HOME Curiosità di Carmelo Antinoro

PERSONAGGI

 

Indice

Accadde a fra Gioacchino La Lomia a Favara

Papa Giovanni XXIII a Favara

Ludovico Bonito un cardinale agrigentino dimenticato

Una breve storia

Viollet Le Duc a Favara nel 1836

La fotografia nella città dei Templi e il primo fotografo agrigentino

Provenzani: vite d'artisti strampalati

Il barone Agostino La Lomia: l'ultimo degli Arcadi e dei Gattopardi

Il poeta dialettale Alessio Di Giovanni malopagatore

10  Ciccio Piscopo suicida per amore o per spavalderia?

11  Giorgio Grajo: un personaggio straordinario

12  Una storiella scandalosa

13  La madre di Gaetano Guarino arrestata per spaccio di denaro

14  Il Sott.te Giuseppe Cirielli comandante della stazione dei RR. CC. di Favara dal 1887 al 1889

15  Luca Conoci vittima della ferocia umana

16  Il pittore Emilio Claudio Buonpensiere

17  Alessandro Dumas filius populi di Favara

18  Visse un ricco spagnolo 400 anni fa a Favara

19  Ferdinando Privitera ucciso a furor di popolo

20  Morte di don Liddu

21  Leonardo Sciascia a Favara

22  L'omicidio Micari

23  Giuseppe Patania pittore dell'alta borghesia favarese dell'ottocento

24  Vicenzu u mutu: da lurido scimunito a pupo di zucchero

25  Elena Gaudio:  un angioletto volato in cielo

26  Un coraggioso appuntato di P. S.

27  Stefanu Cuppularu

28  Il ragazzo fenomeno suicida

29  Vincenzo Zuccaro: un piccolo genio

30  Giovan Battista Ambrosini e il pesce d’aprile

31  Pasquale Andreoli: una vita da romanzo

32 Peppi Burduni

 

Frate Gioacchino La Lomia

 

1 - Accadde a fra Gioacchino La Lomia a Favara

 

Il frate cappuccino da Canicattì Gioacchino La Lomia, il 1 ottobre 1901 si trovava in Favara a celebrare messa alla madrice. In sagrestia, nello stesso momento, il frate Vincenzo Virone “Carcarello”, di Favara, minore osservante, sparlava nel più vile modo fra Gioacchino, sulla sua innocenza e santità attribuitagli dal popolo; lo qualificava ignorantello, inetto alla predicazione, financo ipocrita, togliendogli ogni virtù cristiana e civile. Appena finita la messa e dopo essersi spogliato dei sacri paramenti e fatto i ringraziamenti di rito, a voce alta e con veemenza fra Gioacchino disse: “Sappiamo tutti che anche il prete ignorante, anche lo scioccarello che io mi sento di essere, è in obbligo di predicare. La parola di Dio ha sempre il suo valore. Non ci guardi la rozzezza dei concetti e della lingua, ma la santità della verità che dentro la parola si racchiude”, insistendo fortemente, nonostante molti preti e chierici si studiavano di calmarlo e di fargli osservare che quelle dichiarazioni erano fuori luogo. Vi erano molti sacerdoti e molti seminaristi presenti e tutti rimasero meravigliati come di un piccolo miracolo. Nessuno aveva riferito a fra Gioacchino le diffamazioni proferite dal sac. Virone; nessuno avrebbe potuto riferirle perché questo parlare del Virone avvenne mentre padre Gioacchino celebrava la messa. Padre Gioacchino abbandonò giovanotto le ricchezze e gli onori gentilizi e spontaneamente o per sola divina vocazione, si dedicò al sacerdozio e, per essere più umile e virtuoso, si fece frate, povero, soggetto all’obbedienza, alla povertà e della castità e tale è vissuto, imitando gli apostoli, lasciò l’agiato vivere civile e corse per il Rio delle Amazzoni e Rio della Plata nel Brasile, dove per quattordici anni non assaggiò pane, né godette i conforti del vivere civile. Tale uomo, di costumi sempre illibati e innocenti, come tutti potevano attestare, senza ambizioni, senza chiedere e pretendere nulla da nessuno, poteva essere ipocrita?

 

Papa Giovanni XXIII

 

2 - Papa Giovanni XXIII a Favara

(Da notizie fornite dal dott. Antonio Sutera, pronipote del citato mons. Sutera)

 

Mons. Giuseppe Roncalli (1881-1963 -  eletto Papa Giovanni XXIII il 28-10-1958) l'11 maggio 1923, si è recato nella città di Agrigento e ad accoglierlo alla stazione c'era mons. Antonio Sutera (1878-1948), rettore del Seminario agrigentino (dal 1918 al 1928). Il giorno successivo dovendo rientrare a Roma, il canonico Sutera  volle accompagnare mons. Roncalli fino a Caltanissetta e, passando per Favara, insieme si fermarono in via Umberto, 119 (abitazione di mons. Sutera), per prendere un caffé ed assaggiare l'agnello pasquale (dolce tipico favarese di mandorla e pistacchio) preparato da suor Concetta Lombardo del Collegio di Maria.

 

(Nella foto un'epigrafe nella cappella del seminario arcivescovile di Agrigento che ricorda la venuta del Papa Roncalli)

 

Particolare con la scritta latina agrigentina sicule tellurisBlasone del cardinale Ludovico Bonito

 

3 - Ludovico Bonito un cardinale agrigentino dimenticato

 

Ludovico Bonito nacque in Agrigento intorno al 1350 da famiglia antichissima, attestata fin dal XI sec. fra i patrizi di Scala, giunti nella Costiera amalfitana da Roma e da qui un ramo trasferitosi in Agrigento, con Andrea, intorno alla fine del XIII sec. La famiglia Bonito risulta iscritta nell’Elenco Ufficiale della Nobiltà Italiana ed ebbe per stemma uno scudo d’azzurro, alla banda d’oro con sei mezzi gigli d’oro partenti dalla banda, tre di sopra e tre di sotto. Agostino Inveges e Rocco Pirri riferiscono che il padre di Ludovico era Antonio, uomo nobile, amico dei Chiaramonte. Ludovico Bonito coronò gli studi con il dottorato in diritto civile e canonico. Divenuto sacerdote, nel 1376 fu nominato canonico e ciantro (cantore) della Cattedrale di Agrigento. Nel 1383 fu eletto arcivescovo della sede metropolitana di Palermo dal papa Urbano VI. Il 1 giugno 1387 Papa Urbano VI conferì al Bonito il pallio vescovile, da lui stesso mandato tramite Manfredi III Chiaramonte. Il 10 novembre 1388 Ludovico Bonito convocò un Concilio provinciale, dove intervennero il vescovo di Agrigento Matteo Fugardo, quello di Mazara e il viceregente di Malta. Gli atti furono scritti di proprio pugno dal Bonito e consistettero in 24 canoni riguardanti il culto divino, la vita e la probità dei chierici, i canonici, i diritti di sepoltura, gli aspetti beneficiali e patrimoniali, etc. Celebrate le nozze nel 1391 tra Martino di Aragona e la regina Maria, il pontefice Bonifacio IX, successore di Urbano VI, cercò di ostacolare l’ascesa di Martino in Sicilia, trovando appoggio in Andrea Chiaramonte, figlio di Manfredi III Chiaramonte, oltre che in Ludovico Bonito. Appena Martino si impadronì della Sicilia nel maggio 1392, Andrea Chiaramonte venne giustiziato il 1 giugno 1392 a piazza Marina, a Palermo, mentre Ludovico Bonito venne espulso dalla Sicilia e accolto dal papa Bonifacio IX che lo gravò di notevoli uffici della curia romana. Nel 1395, il Bonito fu dal pontefice nominato arcivescovo di Antivari, nel Montenegro, in Albania; nel 1396 fu ordinato arcivescovo di Salonicco, in Grecia; Il 5 settembre 1399 Bonifacio IX lo trasferì alla diocesi di Bergamo e il 15 novembre 1400 a quella di Pisa. Nel 1406 fu messo a capo della diocesi tarantina da Innocenzo VII successore di Bonifacio IX. In questi anni, tuttavia, fu spesso lontano dalle suddette sedi episcopali, essendo stato invitato a svolgere missioni diplomatiche molto delicate per conto della Santa Sede. Il 18 settembre 1408 Gregorio XII lo nominò cardinale con il titolo di Santa Maria in Trastevere (1408-1413). Nell’Enciclopedia cattolica sta scritto che Ludovico Bonito è stato uno dei pochi rimasti fedelissimi al Papa Gregorio XII, condividendone le sorti fino alla morte. Lo seguì in Aquileja, poi in Gaeta e dal dicembre 1412 in Rimini, sotto la protezione del principe Carlo Malatesta. Come scrisse Lorenzo Cardella, il cardinale Bonito, nell’atto di portarsi al Concilio di Costanza, una violenta febbre lo colse, privandolo della vita in Rimini il 13 settembre 1413. I funerali si svolsero nella chiesa di S. Francesco, di Rimini, il 15 settembre; L'elogio è stato consegnato dal Cardinale Giovanni Domenici, l'arcivescovo di Ragusa. I resti del cardinale Bonito vennero sepolti nel mezzo della stessa chiesa. Gli agrigentini cercarono di tramandare ai posteri la memoria del nostro porporato con due ritratti su tela che oggi non si trovano più. Tuttavia esiste un ritratto ad olio su tela, cm 115 × 90, di autore ignoto del XVII sec., che sul lato sinistro riporta la scritta LVDOVICO BRANCACIO S. R. E. CARD. CREAT. GREG. XII ANNO D. MCCCC (v. foto). L’elenco dei cardinali di S. Maria in Trastevere riporta: Ludovico Bonito Brancaccio (1408-1413). Queste circostanze inducono ad identificare il Brancaccio con il cardinale Bonito, ricordato in alcuni testi sei-settecenteschi come Ludovicus Bonitus de Brancatiis. L’estensione Brancaccio potrebbe derivare dal cognome della madre (di cui si sconosce il cognome), cosa molto in uso nelle famiglie nobili. Trentasette anni dopo la morte di Bonito, nel 1450, la chiesa romano-gotica che era stata eretta dai Francescani nel corso del XII sec., venne commissionata da Sigismondo Malatesta a Matteo de’ Pasti e per l’esterno a Leon Battista Alberti.  Questo Tempio è il massimo monumento di Rimini, una delle chiese più importanti del Rinascimento Italiano, dove al suo interno troviamo opere di artisti quali Piero della Francesca, Agostino di Duccio, Matteo Nuti e Cristoforo Foschi. Non essendo sufficiente il marmo dell’antico porto romano, fu necessario acquistare marmi dall’Istria, Verona e Ravenna. La parte superiore della facciata, palesemente incompiuta rivela l’imposta dell’arcata centrale fiancheggiata da alzate triangolari laterali. Un basamento decorato da simboli malatestiani (rosa a quattro petali, elefante, lettere iniziali di Sigismondo intrecciate) scorre attorno a tutto l’edificio ornando anche i fianchi. Lo spoglio presbiterio, ricostruito dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, custodisce nell’abside il “Crocifisso” dipinto da Giotto nel 1312 per l’antica chiesa duecentesca. A testimoniare la sepoltura, nella cattedrale di Rimini, dell’illustre cardinale Ludovico Bonito è una lastra marmorea sepolcrale (oggi murata nella parete retrostante il prospetto principale, a sinistra di chi entra nella chiesa - v. foto). La lastra marmorea, che all’interno della preesistente chiesa francescana costituiva il coperchio della tomba, era disposta a pavimento, ed il continuo calpestio, da parte dei fedeli, delle parti più prominenti del bassorilievo che riproduce il corpo del cardinale, oggi si vedono levigate (soprattutto il viso e le mani). La scritta in latino, con caratteri medievali, incisi lungo il bordo della lastra marmorea è la seguente: Hic animo, moribus, sensu, virtute, fenecta Consiliorum potens Ludovicus Stirpe Boneto agrigentina Sicula telluris, ut ipse Ingenio Clarus, sic dignitate serenus.. Nel sacro famam, Romaneque Tarentum Præbuit Ecclesiam per mille pericula Papa Gregorio temens sub vera fuit, usque secutus. Le parole agrigentina sicule telluris (della sicula terra agrigentina) e l’arme in testa attestano inconfutabilmente l’appartenenza e l’origine agrigentina del cardinale Ludovico Bonito.

