di qualche crostaceo donatomi da Alfonsino Agrò da Porto Empedocle, promesso e fallito sposo di mia nipote Graziella per la testardaggine di mio fratello, di mia sorella, di mio nipote Ciccio Scaduto, andato poi in sposo ad Annetta Pirandello (sorella di Luigi). Resistono ancora gli animali che il mio amico Perrotta catturava nel lago di Lentini e di tanto in tanto mi mandava con le poste. E che dire dei pappagalli di mia sorella. Anche lei, come me non è stata sfortunata. Io nutrivo una forte passione per i cani, gli unici amici che in quel bruto mondo materiale e corrotto, in quella mia Favara di ignavi africani, mi davano un poco di conforto e affetto. Anche i cani di gesso che avevo fatto mettere sui pilastri del cancello d’ingresso della mia villa Piana non ebbero mai riposo. Erano continuamente presi a sassate; ma perché, che cosa ho mai fatto a questa mia Favara, ai miei paesani, che da me hanno ricevuto tanto bene!. E mia sorella?. Ricordo quel pappagallo tanta caro a lei, trovato moribondo. Era stato lasciato solo e spesso al buio per una settimana nel periodo luttuoso di tafferuglio che ha avuto l’epilogo con la morte di mio fratello. Ne volle un altro, era verde, stupido, muto, ma gli è morto pochi mesi dopo (15 marzo 1903 – v. foto). L’ho passato ad Aleo Neo per imbalsamarlo. Gli è morto anche il nuovissimo pappagallo Giaco. È stata una disdetta umana. A lei tutti i pappagalli, a me tutti i cagnolini. Non ho chiesto e non chiederò mai niente alla mia amata e odiata Favara, soltanto un poco di considerazione per il mio patrimonio che gli ho voluto lasciare.

 

Pappagallo Giaco

via Belmonte e palazzo omonimo

l'antico palazzo delle famiglia Belmonte

 

21 - Via p. Belmonte: un toponimo da correggere

 

Qualche anno fa, nel rifacimento delle tabelle toponomastiche di Favara, la “via Belmonte”, che sfocia nella piazza Cavour, veniva rinominata “via p. Belmonte”. Se nel primo caso il riferimento risultava generico, nel secondo è stato traviato col chiaro riferimento al principe di Belmonte. In realtà il toponimo è da riferire ad Antonino Belmonte, originario di Sutera (CL), dove nacque nel 1644, il quale ha sposato Giovanna Maria Chiarello di Aragona (AG), dove per qualche anno ha svolto l’attività di notaio. Rimasto vedovo, nel 1682 ha risposato Angela Piscopo di Favara e qui ha continuato a svolgere la sua attività fino al 1718. È morto a Favara nel 1729. Degli otto figli, solo il notaio Giovanni Battista ha continuato la progenie con Grazia Provenzano, da cui ha avuto sedici figli. Tra questi, Gaetano, l’unico che ha continuato la discendenza con Giuseppa Palermo, da cui ha avuto dodici figli, di cui solo Antonino si è ammogliato con Maria Antonia Mendola (sorella del barone Andrea, nonno del noto Antonio), da cui ha avuto tre figlie, con le quali la famiglia si è estinta.

 

villa Piana del barone Antonio Mendola

 

22 - Diamo il giusto nome alla villa liberty del Barone Mendola

 

Nel lontano 1902, sopra una striscia di tela bianca, sotto il palazzo Fanara, in piazza Cavour, a Favara, Giuseppe Incagnola teneva scritto sulla sua bottega, in bello stampatello classico romano: “Ristorante”.

Lacerata dal vento la tela, Incagnola ne ha messa una seconda con scritta in stile moderno “Liberty”. “Io non so leggerla bene, consideriamo il popolo!. Che diamine di stile è questo Liberty?” commentava il Barone Antonio Mendola. E continuava: “Vogliono avere uno stile nuovo, battezzato con parole nuove ed invece hanno raffazzonato un mostriciattolo deforme, uno stile senza stile, una cosa brutta. …”.

Chi doveva dire al barone che gli intelligentoni amministratori favaresi, dopo più di un secolo, dovevano chiamare la villa del Barone con lo stesso nome che lui odiava: LIBERTY. Ma cosa c’è poi di liberty nella villa del Barone in contrada Piana?. In effetti la villa del Barone riporta alcuni caratteri stilistici architettonici (ingresso, porte esterne e finestre) ascrivibili al revival gotico, o meglio, al neo-gotico, una delle correnti artistiche che concorsero a determinare lo stile Liberty.