Maurizio Carloni 1965Maurizio Carloni 1967

 

4 - Una breve storia

(di Giacomo La Russa)

 

La storia di un quadro (a sx), di un uomo e di un paese. Il quadro l’ha dipinto il pittore Maurizio Carloni (Cingoli 1941 – Pavullo 2001). Un gruppo di case cesellate sulla cima di un monte circondato da valli e da una striscia di mare lontano. Trasferitosi bambino a Bologna, il pittore ha dovuto portare con sé l’idea del villaggio come dimensione oltre che come luogo, come anima prima ancora che territorio. Giovanissimo è poi venuto in Sicilia per insegnare e, come intuisco dalle poche note biografiche rintracciate su internet, per conoscere un mondo che lo ispiri, che ne appaghi l’inquietudine, il bisogno di sapere e di dire. E il desiderio, io penso, di raccontare un angolo di terra. Il suo cambiamento. La sua perdita e il suo dolore. Perché c’è già tutto questo nella tela che, in occasione di una mostra organizzata presso i Padri Vocazionisti, compra mia madre. Un pugno di visi smarriti, impauriti che si stringono attorno a Pauliddru Portolano, il banditore cieco che si erge al centro, il vestito spiegazzato, la pesante tracolla di cuoio, il tamburo variopinto, i leggeri mazzuoli tra le dita, il capo che implora verso il cielo, la guancia scavata e la bocca appena schiusa come una ferita da cui sembra partire un grido. Sono loro, sullo sfondo di una violenta parete rossa che il pittore ha voluto surreale, i personaggi di strada che, come il coro di una tragedia greca, dicono di un paese che si trasforma e si perde, che diventa moderno e dimentica se stesso. Che abbraccia il cemento e cancella la pietra. Che abbatte i confini e smarrisce la sua forma antica. Sono loro che, senza nemmeno saperlo, ci dicono di una civiltà che è povera ma non ha smesso di produrre e di un’altra in cui si starà meglio ma solo per consumare. Così, anche i due contadini, relegati in un angolo della tela, su muli che sembrano zigzagare sopra i gradini sconnessi di una vecchia scalinata, sono rimpiccioliti, appesantiti, marginali, anonimi, sconfitti. “Eravamo colleghi al magistrale”, mi dice mia madre per telefono quando le chiedo qualcosa sull’autore. “Stava dalle parti di San Calogero”, continua lei che, nonostante tutto, non si rassegna e vuole che io sappia, “aveva preso una casa in affitto. E ne ho conosciuto anche la moglie e la figlia. Era ancora una bambina quando è andato via”. In basso, appena sotto il pugno chiuso di Ntò Ntò che stringe una cicca sbilenca e guarda verso il mondo di fuori col muso apparentemente duro e un po’ animalesco, tracciata in bianco, accanto al nome del pittore, c’è la data: ’65. Ed è questo, dunque, il quadro che sono andato a recuperare nella vecchia casa colonica dove sono cresciuto, ai margini del paese, in una di quelle rare incursioni durante le quali, di tanto in tanto, respiro un’altra aria e mi riapproprio di qualcosa. Muovendomi cauto e silenzioso tra pareti umide, mura scrostate, scale di legno impolverate, libri abbandonati e pavimenti antichi che provano a raccontare ancora qualcosa. Ma questa volta ho deciso di staccarlo dal muro dove si trova da oltre cinquant’anni, in salone, appena dietro la porta, e di portarlo via, di caricarlo sulla macchina e di tenermelo qui, in casa, coi personaggi che, bambino, vedevo vagare per strada e con lo scorcio di quel paese di cui ho avuto la fortuna di cogliere le ultime tracce prima che venisse inghiottito da una modernità senz’anima.

8 nov. 2018 Max Carloni (figlio di Maurizio) - Ho visitato Favara un paio di volte, la prima volta nel 1985, allora avevo undici anni, ma ricordo benissimo quella bellissima vacanza in Sicilia, un viaggio che per mio padre fu un vero tuffo nei ricordi. Erano passati circa 20 anni, da quando aveva lasciato la Sicilia per tornare in Emilia, ma in quell’occasione ritrovò tanti amici. La mia seconda volta a Favara è stata qualche anno fa e quell’occasione fu un po’ più triste perché ero solo con mia Mamma - Papà ci aveva lasciati nel 2001 a causa di un male incurabile - ma furono anche giorni emozionanti e pieni di affetto. Venne intitolata a Papà la biblioteca dell’istituto M. L. King e fummo a dir poco travolti dalla vostra straordinaria ospitalità. Parlai ai ragazzi dell’istituto, raccontai loro chi era stato mio padre e quanto, nonostante le distanze ed il tempo, fosse rimasto legato a Favara. Fu davvero un momento straordinario.

(in basso un dipinto di Maurizio Carloni del 1967)

Eugène Viollet Le Duc

 

5 - Viollet Le Duc a Favara nel 1836

(Tratto da: Le voyage d’Italie d’Eugèn Viollet le Duc 1836-1837, Parigi, II ediz., 1987)

 

Erano trascorsi tre anni dalla morte di Stefano Cafisi (9 maggio 1833), ultimo arrendatario dello Stato di Favara e primo possessore del castello (1829) dopo i marchesi di Favara, quando il giovanissimo francese Eugène Viollet Le Duc (Parigi, 27 gennaio 1814 – Losanna, 17 settembre 1879) venne in Sicilia e trovandosi a Girgenti, il 27 maggio 1836, volle fare tappa a Favara per visitare il castello chiaramontano. Durante la sua carriera Eugène Viollet Le Duc prese appunti, realizzò schizzi e tavole, non solo per le costruzioni per cui lavorava ma, anche degli antichi edifici che presto avrebbero dovuto essere demoliti. I suoi studi sul medioevo e rinascimento non si limitarono all’architettura ma, si interessò anche ai mobili, all’abbigliamento, agli strumenti musicali, agli armamenti ed altri aspetti. Il suo punto di vista sul restauro è notevole. Si oppose alla semplice conservazione: «Restaurare un edificio, non è solo mantenerlo, ripararlo, o ricostruirlo, è riportarlo ad una condizione completa che potrebbe non essere mai esistita». In applicazione a questi principi, l'architetto Le Duc rimaneggiò irrimediabilmente molti monumenti, ma permise anche di salvarli, il che spiega perché la sua opera era così controversa. Da grande studioso e assertore del gotico, trovandosi a Girgenti, non poteva non visitare il castello di Favara, così quando dall’affascinante valle di Girgenti, vera oasi su questa parte della costa, si addentrò nelle terre verso nord-est, arrivò subito a Favara, villaggio (come dallo stesso scritto) triste, polveroso, coronato da un castello arabo restaurato dai normanni. Il proprietario del posto dopo averci fatto educatamente gli onori del palazzo, ci pregò di dargli qualche moneta per il suo disturbo. Bisogna dire che il povero diavolo non aveva un pezzo di pane a casa sua. Toccati da questa miseria, gli chiedemmo come mai, con un castello, un giardino, poteva essersi ridotto in questo stato. -Che volete?- ci rispose, -i fichidindia non sono ancora maturi, e se coltiviamo la terra, dobbiamo pur  pagare così tanta gente, che non ha pane da mangiare. Risulta evidente che la persona spacciatasi per proprietario non poteva essere Giuseppe Cafisi, erede testamentario di Stefano, nella fattispecie del castello, uno dei maggiori possidenti di Favara, ma qualche persona di servizio. Occorre dire che Le Duc ha scritto sui suoi viaggi 24 anni dopo aver cavalcato la terra di Sicilia e risulta, quindi, probabile che abbia fatto confusione nel ricordare l’avvenimento.

 

Foto nello studio di Gallego

 

6 - La fotografia nella città dei Templi e il primo fotografo agrigentino

 

(Da un saggio del compianto don Biagio Alessi, inserito nel libro di Rosario Perricone: Il volto del tempo, arricchito da ricerche dello scrivente, con il prezioso contributo degli storici Raimondo Lentini di Ribera, Giovanni Moroni di Calamonaci e Giovanni Scicolone di Agrigento)

La fotografia da tempo è entrata nella storia, non solo per il grande contributo documentale delle immagini, spesso vera e inoppugnabile testimonianza della verità storica, ma anche come settore di ricerca. Da diversi decenni, infatti, in Italia e all'estero sono apparse numerose pubblicazioni sulle origini della fotografia, sulla sua diffusione e sui numerosi suoi esponenti in Europa e nel mondo. Sono delle ricerche di estremo interesse e appassionanti quelle sulla meravigliosa scatola delle illusioni. È nato un filone storiografico nuovo, ormai abbastanza assodato e seguito. Affascina anche per quelle copiose immagini che aiutano a ritrovare le nostre radici, i volti dei progenitori restituendoci pure brani di vita e la fisionomia delle nostre città, prima che una dissennata espansione edilizia travolgesse ogni cosa. A questa interessante costruzione della memoria fotografica hanno contribuito tanti uomini intelligenti e a volte veri pionieri, con un vissuto umano spesso pieno di fascino e suggestivo come le immagini che hanno prodotto usando strumenti e procedimenti assai differenti da quelli automatici e automatizzanti dei nostri giorni e del grande processo tecnologico ed elettronico. Per avere un quadro generale, brevemente ricordiamo che la fotografia, frutto di tante invenzioni, alcune lontane nel tempo come la camera oscura di Leonardo del 1520, nasce ufficialmente nel 1839. In quell'anno, infatti, sia Luis Jacques Mandé Daguerre (1787‑1851) che William Henry Fox Talbot (1800‑1877) pubblicizzarono le loro singolari invenzioni. Il francese, utilizzando alcuni processi del vero padre della fotografia Joseph Nìépce (1765‑1833), comunica all'Accademia (7 gennaio), alla Camera del Deputati (3 giugno) e in pubblico (19 agosto), tramite il suo segretario Arago, il processo Daguerre. L'inglese in quell'anno arriva alla creazione del fototipo e della fotocopia, inventando il negativo, cioè la possibilità di moltiplicare la stampa di una stessa immagine, al contrario dei francesi che producevano esemplari unici. L’arte fotografica arrivò ad Agrigento presto, a distanza di una diecina di anni dalla sua invenzione. Questo dimostra come la città dei templi, e tutta l’Isola, contrariamente alla tesi del Gentile, non fu mai sequestrata  e lontana dalle innovazioni e scoperte, o dalle nuove teorie e idee circolanti nel resto d’Italia e d'Europa, ma era inserita nel grande movimento del progresso storico.  La fotografia ebbe un grande successo in  città e se prima solo la classe aristocratica e ricca aveva la possibilità di farsi fotografare andando a Palermo o altrove, presto tutti ebbero la possibilità di immortalare le loro sembianze recandosi negli stabilimenti fotografici  negli studi di alcuni intraprendenti agrigentini. I fotografi attivi in città e di cui si ha notizia, sono Giuseppe GALLEGO (1833‑1901), Agatocle POLITI (1841‑1907), Alessandro POLITI (1847‑19..), Angelo AMOROSO (1864‑1944), Francesco CAMPAGNA (1867‑1932) con la moglie Maria GRITA (1874‑1927), Emanuele GRAMITTO ( ? ) con la moglie Rosina GRITA  (1868-1928. Maria e Rosina Grita  appartenevano  alla grande famiglia di fotografi  originari di Caltagirone. Figli di Salvatore, assieme al fratello Michele, impararono l'arte fotografica dal padre e nell'atto di morte del comune di Agrigento,  sia loro che la madre sono dette di professione fotografa. A questo primo gruppo di fotografi più antichi vanno aggiunti gli altri che hanno operato nella città dei templi successivamente e cioè, i fratelli LO BIANCO da Sciacca, Fabio POLITI (1875‑1953), Giuseppe LAZZANO (1896‑1979), Edoardo CAPOSTAGNO (1907‑1989), Vincenzo PIRO (1906‑1989) e VITELLARO, ­ ROMANO, NOBILE, ELIO,  ARENA.

Dalla documentazione raccolta,  risulta che il primo fotografo di Agrigento fu Giuseppe Gallego, già attivo in detta città nel 1855.  Dagli atti di nascita e morte dell’Archivio del Comune di Agrigento, da quelli di battesimo e morte degli Archivi delle Parrocchie della stessa città, nonché dagli atti di matrimonio dell'archivio di Stato di Agrigento e della madrice di Favara,  risulta che Giuseppe Gallego è nato il 29 luglio 1833, al Piano Gamez, quartiere di San Pietro, Agrigento. Suo padre, don Ottavio, aromatario (erborista-farmacista), e sua madre, donna Maria Teresa Sterlini (di don Calogero e donna Raimonda Torregrossa), sposati il 12 febbraio 1825, appartenevano a due famiglie agrigentine benestanti dell'800. Risulta anche che detto Ottavio proveniva da Raffadali, dove è nato il 20 aprile 1801, ed era figlio di Giuseppe e Maria Stella Lauricella, probabilmente oriundi della città di Partinico. Risulta probabile, anche, che il cognome Gallego sia stata una storpiatura di Calleja, verso la fine del 1700. Uno zio, Gaetano Gallego, beneficiale della Cattedrale, fu parroco di San Michele dal 1845 al 1853 quando fu promosso Canonico della Cattedrale. Ebbe altri fratelli e sorelle tra cui i gemelli Davide e Maria Stella nati l'8 marzo 1842; una sorella di nome Giulia, morì nubile il 10 febbraio 1909 a 79 anni. Il padre morì a 70 anni il 7 marzo 1879. Il nostro fotografo, invece, si spense nella sua abitazione di via Garibaldi, in Girgenti, a 68 anni, il 2 luglio 1901, già vedovo di Gaetana Belmonte.  Giuseppe Gallego era primo cugino del noto filantropo e ampelografo di chiara fama barone Antonio Mendola di Favara per via della moglie Gaetana Belmonte, che aveva sposato a Favara il 23 aprile 1823, la quale era figlia di Belmonte Antonino e Maria Antonia Mendola, quest'ultima figlia di Andrea Mendola, primo barone (della famiglia Mendola) di Fontana degli Angeli e nonno di Antonio Mendola. Da Giuseppe Gallego e Gaetana Belmonte, in data 11 ottobre 1866 è nato a Favara Antonino Ottavio. Giuseppe Gallego amava l'arte ed era abile nel modellare la creta, distinguendosi per bravura tecnica e inventiva nella composizione. Era anche amante della pittura e, come tutti i veri fotografi dell'Ottocento, si dichiarava pittore fotografo. Nella sagrestia della Chiesa di San Calogero di Agrigento si conserva una splendida tela della Madonna della Lettera, che in basso porla la scritta «Per devozione di Giuseppe Gallego». Non sappiamo se egli sia stato anche il pittore di questa bella tela. Era un fervente devoto di San Calogero. Dalla monografia di Domenico De Gregorio sul Santo nero di Agrigento apprendiamo che il volto dei Santo "nero come la pece, attorno al 1876, per opera di Giuseppe Gallego fu alquanto rischiarito” (p. 179). Inoltre il nostro fotografo fu tra i responsabili della confraternita di San Calogero, che risorse verso il 1880 grazie al grande impulso dato dal Gallego e poi da Giuseppe Lombardo (ivi 103, 111). Aderì al movimento rivoluzionario antiborbonico. In basso si riportano due foto eseguite da Gallego, a sx quella del barone Antonio Mendola nel 1864 (all'età di 36 anni), a dx quella di un componente della famiglia Attanasio (venuti da Positano alla fine del 1700 e rimasti a Favara fino alla seconda metà del 1800). Si notano gli stessi elementi scenografici: il tappeto e la colonna.

 

 

7 - Provenzani: vite d'artisti strampalati

 

Così ha scritto la storica dell'arte Maria Accascina (NA 1898 - † PA 1979): << Ammiriamo anche noi quel dimenticato artista che fu Domenico Provenzani di Palma di Montechiaro (20 settembre 1736 - † PA 29 gennaio 1794), capostipite di una famiglia di pittori che estese le propaggini fino al tardo Ottocento; maestro che sta di mezzo tra la plastica sinuosità di un Borremans, maestro patetico, a volte sgargiante, a volte leggiadrissimo, ora improvvisamente capace di creare un autentico capolavoro degno di un epigono liberiano che lo ritrovi in tutti gli affreschi, sempre gagliardo e fantasioso nel comporre, rappresentante non ultimo, non indegno della pittura decorativa siciliana>>.

Domenico Provenzani nacque da modesta famiglia, suo padre Calogero, scultore di legno, gli ha insegnato i primi rudimenti dell'arte. A 12 anni gli morì il padre, ma don Ferdinando Tomasi si prese cura di lui. A 13 anni eseguì i primi lavori di pittura e fu chiamato da tutti "maestro". Nel 1750 si trasferì a Palermo dove fu alunno prima del Serenario e poi di Vito D'Anna.  A 20 anni sposò Filippa Scicolone dalla quale ebbe sette figli. Morì a Palma il 29 gennaio 1794 nella casa del padre. La sua tomba si trova nella cappella addossata al muro est della madrice. Anche i figli Vincenzo e Calogero, quest'ultimo prete, collaborarono col padre in alcuni lavori. Tra i discendenti di Domenico troviamo a Favara il Pronipote Vincenzo (don Zulu, detto il Pitturicchio - nato nel 1814 a Palma di Montechiaro da Domenico e donna Angela De Bennardis), dove, il 5 maggio 1837, ha sposato Anna Garraffo (nata nel 1815 a Favara, da mastro Michelangelo Garraffo e donna Perpetua Schifano), anche lui pittore. Da questo matrimonio sono nati a Favara: Domenico il 27 agosto 1838 e Michelangelo il 17 giugno 1841, anche questi pittori, ma professionalmente mediocri rispetto all'avo Domenico. La famiglia abitava a Favara in un appartamentino al n.138, sul lato nord della via Lunga (ora via Umberto). Ha scritto il barone Antonio Mendola nei suoi diari intimi che il giorno di giovedì 11 gennaio 1900 è andato a visitarlo in biblioteca il pittore Domenico Provenzani, figlio di Vincenzo Pinturicchio. Era in compagnia della giovane moglie che ha sposato in seconde nozze, dopo 10 anni di vedovanza, con nero mustaccio dipinto. In tale circostanza il barone ha commentato: <<Quando vedo uomini che fanno queste cose mi metto a pensare sulla stranissima natura del nostro genere. Siamo animali che non seguiamo la condotta degli altri animali che quasi obbediscono tutti alle stesse leggi, agli stessi istinti>>. Il Provenzani era a Canicattì, chiamatovi dal barone La Lomia per dipingere quattro quadroni per una chiesa, ma saputo della morte dello zio Garraffo, inteso Giannino, è venuto a Favara a raccogliere la sua particina di eredità. La sera del 20 dicembre 1901 si è presentato al barone Mendola, con certe pretese, Vincenzo Provenzani, figlio discolo del pittore Domenico e nipote di Pinturicchio, con una letteraccia ampollosa, per chiedere denaro. Già una prima volta, il 2 febbraio 1896, aveva ricevuto dal barone 10 lire e lo aveva segnato nel suo diario con brutte note e qualificazioni. Ha detto di non poterlo ricevere perché occupato d’affari con altre persone. Il 9 aprile 1906 Domenico Provenzani figlio del Pinturicchio è andato a visitare il barone e in un paio d'ore gli ha raccontato i tratti principali della sua vita e dei suoi dispiaceri: il figlio grande Vincenzo, processato, etc.; il mezzano scappato; il piccolo, studente di pittura, con un occhio perso e con l'altro in pericolo, al punto che i medici gli hanno proibito di continuare l'esercizio della pittura.

 

Agostino La Lomia si inchina per baciare la propria tombaAgostino La Lomia 1957

 

8 - Il barone Agostino La Lomia: l'ultimo degli Arcadi e dei Gattopardi

Tratto da Diego Lodato, Agostino Fausto La Lomia, barone di Renda e Carbuscia, ultimo degli arcadi e dei gattopardi, La Torre, a. XXVIII n. 18, 4 ottobre 1981

 

Il 22 ottobre 1967, nel grigio pomeriggio di una domenica autunnale, veniva inaugurata nel cimitero di Canicattì, con un gran brindisi di vino rosso e pasto di mandorle, una fastosa tomba gentilizia. Il "morto", però, era ancora vivo: il barone di Renda e Carbuscia, cui l'aristocratico sepolcro apparteneva, stava con volto ridente e pago, dinanzi al proprio epitaffio: "Qui giace Agostino La Lomia, nato il 30 gennaio 1905 e morto il ...". Era ben lontano allora il barone dal pensare che la Parca gli avrebbe reciso lo stame appena due lustri dopo, il 21 gennaio 1978. Era uscito da poco dal suo settecentesco palazzo, dopo una rigida volontaria clausura, durata sette lunghi interminabili anni, in cui sogni da incubo gli avevano reso angosciosa l'esistenza. Tornava finalmente a vivere, ma a vivere con filosofia, convinto che, come soleva ripetere, "tutto nella vita è sciocchezza più o meno importante". E può sembrare strano che proprio chi tornava a vivere pensasse innanzi tutto alla morte. Ma egli stesso ebbe a dichiarare a un giornalista che la vera nascita è la morte. Aveva ragione, quindi, di pensare alla vita, brindando alla morte. E non una, ma due tombe voleva assicurarsi per l'eternità: la prima alla Chiesa Madre, la seconda al cimitero, come a garantirsi una residenza di città per svernare e una di campagna per villeggiare. Poté disporre, però, solo dell'avello cimiteriale, poiché il sarcofago ecclesiale, ereditato dagli avi, gli venne ostruito di terra: egli se ne dolse molto, ma si consolò ben presto, predisponendo le proprie onoranze funebri. Come Pirandello, anche lui espresse il desiderio di essere posto nudo nella bara; e su di essa ordinò si adagiassero quaranta sacchetti di terra, reliquie di suoi altrettanti feudi. E volle che delle esequie si curassero sedici becchini internazionali, accompagnati da un notaio dalla mano adunca, da un ingegnere con un piccone e da un politico con una forchetta. Dietro la berlina funebre, trainata da candidi cavalli, dovevano sfilare in corteo quattrocento invitati ufficiali, la banda di Acireale e un'infinità di inservienti con vassoi colmi di gelati da distribuire a tutti i partecipanti. Più che un funerale sarebbe stata una festa. Ben diversa, però, si è rivelata la realtà. È stata una mesta cerimonia quella che una fredda domenica d'inverno ha accompagnato all'estrema dimora l'ultimo dei gattopardi, il barone di Renda e Carbuscia Agostino Fausto La Lomia. Poche corone e non più di cinquanta persone ne seguivano il feretro, adagiato su uno sgangherato carro, che un sonnolento autista, alle tre pomeridiane, faceva incedere lentamente, col passo della morte. Certamente più solenni erano stati i funerali del suo gatto, "S.E. il Referendario Paolo Annarino", di cui, con tanta affettuosa premura, si era interessato lo stesso "don Turiddu Capra, duca di Santa Flavia e Merlo, nominato dalla patrizia magnanimità anche "monsignore". Gatto e merlo erano compagni inseparabili del barone. Da quando era morto padre Meli, parroco di San Domenico, il gatto, rimasto senza padrone, si era affidato ciecamente al barone, il quale lo aveva fatto assurgere alla nobiltà del merlo, creandolo "Referendario" del regno di Capo La Croce, isola del mar taorminese.