Ma è più corretto chiamarla “Villa Liberty” per alcuni caratteri stilistici o “Villa Piana” così come il Barone la chiamava.

Spero che l’espressione profonda di una riflessione del Barone nella sua amata Villa Piana possa far cambiare idea a tutti. Era il 29 giugno 1905 ed aveva 78 anni il Barone quando ha scritto queste sue riflessioni - Alle 2,30 p. m. parto per villa Piana per rimanerci anche di notte, al solito. Stasera ho visto tramontare il sole e venire la notte alla Piana, nel silenzio e nella solitudine. Mi sono seduto, al solito, dall'ave fino ad un'ora di notte, sul sedile presso la colonna del pergolato che fa angolo tra le due corsie, quella che viene dal portone e quella che va alla cantina. Affranto nelle forze del corpo, depresso nell'animo, sedevo quasi ebetico e ricordavo in modo confuso e annebbiato il passato col presente. Le antiche allegrezze e le nuove malinconie. Tutto è mutato, il cuore non ride, l'anima è deserta. Mi fanno compagnia gli alberi pur essi invecchiati, la notte e le stelle. Dicevo tra me: La vita è un gioco, un trastullo, un lampo, un composto di luce che guizza e passa subito. (30 giugno 1905) Ho dormito imperfettamente, cioè di sonno non profondo. Mi sono svegliato alle 4 di mattina. Sempre le stesse impressioni, le stesse rimembranze degli ultimi anni. Silenzio, solitudine, nebbia scura nel cuore. Mi manca l'udito. La solitudine si fa più austera, accompagnata dal silenzio profondo. I grilli cantano. canta il gufo, zittisce il barbagianni. I miei domestici lo sentono e ne parlano, io non odo più nulla. Anche questo conforto, questo concorso delle creature fatte per sentire la vita durante la notte che è una specie di morte temporanea della natura mi manca. Il villeggiare o anche lo star nell'aperta campagna che prima era dolce per me, oggi è divenuto amaro, o per lo meno ha perduto le sue attrattive soavi e dilettevoli. La campagna suol essere deliziosa per gli abitatori della città, quando dalla vita travagliata e torrida passano al quieto riposo, quando dall'aria densa e impura delle strade affollate di palazzi e di persone vanno a respirare le grandi correnti dell'aria libera e ossigenata dei campi, quando dall'afa infuocata che lambisce le più infuocate mura delle strade, godono la piccola brezza dei campi che rinfresca un pochino la fibra loro affievolita dai calori eccessivi dei formicus umani. E per me tutti questi vantaggi la malinconia non mi permette di gustarli. I miei sensi sono come ottusi, le percezioni passano quasi inavvertite, o meglio, manomesse dall'interno dolore. Ieri sera mentre la mia mente era in un sopore confuso, come un dormiveglia, chiedevo a me stesso: L'anno vegnente ritornerò, di questi giorni, in questo luogo?, si ripeterà questa scena della mia vita? Purtroppo ne dubito. Adesso non conto più gli anni, ma i giorni. La distanza tra la vita e la morte, tra la villa Piana e il cimitero è brevissima, basta un sol passo, un sol giorno per sorpassarla. Intanto ringrazio Dio, piglio il tempo come viene. 

 

 

23 - Liti e questioni sull’eredità del sacerdote Mulè

 