Non c'era festa o festival, a Taormina, a Venezia, a Roma o a Montecarlo, in cui barone, gatto e merlo non comparissero insieme: dentro una gabbia di vimini il referendario e, in una di ferro, l'acquatico duca di Santa Flavia; e lui, il barone, nel mezzo, con folta e fluente barba, in abito estroso, con ampia cravatta a fiocco e immancabile fiore bianco all'occhiello. Purtroppo il gatto "annarino" perì non molto dopo, travolto dalla frenesia automobilistica della vita moderna. Ne diede notizia il "Giornale di Sicilia" con un patetico necrologio: "Investito da mano pirata è deceduto tragicamente il 5 agosto 1969 a Canicattì S.E. il Referendario Paolo Annarino e Gatto. Ne dà il triste annunzio don Turiddu Capra, duca di Santa Flavia e Merlo, che lo ebbe padre, fratello e amico. I resti mortali saranno tumulati di fronte al mare Ionio nell'isola di Capo La Croce in quel di Taormina". Della perdita del "padre, fratello e amico", però, si consolò presto il merlo, tra condoglianze e libagioni di latte. Lo attendeva, tutta per lui, una camera con bagno del lussuoso Hotel San Domenico di Taormina. Meritava il massimo rispetto questo merlo, che non si staccava mai dal suo mecenate e ne accompagnava col fischio le note di "Vitti 'na crozza", suonate alla chitarra. E, quando il barone riceveva le belle donne, le stelle e le stelline del cinema, il blasonato uccello occupava sempre il posto d'onore. Anche lui, come il suo signore, era sensibilissimo al fascino muliebre. Mondanità e beltà lo suggestionavano. Non voleva, però, sentir parlare di religiosità: era costretto, perciò, il barone a recarsi senza di lui in chiesa o a ritirarsi solo in meditazione, quando dai sogni di gloria mondana passava alle pratiche di esaltazione religiosa, memore del legame che lo univa al suo grande parente, Padre Gioacchino. Lo induceva alla religiosità anche il titolo di abate laico, ereditato dall'avo barone Marco La Lomia, che nel Settecento lo aveva ricevuto dalle mani del cardinale e del re, in riconoscimento dell'impegno di far celebrare la messa nella tenuta di Giacchetto, già delle suore benedettine del monastero "SS. Salvatore" di Naro. Padre Meli era il suo don Pirrone: non c'era sera che non fossero insieme a pregare, a conversare e a cenare. Dovevano esserci dotte dispute tra loro, poiché il barone era fervente cultore di tradizioni popolari, e tanto contribuì con i suoi scritti, le sue pubblicazioni e i suoi articoli alla conoscenza del folklore canicattinese e siciliano. Non è senza significato la sua appartenenza all'Accademia del Parnaso, tra gli arcadi minori, insieme con una eletta schiera di uomini colti e di spirito. Certo, era un' accademia un poco bizzarra questa del Parnaso, che aveva per emblema un'asina alata e in cui, per statuto, gli arcadi minori erano "i non maggiori", e viceversa. Tuttavia riuscì a unire in sodalizio uomini illustri, che della satira politica e sociale fecero la loro arma nella lotta contro l'insipienza e il malcostume. E fu tanto l'interesse da essa destato, che personaggi come Luigi Pirandello, Marco Praga, Giovanni Gentile, Marinetti, Trilussa, Marta Abba, Angelo Musco e altri diedero la loro entusiastica adesione. Si disse allora che essa poteva garantire l'immortalità: di sicuro la raggiunse il presidente don Ciccio Giordano, "oste e poeta sovrano", perché ai suoi funerali, chiamato l'appello secondo l'uso fascista, si levò corale da tutti gli astanti il grido: "Presente". Sicché l'avv. Sammartino commentò subito con il dottore Stella che gli stava accanto: "Se il presidente, da morto, risponde "presente" è segno che non è morto: dunque è immortale". E fu così che i parnasiani gli riconfermarono per l'eternità dei secoli la presidenza della Serenissima Accademia, mirabilmente conciliante cani e gatti, uomini e somari. Suo vicario in terra rimase il barone Agostino Fausto La Lomia, il quale gli arcadi più insigni onorò con la commenda dell'Ordine accademico di Capo La Croce, ionica propaggine del Parnaso. Avrebbe voluto anche convocarli tutti nella sua isola sovrana, ma non lo consentì la tirannia della sorte. Si spensero gli arcadi l'un dopo l'altro e, ultimo, si estinse anche lui, in solitudine.

 Qualche lettore si chiederà leggendo questo articolo: cosa c'entra Agostino La Lomia con Favara?. Forse pochissimi sanno che questo personaggio per metà era favarese.

Agostino Fausto La Lomia di renda è nato a Canicattì il 30 gennaio 1905 dal canicattinese barone Salvatore la Lomia e da Anna Giudice di Favara, figlia di Giuseppe (di Favara) e Teresa Pancamo (di Girgenti). Detto Giuseppe, assieme al fratello Giovanni ed alla sorella Gesuela finanziarono la costruzione della madrice di Favara. Nell'Album delle memorie si riportano due foto.

 

Alessio Di Giovanni

 

9 - Il poeta dialettale Alessio Di Giovanni malopagatore

(tratto dai diari intimi del barone Antonio Mendola)

 

All’inizio del mese di luglio 1899 Alessio Di Giovanni, figlio del letterato, storico e regio notaio in Noto, Gaetano, mi ha mandato molte sue stampe con una lunga lettera. Io l’ho ringraziato ed ho aggiunto che sarebbe stato un piacere ed un onore per me fare la sua personale conoscenza. Nel marzo 1900 mi ha mandato un libro di letteratura popolare intitolato Sull’aia. Il 14 maggio 1900 mi ha mandato un suo opuscoletto poetico siciliano di sue poesie  intitolato Lu fattu di Bbissana, con la dedica autografa. Con la posta del 13 gennaio 1901 Alessio Di Giovanni mi ha fatto arrivare una cartolina con un opuscoletto di sonetti dal titolo: Fattuzzi rraziusi. Li ho letti quasi tutti, alcuni li ho trovati veramente graziosi, altri una mediocrità. Non lodavo la soverchia scrupolosità, spinta fino agli eccessi, di voler rendere la pronuncia dialettale di ogni singolo luogo. Il Di Giovanni con la sua ortografia snaturava le parole, le loro radici e secondo me scriveva in barbaro gergo per il solo fatto dell’alterazione delle lettere alfabetiche. Io ero più per le cose utili, queste poesie, senza scopo di bene e senza esercizio o richiamo di virtù, mi sembravano versi inutili. Il solo diletto materiale dell’orecchio, nel suono delle rime o nel cadenzare gli accenti non era sufficiente alle lettere amene, che dovevano migliorare le menti e i cuori. Il titolo non rispondeva al contenuto del libro. Fattuzzi rraziusi significava fatticelli, novellette, raccontini graziosi. Niente fatti, niente novelle o conti. Si leggevano le solite frasi. Dopo lunghissimo silenzio, Alessio Di Giovanni, nel novembre 1901 mi ha mandato un letterone dolce di tre pagine. Usava un linguaggio malato, come di un intimo amico. Tutto in una volta sentì riscaldarsi il cuore nel petto per me, finendo col chiedermi 55 lire in prestito per poter stampare le ultime sue poesie A lu passu di Giurgenti. I denari mandati a costui sarebbero stati denari perduti. Che cosa dovevo fare? Ho voluto pensarci bene per qualche giorno. Ho pensato di fargli una proposta, mettendo a perdita 50 lire, non 55, quante me ne aveva chieste. Gli ho inviato 50 lire con una lunga lettera raccomandata, pregandolo di mandarmi una cambiale con scadenza a tre mesi, cioè a fine febbraio 1902. L’ho pregato di non mancare al pagamento puntuale, perché ero gravatissimo di spese. Con lettera del 3 dicembre, il Di Giovanni, con parola d’onore, mi assicurava di restituire le 50 lire come stabilito. Arrivati al 18 marzo nessuno si faceva vivo. Non meritavo di essere trattato i cotal maniera. Ho mandato una lettera dicendo di pensarci bene. Il 22 marzo Di Giovanni mi ha inviato un suo nuovo libretto poetico dialettale intitolato A lu passu di Giurgenti, con una dedica autografa un poco larga di elogi. Mi è arrivata, altresì una sua lettera con cui si doleva del mio rimprovero. Non aveva ragione a dolersi, perché io lasciai trascorrere circa un mese ed egli si era fatto muto. Poteva, invece del denaro, mandare una parola di scusa, in quanto, poi, alla cartolina, l’avevo vergata in modo che, chi l’avrebbe letta, nulla avrebbe capito in danno del Di Giovanni. Mi ha chiesto un altro mese di tempo. Ho dovuto accordarglielo, ma temevo per il pagamento. Il denaro, quando scappa dalla propria borsa, diviene una bestia selvatica e non vuole più ridursi al posto suo. Nel n. 87 del giornale Il Sole, 28-29 marzo 1902, in prima pagina si leggeva un articolo critico laudativo di Tommaso Nediani intorno alle poesie dialettali di Alessio Di Giovanni. L’articolo era intitolato Un poeta delle miniere parla del Maiu sicilianu. Dell’altro componimento Lu passu di Giurgenti niente è stato pubblicato. Il Mediani ebbe comunicati alcuni brani e non essendo siciliano non poteva comprendere la finezza del dialetto. Se lo faceva spiegare, o, meglio, tradurre, e poi non giudicava l’insieme della composizione. Uno che non conosceva il dialetto, che non era padrone di tutto il contesto, non credo poteva essere stimato un critico degno veramente di tal nome. Erano solo sfarzi e nulla più. Potevano essere compiacenze e incoraggiamenti. Nei primi di maggio ho scritto una lettera ad Alessio Di Giovanni, pregandolo di non darmi dispiacere e adempiere al dovere, non dico da amico, ma da gentiluomo, come io fui pronto e fiducioso a dargli il denaro. Ci vedevo male, almeno i segni precursori erano brutti. Nella seconda metà di maggio ho riscritto un’altra lettera al padre di Alessio per una risposta chiara, senza ambiguità e che, se non avessi ricevuto risposta entro dodici giorni, mi sarei visto costretto ad agire nel mio interesse. Ormai credevo che il Di Giovanni non aveva più intenzione di pagare. L’uomo è sempre lo stesso: nel chieder denaro, dolce; nel restituirlo, velenoso e ingrato. Passavano i giorni e brutto era il silenzio di Alessio di Giovanni e di suo padre. Erano bravi letterati e cattivi pagatori e cittadini. Il 22 giugno ho scritto nuovamente ai Di Giovanni padre e figlio, lamentando il silenzio profondo e che non meritavo di essere trattato nel modo come loro mi trattavano. Il silenzio e lo sprezzo non erano da adoperarsi contro di me gentiluomo ed amico. Chiedevo di parlare chiaro ed evitarmi ulteriori dispiaceri. Non avrei mai creduto che i signori Di Giovanni avessero potuto agire nel modo per come hanno agito. Il 19 luglio ho scritto una lettera a mons. Blandini, vescovo di Noto, dicendo di commettere un atto assai indiscreto, e forse impertinente, nell’abusare della sua cortesia, la prima volta dopo che ci separammo. Ho chiesto di indicarmi un onesto difensore in Noto cui rivolgermi. Mons. Giovanni Blandini ha risposto con lunga e gentile lettera, ma non mi ha dato nomi di avvocati. Mi ha detto di non avere nessuna conoscenza con i Di Giovanni; che il notaio Gaetano, dopo il colpo, credo paralitico, non usciva più di casa e il figlio Alessio aveva trasportato le sue tende a Siracusa.

 

Ritratto di Francesco Piscopo

 

10  - Ciccio Piscopo suicida per amore o per spavalderia?

(tratto dai diari intimi del barone Antonio Mendola)

 

Il 21 luglio 1902 Ciccio Piscopo è venuto in casa mia, raccontandomi una sua avventura amorosa a Roma con una ragazza di nome Adelia. Essa lo rifiutava; lui minacciava e montava nella furia della gelosia. Adelia scriveva al padre di Ciccio, ponendolo a giorno di tutti questi intrighi amorosi. Io gli ho consigliato di non pensarci più, di vincere, di abbandonare per sempre il pensiero di una prostituta ingannatrice, di non dare dispiaceri alla famiglia, di non dare martiri a se medesimo, di cambiare strada. Egli mi ha risposto che io discorrevo logicamente; ma che, ciononostante, il suo amore per Adelia lo tormentava, lo rendeva cieco, smanioso, involto nella noia più tremenda ed annichilente. Il 28 luglio la gnora Antonia Piscopo, portandomi la neve mi ha detto che Ciccio si era avvelenato. Povero sciagurato! È rimasto vittima occasionale di una puttana dell’ex stato romano. I medici studiavano di fargli vomitare il veleno, o non so quale sostanza tossica aveva preso nella farmacia paterna. Era nevrastenico, aveva una tendenza decisa per il suicidio e lo ripeteva spesso nelle lettere e nella conversazione. Verso le 11,30 a.m. era già cadavere. Povero lui! Nel fiore della giovinezza, delle speranze dell’avvenire davanti a sé, amante e cultore delle lettere, con ingegno piuttosto buono, ha dovuto soccombere. Anche se egli non avesse Dio nella mente e nel cuore, pur mi destava pietà profonda. Il suicidio di un giovane è rumoroso, lascia un’eredità di dolore e cordoglio alla sua povera famiglia. Si è perduto per un’Adelia! Misera umanità! Gli ho augurato pace, se poteva averne. Il giorno dopo mi sono recato per visitare la desolata famiglia. Vedevo un certo non so che di insolito, una specie di esitazione mista a freddezza e riservatezza. Era un movimento forzato di gente, che non voleva muoversi. Si apparecchiava la condotta funebre del feretro. Non è stato ammesso in chiesa; è stato messo in deposito in una stanzetta, dietro le segrete del Carmine, con ingresso dalla porta dove abitavano i carabinieri. L’avanzo infelice del misero giovane è stato reietto dal tempio, non è stato confortato dai sacramenti, dall’olio santo, dal perdono del pane eucaristico prima di morire, e nemmeno dopo. Le campane restarono mute e non emisero il loro suono a mortorio. Fu accompagnato al campo santo con carrozza mortuaria di gran gala, parata a festa, dai gonfaloni di lusso dei casini della Società del mutuo soccorso, degli zolfatai, con la banda musicale in grande uniforme e un seguito poco numeroso di persone, con un senso di pietà misto a commiserazione e stupore. Una forza d’ingegno, mentre si evolveva speranzosa e promettente, è rimasta infranta e annichilita dalla sua stessa forza, lasciando lutto, cordoglio, lacrime e penosa sorpresa alla famiglia e un non so che di pubblica indignazione, mista a meraviglia, nel paese. Com’era brutto il feretro del povero giovane suicida! Come appariva deserta e nera la bara senza la croce e senza l’odore degli incensi sacri e delle sacre preghiere! L’avv. Giuseppe Lentini, sui primi gradini della scala del pretorio (l’antica casa comunale in piazza Cavour) ha parlato per circa mezz’ora, con le turbe silenti. Non sentivo cosa diceva, per la distanza che accentuava la difficoltà del mio udito. Un oratore, non so con quanta buona vena, poteva spendere sincera eloquenza sopra un giovane morto come Piscopo. L’addio alla bara del suicida non poteva essere bello ma solo rattristante. Ciccio Piscopo aveva ottime disposizioni naturali per le belle lettere e per la poesia specialmente, ma era bisbetico, nemico dello studio, della persistenza, leggicchiava i poetucoli moderni, sconosceva i classici antichi. Che diamine di elogi si potevano proferire ad uno sciagurato pazzotico? Più della pace e silenzio sul suo avello non si poteva ragionevolmente pretendere. Il Piscopo, fino al giorno prima del suicidio, parlava nel casino sul suo prossimo avvelenamento; pigliava conto dai suoi amici medici sulla velenosità della stricnina, in quanta dose e in quanto tempo distruggeva l’uomo. Ciccio diceva a Giuseppe Lentini: “Patto fatto; se io muoio prima di te, tu mi reciterai una commemorazione in pubblico sul cataletto dove giaceranno le mie ossa. Se morrai tu, io sarò il tuo laudatore”. Il fato volle che, dopo poche ore, quella specie di scherzo divenisse un’amara realtà. Egli prendeva per cura un poco di stricnina. Invece dei millesimi di grammo, ne inghiottì dei grammi interi e si procacciò tosto la morte. Chiamati i medici somministrarono i controveleni e soprattutto la morfina. Ma la stricnina irrimediabilmente fece il suo corso è trascinò la vittima, già pentita, negli abissi della morte mentre diceva a suo padre: “Papà non voglio morire; salvami; non ho preso il tossico per morire, non lo credevo micidiale; salvami ed in tutti i casi perdonami del grande dolore che ti do”. Poche persone, per lo più giovani, formavano il corteo, molti zolfatai tirati fuori a forza dalle zolfare dei Piscopo e dai rapporti clientelari di famiglia, dell’avv. Martino e del farmacista Piscopo, dello zio cav. Felice Bennardo, etc. Lacrime e commozione vera non mi è parso di vederne. Solo il dolore d’un caso miserando e nulla più. In poche ore non si sarebbe parlato più di lui. I giornali dissero qualche cosa con la penna dei corrispondenti, giovani fra loro solidali, se non amici, e tutto poi è finito. .....

(a sx il ritratto di Francesco Piscopo (5 ottobre 1878 - 28 luglio 1902) di Salvatore e Angela Bellavia)

 

 

11 - Giorgio Grajo: un personaggio straordinario

(tratto dai diari intimi del barone Antonio Mendola)

 

Sabato 1 settembre 1900 è arrivato in Favara un greco, un certo Giorgio Grajo, un sansone che operava mirabilia di forza. Era un vero atleta, alto grosso di 142 kg, tutto muscoli nerborati. Era bruno scuro, con gli occhi vividi, turgidi, quasi sanguigni, lucentissimi, che sprigionavano correnti di fluido magnetico vitale. Giorgio Grajo era nativo di Sparta; era forse un fenomeno atavico di quei fortissimi atleti e ginnasti dell’Ellade antica. La sua forza era naturale, non era stata coltivata o sviluppata ed accresciuta con esercizi. Da giovinetto non ebbe coscienza della propria forza, del suo avvenire; era malinconico, solitario, diverso dai suoi coetanei, inquieto, turbolento, ma nemico della violenza; aveva l’istinto di proteggere i deboli e gli oppressi. Visse molti anni esiliato a Siviglia, in Spagna. Ha percorso l’Europa e l’America destando le più alte meraviglie. Nelle sue peregrinazioni ha riscosso tale ammirazione ed ha generato tale stupore, che è stato decorato, nei diversi regni e stati da lui visitati, da 76 medaglie d’oro, da 208 d’argento e da moltissime nomine e titoli cavallereschi, fra cui: commendatore di Russia, membro della legione d’onore di Francia, dei Cavalieri di Malta, dell’Aquila di Russia, Cavaliere del Belgio, della Corona d’Italia, tante nomine accordategli dai re e dai presidenti di repubbliche. Giorgio portava con sé una cassetta di tutte queste onorificenze, portava all’occhiello il nastro della legione d’onore, la croce di Malta e di Russia, ma si vergognava di farsi chiamare cavaliere o commendatore. Nel 1892 a Filadelfia sostenne la lotta con una fortissima tigre del Serraglio di quella città. Lo spettacolo e la sua vittoria gli fruttarono quarantamila dollari in un’ora. La tigre gli diede sette morsi, uno dei quali gli tirò più di mezzo chilo di carne viva; ma egli, messe le mani dentro la bocca della belva feroce, sconquassò e divise le sue mascelle, aprendo in due la poderosa testa dell’animale. Fu un chiasso e un battimano incredibile. Giorgio era capace di rompere le catene che circondavano il suo largo torace, con la sola forza del respiro. Una volta, dando degli spettacoli di forza a Costantinopoli, maneggiò una palla di ferro di 100 kg, come un bambino che maneggia un giocattolo.         Mentre si esibiva a Favara, fu invitato a rompere un soldo o un doppio soldo; ha detto: “Ciò è ben facile; è un poco difficile rompere un centesimo o un pezzo da due centesimi”. Avutolo, lo ha, con le punte dell’indice e pollice, in un momento, spezzato in diversi pezzi. Gli è stato offerto un bastoncino di acciaio lungo 30 cm.: ha dato due o tre colpetti sul suo braccio e la verga si è piegata come una candela di cera. Ripercosse lo stesso col suo collo, senza impeto e sforzo, e l’acciaio riprese la sua diritta forma. Erano meraviglie quasi incredibili che la gente stentava a credere pur vedendole coi propri occhi. Giorgio parlava male l’italiano; parlava con più agio in francese. Era uno stravagante, un dissipatore, un giocatore di prima forza. Guadagnava centinaia di migliaia di lire, ma subito le disperdeva. Frequentava le bische più famose e spesso Montecarlo. Padre Padrenostro del convento dei frati minori di Favara lo aveva conosciuto anni prima a Mazzarino, anzi aveva coabitato con lui nella stessa locanda e gli aveva visto fare cose straordinarie. Una volta sollevò da terra un tavolino della caffetteria, col suo piano di marmo, con due fanciulli sopra e girando tutta la stanza, li tenne bene in equilibrio. Una volta a Catania scherzò con una donzella e il fratello, che era vicino, gli inflisse due schiaffi, ma immediatamente il gigante si voltò per ghermirlo, e guai se lo avesse toccato; ma quello, sapendo con chi aveva a che fare, fu prontissimo a puntarlo col revolver e così fu libero. L’8 e 9 settembre 1900 si è esibito in piazza Cavour a Favara. Grajo fece meravigliare la gente. Rompeva soldi, quanti gliene buttavano. Ruppe in due, in un momento, due mazzi di carte da gioco. Tenne sulla pancia un masso enorme di pietra calcarea, che quattro uomini non erano buoni a rimuovere e molti, con la mazza di ferro, davano colpi a più non posso, senza guastare il ventre del Sansone.