Come spiegato nel precedente articolo il beneficiale della Confraternita delle Anime SS. del Purgatorio (dentro la chiesa di S. Rosalia, in piazza Cavour, a Favara), sac. Pasquale Mulè, teneva in casa un sedicente nipote chiamato Gerlando Licata. Arrivato alla maggiore età il Licata, nel 1813 volle fare promessa di matrimonio con una giovincella di Favara e, come regalo di nozze, il sac. Mulè, con scrittura privata, volle regalare al futuro sposo un luogo di terre alberate con casina rurale in c.da Falsirotta ed altri ancora nelle c.de Stefano e Caltafaraci. Il regalo da parte del Mulè al presunto nipote aveva come obiettivo soprattutto quello di renderlo indipendente dal punto di vista economico, ma in realtà le cose non andarono così e, dopo il matrimonio, i rapporti fra i due divennero burrascosi. Un giorno il presunto nipote, dopo una insoddisfatta richiesta di denaro, forzò il cassetto del tavolo di casa del prete per rubare dei soldi, mentre in altra occasione pare gli abbia falsificato la firma; queste ed altre questioni ancora mandarono in escandescenza l’irruente sac. Mulè, al punto da cacciarlo di casa. Quest’ultimo, per vendetta, faceva tagliare alcuni grandi alberi di carrubo e faceva svellire il tetto di casina rurale nelle terre del sac. Mulè. Siffatti gesti accesero sempre più la collera del Mulè, al punto da pentirsi amaramente delle donazioni fatte, tanto che con una memoria del 1837 dichiarava falsa la succitata carta privata suscitando le ire del sedicente nipote, il quale minacciò di rivolgersi alla giustizia. Il Mulè, per non sottoporsi al potere giudiziario ed ai giudizi della gente, perveniva ad una transazione in favore del nipote. Detta transazione però non bastò a sedare la lite, poiché dopo poco tempo fra i due iniziò un vero e proprio contenzioso ed i rancori che ne scaturirono da parte del Mulè continuarono anche negli ultimi istanti della sua vita. Durante vita il ben.le Mulè aveva scritto due testamenti. Nel secondo testamento, a poco meno di due mesi dalla morte, per paura del giudizio divino rivelava di aver comprato a proprio nome, ma con introiti della chiesa, una casa in paese ed un appezzamento di terra in c.da Gelardo, dove esistevano delle vene di zolfo. Con quest’ultimo testamento il Mulè istituiva erede dei propri beni l’altare del SS. Sacramento nella chiesa del Purgatorio e per questo nominava due fidecommissari sacerdoti, con l’obbligo da parte di questi ultimi, di tutelare l’asse ereditario dalle malevoli insidie dal sedicente nipote. Ma le questioni maggiori ebbero inizio dopo il 1838, anno in cui il Mulè venne chiamato al giudizio di Dio. Dopo la morte del Mulè si procedeva alla stima e all’inventario dei beni che comprendeva case d’abitazione nel quartiere madrice, terre in c.da Milione, in c.da Piana dei Peri, in c.da Stefano ed altre ancora in c.da Pioppo con vigneto, casina e palmento, oltre a due mule e oggetti vari. Il Licata venuto a conoscenza di alcuni oggetti di pertinenza di quella successione, carpendo la buona fede dei fidecommissari ancora non legalmente autorizzati e, probabilmente ignari del passato, si faceva nominare depositario di tutti i beni inventariati. Chiamato successivamente alla consegna, detto Licata si negava, anzi faceva ricorso a quella successione, con notevole disorientamento da parte dei fidecommissari. Il Licata, trovando così terreno fertile, avanzava delle pretese, dichiarandosi depositario dei beni mobili ed immobili dell’eredità Mulè stante una donazione – a suo dire - non interamente adempiuta. Il Licata intanto, viste le difficoltà, si rifugiava sotto le grandi ali del vescovo di Girgenti, il quale con molta premura cercò le vie della conciliazione. Il vescovo nominò un arbitro inappellabile del litigio per pervenire ad un compromesso. Scaduti i termini legali della vertenza senza risoluzione, si cercò di pervenire alla stipula di un secondo compromesso. Scaduti nuovamente i termini, se ne stabiliva un terzo. Falliti i reiterati compromessi, a cagione che l’arbitro mal secondava le ingiunzioni del vescovo, si ricorreva al disegno di una transazione fra le parti contendenti. Questa transazione però non ebbe luogo a seguito seguito dello scoppio della rivolta nazionale del 1848, nel cui frangente il vescovo fuggì ed i fidecommissari, liberati dall’immane giogo, respinsero il calice amaro. Fu così che la causa veniva spinta in