 

 

12 - Una storiella scandalosa

(tratto dai diari intimi del barone Antonio Mendola)

 

Nel lontano martedì del giorno di Natale del 1900, nell’implacabile forbice della maldicenza del popolino favarese (che già contava 20.000 anime) si tagliava e ritagliava una storiella scandalosa. La notte della ricorrenza della nascita del bambinello Gesù, come solennità di gozzoviglia popolare e nell’intento di recare un poco di conforto, Stefano Dulcetta e la moglie Pipituna, assieme all’altra figlia e genero, si recarono in casa dell’afflitta loro figlia Peppina Magro (riconosciuta dal Dulcetta come sua figlia successivamente), vedovella di Giuseppe Gibbiino assassinato pochi mesi prima. Don Stefano bussò ripetutamente alla porta, ma con sorpresa e dispiacere non vedeva aprirla, fino a quando la figlia rispose “non posso aprire”. “Come, non puoi aprire a tuo padre e tua madre e tua sorella e tuo cognato?”, rispose Stefano. “Non posso, non posso” disse Peppina. Il padre cominciò a picchiare maggiormente l’uscio. La gente corse abbondante, accumulandosi e facendo ressa davanti alla porta di Peppina. Perduta la pazienza Stefano, lasciando sul posto molti dei suoi, corse nella casa paterna e presto ritornò con molti garzoni e con una scala. Ordinò l’entrata scassinando la finestra. Si scalò la casa, si abbatté l’imposta, si entrò e si vide l’ingrata scena del drudo insieme alla Peppina, cioè di Salvatore Guarino, di quel Guarino figlio del cocchiere Tano che fu nei servigi del marchese Cafisi per molti anni. Questo Salvatore Guarino pare fosse un perfetto farabutto, una cattiva lana. A questa vista inaspettata Stefano Dulcetta con un bastone ammaccò malamente le ossa al Guarino, che nel marasma riuscì a scappare attraverso la folla. Stefano e i suoi lo raggiunsero in via Giarritella, vicino la casa detta di Pecorazza, lo afferrarono e rinnovarono la solfa solenne di legnate, conciandolo per le feste. Anche Peppina insaccò una buona dose di legnate, anche lei ha fatto il buon Natale. La maldicenza favarese diceva che la tresca tra Peppina e Turillo Guarino durava da mesi, anzi si diceva gravida da un pezzo. Ma un fatto scandaloso di tale portata non poteva finire nel nulla; infatti dopo un mese, cioè il 20 gennaio 1901, Peppina e Turillo Guarino si sono dovuti sposati nello stato civile e nella chiesa. Da questa storiella scandalosa, alle ore 8,35 del 16 gennaio 1902, nella casa sita in piazza Garibaldi, n. 250,è nato Gaetano (Turillo gli ha voluto dare lo stesso nome del padre), lo stesso, che, da sindaco socialista di Favara, per la sua grande onestà, ha pagato il suo tributo di sangue la sera del 16 maggio 1946.

 

 

13 - La madre di Gaetano Guarino arrestata per spaccio di denaro

(tratto dai diari intimi del barone Antonio Mendola)

 

Nei primi mesi del 1905 in Favara girava cartamoneta falsa, in particolare biglietti da 20 e da 50 lire, anzi pare che il paese (che già contava oltre 20 mila anime) ne era invaso. Si facevano alcuni nomi di spacciatori che avevano botteghe nella “strada nuova” o corso Vittorio Emanuele. Individuati i responsabili, il 1 aprile 1905 il prefetto mandò in Favara il commissario Franco che, coadiuvato da militari locali e questurini, dopo avere effettuato alcune perquisizioni, ha fatto arrestare la responsabile: Giuseppa Magro intesa Gibbiina, alla quale erano associati Vincenzo Licata (resosi latitante) e Giuseppe Marrone. Ma chi era questa Giuseppa Magro?: la stessa donna che assieme a Salvatore Guarino si resero protagonisti di una storiella scandalosa nel giorno di Natale del 1900 (vedi articolo), dal cui imposto matrimonio poi nacque Gaetano che, da sindaco socialista di Favara, nel 1946, per la sua grande onestà, pagò il suo tributo di sangue la sera del 16 maggio dello stesso anno).

 

Sottotenente Giuseppe Cirielli

Sottotenente del regio esercito Vincenzo Carmelo Cirielli

 

14 - Il Sott.te Giuseppe Cirielli comandante della stazione dei RR. CC. di Favara dal 1887 al 1889

(tratta dalla pubblicaz. settimanale "Carabiniere", anno XVII Serie II, N. 4, Roma 27-01-1889 e notizie inviate da Giancarlo Ciriello pronipote del tenente Giuseppe Cirielli)

 

- Sa, signor tenente, proprio qui fuori del paese (in c.da Pillitteri a Favara, ora zona urbanizzata), a mezzo chilometro di distanza, è stato assassinato (25 settembre 1887) un povero diavolo di zolfataio!

- Davvero! Come di chiama? E il motivo dell'eccidio?

- Il suo nome è Giuseppe Castronovo, di 26 anni e ammogliato; il motivo è sinora un mistero.

- Già, il solito mistero di voialtri siciliani con i quali la giustizia incontra le più serie difficoltà per far la luce sui misfatti! Ma vedrò io se mi riuscirà di squarciare il velo di questo vostro mistero.

Di lì a due minuti, il sottotenente Giuseppe Cirielli, comandante la stazione dei RR. CC. di Favara, seguito dal brigadiere Azzola Arturo, dal vicebrigadiere Noto Francesco, dai carabinieri Bodaro Antonio ed Esu Luigi, tutti della locale stazione dell'Arma, era sul posto e riconosceva purtroppo come l'infelice Castronovo fosse caduto vittima di ripetuti colpi d'armi da taglio e da punta, ma effettivamente non poté scoprire nel momento la causa, né gli autori dell'assassinio.

I militari instancabilmente cominciarono ad indagare, finché riuscirono a chiarire che un tale Antonino Fallea, pure zolfataio del luogo, era stato visto in compagnia del Castronovo pochi istanti prima della sua uccisione. Sin da principio i predetti militari avevano nutrito sospetti di colpevolezza a carico della moglie della vittima, certa Rosa Sciortino, della quale il padre ed un fratello si trovavano in carcere con l'imputazione di avere assassinato il genitore del Castronovo.

Arrestato il Fallea, tradotto nella caserma dell'Arma ed interrogato, finì col confessare la propria colpevolezza, con la complicità del cugino Calogero Fallea, in seguito a mandato ricevuto dalla predetta Sciortino, che aveva promesso loro 200 lire di premio. Le investigazioni del sottotenente Giuseppe Cirielli, del maresciallo Giuseppe Saloni, coadiuvati efficacemente dagli altri quattro militari summenzionati, il 7 agosto 1888 condussero ai risultati seguenti da parte della Corte d'Assise: condanna alla pena di morte per Antonino Fallea; condanna ai lavori forzati a vita per Calogero Fallea; condanna a 10 anni di lavori forzati per Rosa Sciortino.

Giuseppe Cirielli, tenente dei Reali Carabinieri, nacque ad Acquaviva delle Fonti il 22 luglio 1851 ed ivi morì il 4 febbraio 1929 e sposò Olimpia Mascitelli di Gioia dei Marsi (Aq). Negli ultimi anni del XIX secolo risiedeva a San Marco Argentano dove nacquero Chiara Rosa nel 1893, che morì ad Acquaviva delle Fonti nel 1978; Vincenzo Carmelo il 15 luglio 1894 in S. Marco Argentano (Cosenza), dove in quell'epoca, il padre Giuseppe, comandava la tenenza dei Reali Carabinieri; Italo (nonno di Giancarlo, che ringrazio per avere fornito queste notizie e le foto).

Vincenzo Carmelo Cirielli nel febbraio 1914 si era arruolato volontario nel plotone allievi sergenti del 9° reggimento fanteria (Brigata Regina) con sede in Bari e nei primi del 1915, promosso sergente, fu destinato al 61.mo reggimento fanteria (Brigata Sicilia) con sede a Parma, dove fece costantemente servizio di esplorazione e di ricognizione lungo la frontiera che separa la provincia di Brescia da Val Giudicarie (Trentino). Il 24 maggio di quell'anno, scoppiata la guerra contro l'Austria, il 61.mo fanteria fu uno dei primi reggimenti italiani ad agire, con una serie indeterminata di attacchi gloriosi, che si portò sino a Staro e, più tardi, oltre il Trentino. Il sergente Cirielli al fronte seguì il corso allievi ufficiali e nell’ottobre 1915 venne promosso aspirante ed un mese dopo s.tenente, ed il suo reggimento, prese parte all'attacco ed alla conquista della minutissima posizione di Cima Palone dove detto reggimento venne decimato per oltre il 20%. Il s.tenente Cirielli mentre si doveva dare l'assalto alle trincee nemiche, accortosi che i reticolati non erano stati completamente distrutti dall’artiglieria italiana, accompagnato da un soldato zappatore, uscito fuori la linea di combattimento, con pinze, si diede febbrilmente a tagliarli, fatto segno a continue scariche di fucileria nemica fino a quando colpito dai gassi asfissianti sprigionatisi da una granata scoppiata a lui vicino, privo di sensi, cadde sui reticolati stessi, che per essere spinosi, negli sforzi vanamente fatti per rialzarsi, gli ridussero a brandelli gli abiti, con conseguenti graffiature in tutto il corpo. Quando l'indomani incominciò a rinvenire, si ritrovò in un ospedaletto da campo, ove, per la guarigione, fu trattenuto una decina di giorni. A premiare tanto eroico slancio il suo comandante di compagnia lo propose per una onorificenza al valore, proposta che fu benevolmente accolta dal comandante di battaglione; ma il comandante di reggimento per quanto avesse riconosciuto encomiabile il sacrificio generoso del s.tenente Cirielli, non trovò di appoggiare la proposta, dicendo che tale azione entrava nell'ambito di quelle che tutti i militari sono chiamati a compiere. Nel mese di maggio 1916 detto reggimento da Val Giudicarie fu trasferito in Vallarsa, sempre nel Trentino, ed il 3° battaglione, a cui apparteneva il s.tenente Cirielli, fu mandato ad occupare Malga Zugna. Da qui il battaglione, verso la mezzanotte del 30 giugno, mossosi per impossessarsi del forte presidio nemico di Zugna Torta, sotto i reticolati di questo, verso le 3 del mattino del successivo 1° luglio, colpito al cranio, al collo e al braccio destro da una scheggia di granata nemica, faceva generoso olocausto della sua giovanissima esistenza sull'altare della Patria.