giudizio innanzi il tribunale che, con sentenza del 1849, condannava il Licata al rendiconto dei frutti dallo stesso percepiti ed alle spese. Ma con il rientro del Borbone vincitore anche il vescovo faceva ritorno in diocesi ed imponeva ai fidecommissari un’altra transazione. L’atto veniva respinto dalla Consulta di Stato in quanto ritenuto subdolo e lesivo nei confronti dei diritti della Congregazione. I fidecommissari trovandosi fra l’incudine ed il martello non osarono più riprendere il giudizio salvo che nel 1859. Scoppiata la rivoluzione nel 1860, caddero i fidecommissari e con essi una pietra sepolcrale stramazzò sulla vertenza, mentre i rettori della chiesa che si susseguirono da allora, ai quali sarebbe spettata la competenza di rimuovere il giudizio, chi per un verso, chi per un altro rimasero nell’oblio più profondo. Nel 1864, per essere venuto meno ai viventi il beneficiale della Congregazione Calogero Arnone, nel 1866 prendeva possesso del beneficio del Purgatorio il sac. Pietro Avenia, il quale, a suo dire, veniva a conoscenza di nuovi inganni che la Deputazione Provinciale tramava con gli eredi Licata. Con lettere del 1868 i figli dell’ormai defunto Gerlando Licata chiedevano al presidente e componenti la Deputazione Provinciale di Girgenti, di impartire omologazione alla transazione del 1847. Il beneficiale sac. Avenia inviava un reclamo al prefetto presidente della Deputazione Provinciale ed un altro al Ministro dell’Interno, onde prevenire una malsana intromissione della suddetta Deputazione. In riscontro ai suddetti reclami il prefetto Basile scriveva alla Deputazione Provinciale facendo constatare che l’eredità Mulè era rivolta ad esclusivo oggetto di culto e che non costituiva opera pia ai sensi della legge del 3 agosto 1862 e che comunque la questione era passata in autorità di cosa giudicata e che non poteva di certo ravvisarsi indebita qualsiasi ingerenza della Deputazione in tale affare. Il 27 febbraio 1869 lo stesso prefetto, evidenziava l’incarico assegnato dal Governo di statuire l’attendibilità delle transazioni del 1847 e 1850 dopo che gli amministratori fidecommissari dell’opera in discorso erano stati dichiarati decaduti. A seguito della morte del sac. Pietro Avenia, con bolla del 1878, il Vescovo di Girgenti rinnovava il beneficio delle Anime Purganti al sac. dr. Angelo Giudice. Il nuovo beneficiale volendo a tutti i costi tutelare i diritti del beneficio, dopo aver esaminato con cura le scritture e i documenti, dopo aver consultato persone, gli risultarono inconcusse le ragioni della Congregazione delle Anime SS. del Purgatorio sulle terre e case occupate dalla famiglia Licata che, a suo parere, per causa di debolezza ed impotenza dei predecessori fidecommissari, per tanti anni sfruttò come cosa propria. Spinto anche da alcuni debiti lasciati dal predecessore, il beneficiale Giudice iniziava così dei solleciti per la restituzione dei pingui frutti sottratti alla chiesa. Una nota della Direzione Generale del Ministero dell’Interno del 1879 indirizzata al Prefetto sembrò finalmente diradare la folta nebbia che da decenni offuscavana il campo dell’eredità Mulè. Detta nota evidenziava che la chiesa del Purgatorio era esente da soppressione perché dichiarata coadiutrice e succursale della chiesa parrocchiale, ragione per cui l’eredità Mulè non poteva che ritenersi disposta in favore di un Ente conservato ed anch’essa immune da soppressione. Si riservava quindi codesta Direzione di far procedere alla presa di possesso degli immobili ricadenti in detta eredità, ai sensi della legge 7 luglio 1866, art. 32. Inoltre, non costituendo detta eredità un’opera pia ai sensi della legge 3 agosto 1862, non poteva che ravvisarsi indebita qualsiasi ingerenza della Deputazione Provinciale in affari riguardanti detta eredità, come già lo stesso Ministero aveva fatto notare con propria precedente nota. Fu così che nel 1880, con atto in notar Biagio Miccichè trovava finalmente risoluzione una questione annosa che si trascinava da quarantadue anni. I figli e la vedova di Gerlando Licata si dichiararono pronti a pagare al beneficiale Giudice tutti gli arretrati derivanti dalle due vecchie transazioni, con decorrenza dal 1868. In piena adesione inoltre alle due transazioni, detti eredi si obbligarono a corrispondere una certa somma sul fondo del Milione ed il 10% del ricavato in caso di rinvenimento di zolfo.