(in alto il sottotenente Giuseppe Cirielli e in basso il figlio sottotenente Vincenzo Carmelo Cirielli)

 

Luca ConociLapide di Luca Conoci al cimitero di Piana Traversa

 

15 - Luca Conoci vittima della ferocia umana

 

Luca Conoci, terzo di quattro fratelli, nacque a Palmariggi (LE), in via Ospedale (via Piave) il 3 marzo 1897 da Paolo e Domenica Palma. Frequentò il Ginnasio-liceo Capece di Maglie, ma dovette interrompere gli studi per servire la Patria nel primo conflitto mondiale. Fatto prigioniero sul Trentino, patì la prigionia in Germania. Rientrato dalla guerra non trovò la madre, morta nel 1917. Frequentò la famiglia Villani di Cannole (LE) dove conobbe Antonia D'Oro, insegnante elementare, di Favara, nata il 12 giugno 1890 da Calogero e Carmela Presti. Nel 1926 Luca e Antonia si trasferirono a Favara dove si sposano il 10 settembre 1927. Si stabiliscono in via Madrice presso la famiglia D'Oro ( i genitori di Antonia e le sorelle Rosalia, Franca e Calogero). Il 4 agosto del 1929 nacque Salvatore che purtroppo morì nel 1931 per le gravi ustioni riportate a seguito della caduta di un braciere. Luca si inserì senza difficoltà nella comunità favarese diventando confratello della Società di San Vincenzo De Paoli, fondata il 14 settembre 1928. I professionisti e gli intellettuali favaresi di cui cantava in versi nozze, ricorrenze e scampagnate, gli manifestarono affetto e stima. Un mattino, mentre si recava in campagna, fu trucidato da due colpi di lupara. Era il 24 maggio 1945.A premere il grilletto, secondo il racconto della vedova e dei fratelli, fu un pastore sorpreso da Luca a rubare le mandorle e i pistacchi nelle proprietà della famiglia D'Oro. Sembra che il comandante dei Carabinieri, al quale Luca consegnava il ladro, avesse commentato: Luca! Luca! che cosa hai fatto? La comunità favarese reagì con sdegno alla morte del palmariggiota amante delle feste, vicino ai poverelli e ai sofferenti e, stando ai racconti dei familiari, fu trovato morto nelle campagne favaresi. La vedova, in memoria del marito, fece dipingere l'immagine di San Luca nella madrice di Favara e i confratelli della San Vincenzo De Paoli, pubblicarono, nel trigesimo della morte, il saluto del Presidente Salvatore Pirelli, discorso che fu inviato anche ai parenti e amici palmariggioti. Sulla lapide della tomba (Sezione 27, fila 137 nel cimitero di Piana Traversa a Favara) si legge: LUCA CONOGI vittima della ferocia umana, fervido confratello de la "San Vincenzo", anima sensibile di poeta, nel cuore della sposa, dei parenti, degli amici, dei confratelli dei poveri sopravvive. La moglie Antonia D'Oro morì il 7 luglio 1967.

(in alto Luca Conoci e in basso la lapide della sua tomba al cimitero di piana Traversa)

 

Emilio Caludio BuonpensiereStefano Cafisi

Casina di Stefano Cafisi in contrada Saraceno

 

16 - Il pittore Emilio Claudio Buonpensiere

 

Durante una delle mie escursioni, qualche anno fa, presso il sito archeologico della “villa romana” presso la contrada Saraceno, ad ovest di Favara, in una stanza, al piano superiore, della casina, un tempo di Stefano Cafisi (1847-1906 foto a dx), mi trovai innanzi ad una parete con la seguente scritta: E. C. Buonpensiere - In questa stanza passò 27 giorni del Settembre 1886 dipingendo fiori e frutta, disegnando macchine che lo amico del suo cuore Stefano Cafisi ne esponeva i suoi ideali congegni e qui diè fine alla compilazione dell’opera di disegno. L’ornamentazione geometrica policroma che con miglior titolo venne chiamata “Il disegno nei suoi principi scientifici e nella sua pratica applicazione”. Sia pace alla vita sua. Che un pittore di nome Buonpensiere avesse avuto rapporti con qualche famiglia borghese di Favara mi era già noto attraverso un carboncino realizzato di sua mano, nel 1876, per donna Momma, ovvero Girolama Mendola, moglie di Salvatore Cafisi (zio di detto Stefano) e sorella del barone Antonio Mendola, ma questa scritta mi indusse a fare una ricerca per conoscere meglio il personaggio. Emilio Claudio Buonpensiere nacque a Gravina di Puglia il 2 febbraio 1849 da genitori siciliani. Suo padre fu don Luigi Buonpensiere e sua madre donna Albina Capolongo. Fece i suoi studi nel Regio Istituto di Belle Arti di Napoli dall'anno 1865 al 1871, rivelando presto una predilezione per le tematiche sociali. Incominciò ad insegnare disegno nella scuola tecnica d'Isernia e nelle ore libere eseguiva ritratti su commissione. Dalla scuola d'Isernia passò in Sicilia, a quella di Canicattì, dove eseguì felicemente alcuni pastelli e parecchi ritratti, tra i quali quelli della "Famiglia La Lumia". Eseguì molti lavori a pastello per l'Italia e per l'estero, specialmente per l'Egitto e per gli Stati Uniti. Tra le sue opere del periodo napoletano: “Scugnizzo napoletano”, nel 1869, esposto a Gravina, presso il museo della Fondazione Pomarici-Santomasi; un "San Giuseppe" per una cappella gentilizia nella chiesa di San Rocco in Gioia del Colle e un "San Sebastiano" per una principessa napoletana; "Un povero mendico", esposto nel 1870 alla Promotrice di Napoli, che meritò lodi speciali dal Morelli e dai capiscuola napoletani. In altre opere custodite a Gravina sono avvertibili suggestioni della coeva pittura toscana. Negli anni “80 del XIX sec. l’artista eseguì ritratti e quadri che presentò alle esposizioni di Milano (1881), di Torino (1884) e di Palermo. Fra i suoi quadri esposti alle pubbliche Mostre di Milano, di Torino e di Roma: "La Venere", "Il vecchio marinaro", "Il gatto soriano", "Una preoccupazione", "Le proletarie", "Mamma non viene". Alcune opere del Buonpensiere sono esposte nel museo Pomardi Santamasi in Gravina e alcuni ritratti presso privati. Fu professore di disegno nel Regio Istituto Tecnico Filippo Parlatore di Palermo e nell’Istituto Tecnico G. B. Della Porta a Napoli. Pubblicò i seguenti libri: “Pensieri metafisici”, “Della precognizione e del libero pensiero” e “Il disegno nei suoi principi scientifici e nella sua pratica applicazione” che, come detto, completò presso la casina di Stefano Cafisi presso la contrada Saraceno. Una sua biografia è inserita nel libro di E. Giannelli: “Artisti napoletani viventi – pittori, scultori, incisori ed architetti – Napoli, tipografia Melfi & Joele, 1916. Pensando che i dipinti debbono mantenersi sempre con la medesima freschezza di colori, ha fatto uno studio sulla loro natura, scartando i composti di rame e di piombo, i quali anneriscono col tempo, per effetti dell'aria, della luce e delle emanazioni solfidriche o per contatto con altri colori. I suoi quadri hanno avuto il giudizio favorevole, anzi le lodi della critica, la quale vi ha rilevato la freschezza del colore e la buona scuola del disegno. Il Buonpensiere ha esposto anche alla Prima Mostra Nazionale di Arte pura ed applicata promossa dalla Bernardo Celentano nel 1910 in Napoli. Concorse per la carica di direttore tecnico di Palermo che vinse nel 1888, dove rimase fino alla morte avvenuta nel 1927.

(in alto a sx) E. C. Buonpensiere; (a dx) Stefano Cafisi; (a dx) Casina di Stefano Cafisi in contrada Saraceno costruita sui resti di una villa romana e la scritta del 1886 su E. C. Buonpensiere; il trattato sul disegno di E. C. Buonpensiere)

 

Scritta su una parete, in una delle stanze della casina di Stefano Cafisi

Alexander Dumas figlio

 

17 - Alessandro Dumas filius populi di Favara

 

Molti studiosi conoscono il famoso autore francese del "Conte di Montecristo" e dei "Tre moschettieri" Alessandro Dumas - padre - (1803-1870) - v. foto-, oltre che per la sua abilità di scrittore, per il suo carattere generoso, bizzarro e prodigo, per il suo temperamento vulcanico ed il suo smoderato amore per l’avventura. Era un profondo ammiratore di Giuseppe Garibaldi, al punto da essere presente nel sud Italia e in Sicilia nel 1860 e subito dopo, in un momento decisivo per la storia d'Italia. Dumas (padre) viaggiava spesso con un codazzo di segretari e sempre insieme con "sa petite", come la chiamava lui, una sguaiata ragazza sempre in abito maschile e con la quale si permetteva certe libertà che a volte mettevano in imbarazzo certi gentiluomini che erano con lui. Quando Dumas venne a Girgenti col suo brigantino a vedere le rovine della Valle dei Templi, Vincenzo Mendolia, suocerastro del barone Antonio Mendola, come aveva fatto con Garibaldi, profuse inviti e denari al Dumas, credendo forse di compartecipare alla celebrità del romanziere Alessandro Dumas (figlio), ma ne ebbe disillusioni. Come ci riferisce il barone Antonio Mendola: Dumas viaggiava con una donna vestita da uomo e faceva vita da bestia. Vino, liquori, donne, gozzoviglie e la penna che fluiva romanzi. Questo era in sostanza Dumas padre. Una volta il Dumas volle prestato il servizio di argenteria da tavola da Vincenzo Mendolia per tenere un pranzo con amici sul suo brigantino e se Mendolia non avesse mandato qualcuno a prenderlo, avrebbe preso il volo chissà per quali lidi. Nel periodo in cui Alessandro Dumas (padre) venne in Sicilia e nell'agrigentino un fatto curioso si è intrecciato con Favara. Nel 1870 circa nasceva un figlio del popolo (o figlio di ignoti) che nel 1894, a Favara ha sposato una certa Giuseppa Maria Vullo. In questo frangente, questo filius populi ha dichiarato di chiamarsi Alessandro Dumas. Era forse un figlio bis di Alessandro padre? Certo il fatto è strano e meriterebbe un approfondimento. D'altronde Alessandro (padre) era abituato a queste cose. Anche Alessandro Dumas figlio (1824-1895), il celebre autore del romanzo "La signora delle camelie" nato dalla vicina di pianerottolo Catherine Laure Labay, venne dichiarato filius populi e riconosciuto, poi, dai genitori all'età di 7 anni. Dal matrimonio di Alessandro Dumas e Giuseppa Maria Vullo è nato Nicolò Dumas nel 1902, che nel 1925 ha sposato a Favara Francesca Imbergamo.

 

 

18 - Visse un ricco spagnolo 400 anni fa a Favara

 

Nelle lunghe ricerche sulle famiglie favaresi dalla metà del 1500 in poi mi sono imbattuto in un ricco soldato di milizia a cavallo, di Madrid (Spagna), tra la fine del 1500 e la prima metà del 1600 presente a Favara, dove nel 1595 ha sposato la favarese Palma Adamo. Il ricco soldato si chiamava Diego Fuentes (o Fontes), nato nel 1557, morto nel 1617 e sepolto nella chiesa dell’Itria. Nel 1617 aveva al suo servizio 15 fra servi, garzoni, bovari, giumentari, porcari e schiavi anche di colore. Nel 1616 ne aveva 34 (fra cui 10 schiavi). Possedeva molti animali e, tra i terreni, dei vigneti nel feudo di Stefano ed in quello di Favara, in particolare nella contrada delle grotte del Sollazzo (che doveva comprendere l’attuale piazza Capitano Vaccaro – calvario - e tutta la zona urbanizzata a nord). Nella via Lunga (oggi via Umberto) possedeva intorno a 30 corpi di case, ed altre sparse nella zona di S. Lucia e S. Vito.