 

 

Lapide di Paolo Cafisi di Giuseppe del 1846

 

24 - Una lapide del 1846 riutilizzata come davanzale di finestra

 

Il centro storico è stato da sempre uno scrigno di arte, storia e memoria. Ne è esempio questa lapide tombale rinvenuta dall’arch. Michele Vitello durante un intervento in una delle tante modeste dimore del centro storico di Favara. Ma vediamo di capirne di più. La lapide reca incisa la seguente iscrizione:

Paulus Cafisi flos mihi datus XIII februarii MDCCCXLIV

Die XX decembris MDCCCXLVI a morte ablatus hic quiescit

Ioseph Cafisi pater posuit et cum lacrimis

Trattasi di un bambino nato il 13 febbraio 1844 e morto il 20 dicembre 1846 il cui nome di battesimo fu Francesco Paolo, ma per la famiglia semplicemente Paolo. Quarto ed ultimogenito di Giuseppe Cafisi (v. foto - di Stefano e Giuseppa Lombardo) e Teresa La Lomia (del barone Agostino e Rosalia Li Chiavi) di Canicattì.

La famiglia, tra le più facoltose di Favara, dimorava nel palazzo in fondo alla piazza Cavour, accanto all’attuale biblioteca A. Mendola, addossato all’antica cinta fortificata del castello, ad est dello slargo che immette in via Arco Cafisi. Giuseppe, detto Marchese vecchio fu deputato al parlamento nazionale e sindaco di Favara dal 1846 al 1850 e nel 1874. Teresa La Lomia sposò Giuseppe Cafisi nel 1841, ma era rimasta vedova nel 1837 da Antonio Licata (di Biagio e Maria Cafisi) che aveva sposato nel 1831, da cui aveva avuto cinque figli, fra cui il primogenito Biagio principe di Baucina e senatore del Regno.

Ritornando a Paolo, questo nome il padre non lo scelse a caso, ma in memoria dello zio avvocato Paolo Cafisi (n. 1776 – m. 1840). Siamo nel periodo del Regno delle due Sicilie, il cimitero a Favara ancora non esisteva (Piana Traversa risale al 1877) e com’era consuetudine, i morti venivano seppelliti sotto le chiese, dove poche famiglie facoltose possedevano una tomba, mentre la quasi totalità dei defunti veniva gettata all’interno di cripte senza una lapide, senza una iscrizione che li ricordasse.

L’infante Paolo Cafisi venne sepolto all’interno della chiesa di S. Maria ad Nives e S. Vito e per ricordare il triste evento il padre Giuseppe all’interno del sacro edificio fece collocare la detta lapide. Sicuramente in occasione di qualche lavoro eseguito nella chiesa, in epoca imprecisata, il prete pensò di disfarsi di questa lapide che poi venne riutilizzata come elemento di spoglio, per davanzale di finestra.

 

Giuseppe Cafisi di Stefano

Giuseppe Cafisi

 

25 - La febbre del lotto

 

All’inizio del 1900 nel popolo favarese regnava una grande effervescenza. Quasi tutti i devoti del lotto, ed erano molti, giocavano e qualche volta prendendo belle vincite. Nel 1904, da un sommario conto nei botteghini, risultò una vincita di circa 200.000 lire. In quei tempi di fame e miseria, questa inaspettata pioggia di denaro era un grande refrigerio, da un canto rappresentava una vera manna dal cielo, dall’altro però si capiva che in breve tempo i giocatori avrebbero riversato le vincite nuovamente nei banchi del lotto. Dopo la vincita vistosa, il popolino inebriato, credendo di avere già aperte le porte della fortuna, giocava a più non posso. I botteghini erano presi d’assalto, erano pieni zeppi di giocatori e più di giocatrici che gridavano, gesticolavano, facevano guerra a gomiti e bestemmie. Finiti i libri di registro e chiusi i banchi, le donne correvano, come dissennate, a giocare in Girgenti. Non si ricorda mai in Favara un simile parossismo, una febbre psicologica così infuocata. Quello del lotto era diventato un gioco birbone, seduttore, espoliatore e dissanguatore del povero popolo. Nella metà di aprile 1904 si è toccato l’apice; si dovettero chiamare i carabinieri per tenere l’ordine. Tutto il popolino favarese era intento a giocare il terno 5, 12 e 26. Questi numeri erano stati pronosticati da don Isidoro, monaco francescano forestiero, da molti anni stabilitosi in Favara. Morendo intorno al 1882, fra Isidoro aveva lasciato detto che appena morta la sua perpetua, dovevano uscire i tre numeri. La serva è morta il 13 aprile e si scatenò l’inferno. Il popolino prese d’assalto i botteghini fino a notte. Esauriti i registri si dovettero richiamare nuovamente da Girgenti e da Palermo. La prima settimana il popolo giocò 15 mila lire e 14 mila lire la seconda. I poveri forsennati, per giocare vendettero pure abiti, utensili, scarpe, perfino la minestra. Le lotterie adescavano principalmente i poveri e li spogliavano, anzi, qualche volta li portavano alla follia e al suicidio. La vergognosa bugiarda, anzi delittuosa reclame degli impostori cabalisti continuava sempre, si ammantava di religione, ponendo per cabalisti pure i monaci. Anche i giornali, organi della pubblica opinione, per solo guadagno venale, pubblicavano conti, avvisi e certe storielle relative a matematici e cabalisti da far trasecolare. Una storia assolutamente singolare è avvenuta in un Venerdì Santo del 1951. Erano circa le 12 quando l’effige di Gesù veniva messa in croce da due preti. A un certo punto successe il fuggi fuggi, con grida di terrore della folla dei fedeli che assistevano, come da tradizione, alla crocefissione. Nessuno si era accorto che la croce di legno, molto vecchia, era macera alla base. Così, sotto il peso della statua e dei preti che erano saliti sulle scale, la croce cedette e spezzandosi, precipitò a terra con la statua, i preti e le scale. Lo spavento e le grida della folla che ai piedi del Calvario assisteva al rito della crocifissione fu enorme. In mezzo a tanto spavento esplose pure la fantasia popolare e una marea di gente si precipitò nell’unico botteghino del lotto sito in via Umberto di fronte all’allora caffè Albergano. Il titolare non ebbe difficoltà a smorfiare il tragico evento nei numeri della cabala : 31- 47- 90. Molti giocarono il terno e molti altri rimasero delusi, perchè il botteghino chiuse alle tredici definitivamente. Tutti i fortunati che erano riusciti a giocare aspettavano con ansia il sabato, quando il lotto nazionale pubblicava i numeri vincenti. Tra le grida di gioia e lo stupore di tutti, i numeri giocati uscirono e, chi era stato fortunato a giocarli, vinse un bel po' di soldi.

 

Bestiario

 

26 - Bestiario favarese

 

Molti anni addietro, quando l'analfabetismo era dilagante, donne e ragazzi,  erano terreno fertilissimo per far germogliare da un nonnulla, le cose più strane. La gente comune facilmente si commuoveva con la semplice notizia di un fatterello impressionante, anche se illogico. La commozione di uno passava ad un altro e così via, trasmettendosi e insinuandosi in migliaia di persone che assimilavano la notizia del fatto, senza vederlo o averne certezza, secondo il proprio stato emozionale. Dall'immaginazione umana, dalle credenze superstiziose o prescientifiche nascevano, quindi, violentando e alterando in modo abnorme le forme della realtà: creature fantastiche, mostri che si aggiravano di notte, nascosti nelle ombre, incarnazioni del male, a volte nati dall'unione di elementi bestiali ed umani e, cosa più credibile, atte a celare diversi e più profondi messaggi.

 

Biddina

Si raccontava anticamente che nei dintorni di Favara viveva un mostro chiamato Biddina (dall’arabo grosso serpente d’acqua): mostro terribile, un serpente di qualche metro con una mole tale da poter inghiottire in un solo boccone un agnello o addirittura un piccolo uomo. Nella seconda metà del 1800 si era sparsa la notizia che era apparsa una grossa e spaventosa bestia nel torrentello del Conzo. Chi diceva un grosso rettile con bocca ed occhi rossi: a biddina, chi un drago, chi un altro mostro curioso. Sono accorsi i carabinieri per scovare questo immaginario animale e non hanno trovato nulla. Una credenza popolare voleva che al Conzo, in tempi remoti, fosse stata uccisa una biddina.

 

Chioccia d’oro

Si narrava, anticamente, che la montagna Caltafaraci fin da tempo molto remoto sia stata gelosa custode di un inestimabile tesoro, al punto, come si diceva, che: <<Si cadi Gibilitumminu si arricchisci a Sicilia>>. Cadendo, dunque, Gibilitumolo (contrada che indicava il monte) si sarebbe trovato un immenso tesoro. Da qui la leggenda della chioccia coi 25 pulcini d’oro che vivevano in seno alla montagna Gibilitumminu, ma che non si sono fatti mai vedere di giorno perché dotati di virtù tali che, anche passando vicino a qualche povero mortale, questi non si sarebbe avveduto di loro. La notte la passavano all’aria libera, ma non si facevano mai prendere. Si narrava, infatti, che alcuni, smaniosi di possedere un sì grande tesoro, abbiano passato parecchie notti attorno al monte, che pochi privilegiati avrebbero visto i pulcini e che, all’atto d’inseguirli se li sarebbero visti sparire davanti. Ma i pulcini avevano l’incanto e quindi era impossibile prenderli. In che cosa consisteva il tesoro che nascondeva la montagna la tradizione non lo ha mai precisato.

 

Malaluna

Un ululato di un cane nella notte alla luna piena evocava nell’uomo emozioni ambivalenti: terrore ancestrale e struggente malinconia. E ambivalente è sempre stato il rapporto tra l'uomo e il lupo, da una parte terribile nemico, dall'altra animale sacro o addirittura divinità e oggetto di culto per alcune civiltà. Durante la luna piena per le vie buie di Favara si aggirava uno strano essere e molti, rintanati in casa, sotto le coperte hanno giurato di averne sentito i passi e i terribili ululati. La mente rimaneva umana ed era facile tenere la bestia sotto controllo, anche se, comunque, gli ormoni, i sensi ed il cervello da lupo avevano i loro effetti sul comportamento. Era possibile tornare alla forma umana senza essersi trasformati completamente in quella di lupo, e anche restare per un periodo di tempo in una forma intermedia, un corpo umanoide, peloso, dal petto ampio, dalla testa di lupo e con zampe al posto delle mani. In alcuni casi, restavano in una forma intermedia molto simile a quella umana, ma coi lineamenti del viso irriconoscibili. Per sfuggire una malaluna poteva rivelarsi sufficiente gettargli addosso un mantello, fargli paura con una forte luce o salire una scala.

 

Biddina

Chioccia coi pulcini d'oro

Licantropo

Altare con la Madonna di Fatima e Cristo morto

Cristo morto

 

27 - Figlio di un dio minore

Cappella della Madonna di Fatima nella navata del SS. Crocifisso della matrice di Favara, il cui tabernacolo custodisce il Cristo morto

 

Esisteva a Favara una chiesetta rurale dedicata al SS. Crocifisso,  volgarmente chiamata delle due miglia per la distanza che intercorreva fra questa ed il centro abitato di Favara. La presenza di questo luogo sacro è attestato con certezza nel 1721 attraverso un atto del notaro Grazio Cafisi, riguardante una rendita sopra una vigna vicina a detta chiesa, nel feudo di Burgelamone, dove la chiesa era ubicata. Nella prima metà del 1800 la chiesa era in rovina e venne ricostruita e benedetta nella primavera del 1843. Nella seconda metà del 1800 in prossimità della chiesa avvenne un omicidio e da quel periodo in poi, per una serie di vicissitudini, venne frequentata sempre meno e perfino abbandonata, al punto da subire una sfrenata espoliazione degli oggetti ivi esistenti, compreso tegole, mattoni, legname, porte, ferramenta ed altro. La tradizione orale ci da notizia sulla provenienza, da quella chiesetta rurale, di un Cristo crocifisso morto e deposto all'interno della madrice di Favara, sotto l'altare della cappella della Madonna di Fatima, addossato al muro nord della navata del SS. Crocifisso. Niente ci conferma quanto trasmesso dalla tradizione orale, ma c'è un particolare che potrebbe rivelarsi importante e riguarda un inventario dei sacri arredi redatto nel 1833, periodo in cui le fabbriche della chiesa delle due miglia minacciavano rovina. Tra calici, messali, pale d'altare pittate, si legge anche di una statua del SS. Crocifisso di palmi 6 circa. Ora, se è vero, come è vero, che sei palmi corrispondono ad una lunghezza di 1,50 metri, le cose dovrebbero corrispondere visto che le dimensioni del Cristo deposto sotto il tabernacolo della Madonna di Fatima ha quella lunghezza. Fino a questo punto nulla da eccepire, a parte la notizia storica interessante. C'è, però, una nota stonata in questa situazione, ed è il fatto che l'ex arciprete don Giuseppe Veneziano ha interdetto alla pubblica visione questa splendida statua, occultandone la visione con un pannello rosso bene incorniciato. La decisione di don Giuseppe Veneziano è maturata per il fatto che buona parte dei fedeli che si recavano alla madrice si fermavano ad adorare il Cristo deposto anziché il Cristo Crocifisso presente nell'abside della stessa navata. Questa decisione ha sicuramente cozzato con una tradizione popolare, visto che da molti fedeli non è stata bene accettata. A questo punto c'é da chiedersi: forse il Cristo morto e deposto sotto l'altare della Madonna di Fatima è figlio di un Dio minore? Quel Cristo non è lo stesso Cristo Crocifisso in fondo alla navata? Se così è, cosa cambia per la chiesa? Cristo non può essere adorato in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo?

 

Cristo morto

Processione con la statua di S. Calogero in piazza Gallo, ad Agrigento, nel 1934.

 

28 - Il miracolo clandestino di S. Calogero di Girgenti

 

Così come oggi avviene, in Girgenti, nell’800 la statua di S. Calogero veniva portata per le vie della città a spalla da parte dei fedeli. Era una vera e propria baraonda, un vero tripudio baccanale. Dalle finestre e balconi si lanciavano in faccia al povero Santo i “muffoletti” o pagnottelle di pane ben lievitato e soffice, conciato con anice, ceci, orzo, fave, frumento ed altro ben di Dio. Fra la seconda metà del 1800 e la prima metà del 1900, imitando il festino di S. Rosalia di Palermo, si sostituì la spalla dei portatori con un gran carro ornato, tirato da diversi buoi. Con gran calca di popolo, di gente ebra di vino e di festività, il Santo percorreva la via Atenea, scendendo fino alla chiesa dell’Addolorata, nel quartiere Rabbatello. La chiesa dell’Addolorata aveva due porte, quella principale verso la città e un’altra secondaria, nell’abside, verso la campagna, fuori la cinta daziaria. Qualche benpensante meditò di utilizzare quella santa circostanza per fare un santo contrabbando. Non si sa se il prete, o più probabilmente il governatore, dalla porta di dietro introdusse nella pancia del capiente carro una grande quantità di bottiglie di liquori scelti e spiriti e questo, ovviamente, in maniera rigorosamente clandestina, fuori la cinta daziaria. Qualcuno avvertì il prefetto, il quale dispose un bel gruppo di guardie nel mezzo del cammino. Fermato il carro, come un miracolo saltarono fuori le bottiglie a centinaia. Ne conseguì uno scandalo, ma il miracolo ebbe compimento. Le bottiglie furono confiscate e santamente inflitte le multe previste dal dazio consumo.

 

Simboli sacri e massonici nella madrice di Favara

 

29 - Simbologia sacra e massonica nella madrice di Favara

 

Nel centro della volta del presbiterio di una delle due navate secondarie della Madrice di Favara (quella a sud, dedicata a S. Antonio da Padova) emerge all’intradosso, una figura in bassorilievo raffigurante un triangolo equilatero, con al centro un occhio, all’interno di un grumo di nuvole, dal cui centro si irradiano i raggi solari (v. foto). Il triangolo è uno dei più profondi simboli massonici. Come il cerchio, non ha inizio e nemmeno fine; è infinito ed universalmente considerato il simbolo della divinità (nella religione cattolica la divina Trinità), ma può rappresentare passato-presente-futuro, sapienza-bellezza-forza, sale-zolfo-mercurio, nascita-vita-morte, luce-tenebre-tempo, etc. I tre angoli rappresentano i tre regni della natura, impero del Creatore, e le tre fasi della rivoluzione perpetua. L’occhio circondato da raggi d’oro che squarcia la nebbia avvolgente la terra è quello di Dio. Sul piano fisico, rappresenta il sole da cui prendono corpo Vita e Luce; sul piano astrale il Verbo, il Logos, il principio creatore; sul piano spirituale il Grande Architetto dell’universo. Un particolare, però, evidenzia che chi ha realizzato l'opera non era certamente un massone. Un massone non avrebbe mai disegnato un occhio destro o sinistro (come in questo caso), con chiaro riferimento al volto umano. Nella simbologia massonica l'occhio è il sacro simbolo dell’assoluto, l’emblema del principio costruttivo di tutti gli organismi e non può essere assimilato all'occhio umano.