 

Atto di morte di Ferdinando Privitera

 

19 -  Ferdinando Privitera ucciso a furor di popolo

 

A Favara, come negli altri Stati feudali (Comuni con territorio di pertinenza), gli ufficiali dell’amministrazione locale erano nominati dal barone ed in sua vece dal governatore che egli stesso eleggeva per ragioni di lontananza o perché impossibilitato ad esercitare direttamente i privilegi. Nell’Università (poi Comune) la carica più importante era ricoperta dal secreto (qualche volta chiamato anche governatore o camerario) in rappresentanza del feudatario. Il secreto curava la cessione e lo scioglimento delle gabelle e dazi con l’assistenza dei giurati, del sindaco e del mastro notaro. I giurati (1636-1812) facevano parte della corte giuratoria dell’Università; erano gli esecutori delle disposizioni dell’autorità centrale; avevano il potere di emanare bandi, comandamenti ed ordinare ingiunzioni. Loro principali cure erano di provvedere all’annona con i mezzi allora ritenuti più appropriati, all’approvvigionamento del grano, al divieto di esportazione di determinati prodotti, all’imposizione dei prezzi per particolari generi, all’obbligo dei riveli delle coltivazioni, dei prodotti agricoli, etc. Avevano pure il compito di mettere all’asta le gabelle e dare disposizioni sulla sicurezza e salute pubblica, di provvedere alla pavimentazione delle strade interne ed eventualmente esterne, far eseguire ripari alle fontane, bevai ed acquedotti pubblici. Al nobile, feudatario del luogo, spettava la nomina di quattro giurati dell’Università e la scelta doveva ricadere fra coloro che figuravano nella cosiddetta Mastra nobile, ovvero un elenco chiuso di nominativi di persone appartenenti alle famiglie più illustri del luogo. Anticamente correva in Favara un poema in ottava rima siciliana, dove stavano allegati i disegni del castello Chiaramonte, con la descrizione dei costumi, delle usanze e dei pregiudizi dei loro possessori. Fra gli argomenti si leggeva della morte di cotal Ferdinando Privitera che, a nome del feudatario, insistendo rigorosamente per riscuotere il diritto su una fidanzata, fu ucciso a furor di popolo e principalmente dalle donne. Così rimase in quella gente il motto d'imprecazione: Chi ti pozzani fari comu Privitera. L’atto di morte e sepoltura del liber defunctorum n. 9, parte I, pag. 70 dell’archivio della madrice (v. foto) riporta a caratteri minuti: Die 11 luglio 1718 - d. Ferdinandus Privitera an. 40 et in revolutione populi fuit interfectus absque sacramentis sepultus in ven. eccl. Purgatorio per d. Gabriele Alferi. Don Ferdinando Privitera è nato intorno al 1678 da don Domenico e Anna, palermitani, del quartiere Kalsa; ha sposato il 29 settembre 1711, a Favara, con dispensa vescovile, la cugina donna Caterina Portalone figlia del medico Domenico (il cui nonno era di Licata ed il bisnonno di Caltagirone) e di Angela Martorella da Palermo. È stato uno dei cinque giurati dello Stato di Favara tra il 1713 e 1714, quando contava poco meno di 5.500 anime. Si ritiene di dover escludere la causa della sua uccisione riportata in vecchi testi, secondo riferimenti dati dall'arciprete Antonino Salvaggio, per l’anacronismo storico-temporale sull’applicazione del citato diritto e per i buoni rapporti che lo stesso, come rilevato dagli atti, sembrava avere con la famiglia della moglie. La causa dell’uccisione potrebbe, invece, essere ricondotta alla sua attività di giurato, difficile in una realtà sociale come quella di Favara, con la popolazione gravata da angariche tasse, soprattutto per le gabelle che l’Università dava in appalto ogni cinque anni. D’altronde, nella seconda metà del sec. XVIII, a seguito della restituzione alle popolazioni del Regno di alcuni diritti, per opera del viceré Caracciolo, tali furono le agitazioni in parecchie terre, al punto che molti ufficiali dei baroni furono scacciati a furor di popolo.

 

 

20 - Morte di don Liddu

(tratto dai diari intimi del barone Antonio Mendola)

 

Alla fine del 1897 sono stato colpito dal rumore di una catastrofe accaduta vicino alla mia abitazione, per la morte di un certo sartore forestiero chiamato don Liddu, forse Gaetani, rampollo di nobile decaduta famiglia. Lasciava la giovane moglie e sette figli piccini non riconosciuti civilmente. Egli era sposato ecclesiasticamente con una figlia di Rosalia Cognata, figlia del mio antico cocchiere don Giorgio. Quei pianti scossero il mio sonno e mi commossero a pietà. Sapevo la malattia, sapevo l'indigenza della famigliola. Don Liddu lavorava tutto il santo giorno con l'ago, affannandosi gli occhi sopra una seggiola. La notte andava al dazio consumo, vegliando con disagio, al fine di mantenere la famiglia. Questo lavoro improbo, questa preoccupazione morale, la pessima qualità del vitto, la parsimonia insufficiente all'uomo, al lavoratore, gli produssero una malattia cronica ed orrenda, per la quale fu mandato al sepolcro. Che terribile prospettiva per sette esserini deboli, soli, poverissimi, senza tetto, senza pane, senza speranza di procacciarne. Che infamia dei ricchi. Ho detto a me stesso: << Tu dormi qui, in una stanza ben arredata, sotto coltrici di lusso, saldi e confortevoli, in un palazzo con tante stanze, mentre sette infelici privi di tutto piangono e gemono sopra una sventura superiore a loro, di forza maggiore, piangono i piccini, piangono gli innocenti, piangono i lavoratori o i figli dei lavoratori e i benestanti guardano impavidi questo spettacolo e dormono e banchettano e forse si abbandonano all'orgia della gozzoviglia e della lussuria. I benestanti che oziano, i benestanti che consumano e non producono, che hanno intelletto per leggere il Vangelo e le forze ed i mezzi per esercitare le massime divine ed umanitarie. Essi non troveranno scuse e perdono davanti all'eterno Giudice delle opere di misericordia. Se tutti si ponessero una mano sul cuore, se tutti si conformassero alla Bibbia queste iniquità sociali si vedrebbero cancellate e sparirebbero.

Dagli atti parrocchiali si evince che Calogero Gaetani è morto a Favara il 29 dicembre 1897, all'età di 43 anni. Era nato, quindi, intorno al 1854, a Naro, da don Antonio Gaetani e Calogera Trupia. Il 12 ottobre 1873 aveva sposato Rosaria Schifano, figlia di Calogero e Rosalia Cognata.

 

da sinistra, Anna Andronico, Angelina Piscopo e Maria Andronico

 

21 - Leonardo Sciascia a Favara

(di Pino Sciumè)

 

Il 6 gennaio 2009 moriva Maria Andronico, nata a Petralia Soprana nel 1922 e moglie di Leonardo Sciascia (1921-1989). Una donna eccezionale che ha saputo condividere nel silenzio e nella totale dedizione non solo il ruolo di compagna, ma anche la sua missione di madre delle due figlie Laura e Anna Maria. Oggi riposa accanto alla tomba del marito, nel cimitero di Racalmuto. Da questa notizia, riletta per caso un paio di mesi fa assieme ad un nostro amico, è uscito fuori un episodio del tutto sconosciuto sullo scrittore racalmutese che, a vent’anni, nel 1941, prese il diploma di scuola magistrale a Caltanissetta. Tornato con la famiglia a Racalmuto si impiegò presso l’Ufficio Ammasso del grano. Nell’estate del 1944, a soli 23 anni, sposò Maria Andronico. Scrive Matteo Collura, in un articolo sul Corriere della Sera dell’8 gennaio 2009: “…in una Caltanissetta stremata dalla guerra e percorsa dalle jeep dei soldati americani. Un matrimonio celebrato in una chiesa spoglia e alla presenza dei soli testimoni. Già questo, per lei, fu un adattarsi alla volontà del suo uomo, il quale, presa la decisione di sposarsi, nonostante avesse una relazione più o meno nota con un’altra ragazza, volle mettere se stesso e i suoi familiari di fronte al fatto compiuto. Si erano conosciuti, in casa dello scrittore, dove Maria Andronico, maestra, si recava per incontrare le zie di Leonardo Sciascia, due delle quali maestre”.Ma chi era Maria Andronico? Noi qualcosa abbiamo saputo. Notizie suffragate da testimonianze di una persona ancora in vita (e di altre ancora), che ci ha fornito particolari estremamente interessanti, non riscontrabili in alcun motore di ricerca nell’universo internet. Fatti incontestabili che ci dimostrano, dopo 70 anni, che il più grande scrittore italiano del secondo novecento, nei primi mesi del 1944, ha frequentato una casa di Favara, sita nella via Umberto al civico 167. Casa appartenuta a Felice Bennardo, primo sindaco di Favara dall’Unità d’Italia, passata successivamente ai suoi eredi, le famiglie Bellavia e Piscopo. Nel 1945, in questa casa è nato (e ancora vive) Francesco Lanza, unico figlio di Filippo e Angelina Piscopo. E proprio Francesco (Cesco per gli amici, funzionario in pensione dell’Ufficio Provinciale del Lavoro di Agrigento), ci ha raccontato una verità che, visto il personaggio a cui si riferisce, assume un grande valore storico e letterario che sicuramente arricchirà i documenti sulla biografia di Sciascia.Nel 1940 a Favara fu inviato a comandare la locale Stazione Carabinieri (che allora si trovava in via Pirandello), il Maresciallo Salvatore Andronico, originario di Ramacca in provincia di Catania. Prese un appartamento in affitto al secondo piano della casa della famiglia Piscopo, al n. 167 della via Umberto. I proprietari tennero per sé il primo piano. Il Maresciallo vi trasferì la famiglia, moglie e tre figli, Maria, Anna e Vincenzo. Ci rimase fino al 1950. Le tre signorine che vedete nella foto sono, da sinistra, Anna Andronico, Angelina Piscopo e Maria Andronico.Sciascia conobbe la sua futura consorte a Racalmuto, dove si recava a fare la maestra, probabilmente a cavallo tra il 1943 e il 1944. Evidentemente sul suo cammino sentimentale, Favara ebbe un ruolo essenziale. Lo scrittore infatti si separò da un’altra fidanzata favarese per frequentare e poi sposare Maria. Si fidanzò “in casa”, come ci dice il nostro amico Cesco, per questo l’allora giovane Nanà si spostava da Racalmuto e saliva i gradini di casa sua.

 

 

22 - L'omicidio Micari

(tratto dai diari del barone Antonio Mendola appunti del 13 gennaio 1904)

 

Il 29 gennaio 1895 io registravo in questi diari l'arrivo in Favara di un poveretto chiamato Antonino Micari* mandatomi dal geometra Viticoltore Francesco Vitale mio amico da Messina come bravo innestatore di viti americane, statomi richiesto dal dr. Antonio Valenti. Era quel 29 gennaio giorno di domenica. Mi ricordo che quel giovane buono anche all'aspetto si presentò a me verso sera. Subito l'indirizzai al dr. Valenti che provvide subito all'alloggio e a tutt'altro. Egli disimpegnò bene il suo mestiere e le vigne del Valenti, le più antiche di Favara lo attestano ancora mantenendosi belle e produttive. Chi avrebbe potuto prevedere in quel giorno che questo povero giovane avrebbe dovuto lasciare le ossa sotto palle assassine in Favara? E che io avrei, dopo 10 anni, dovuto segnare nei diari la sua venuta e la sua morte? Terminate le vigne del Valenti il Micari era ricercatissimo da tutti e cercava di contentare tutti, lavorando ora qua, ora la e guadagnando almeno 5 lire al giorno. Poi si allocò in casa Giudice. Si costruì così un capitaletto. Circa due anni fa sposò Carmela Lombardo fu Michele, nipote di Antonio Lombardo marito di Peppina Miccichè, da cui non ebbe figli. Questo ricco zio Antonio Lombardo dotò la nipote Carmela quando la prima volta si sposava con Peppino Pardo maestro elementare nelle scuole comunali e professore di musica. La coppia tirava bene avanti e da professore di musica. La coppia tirava bene avanti e don Peppino Pardo oltre allo stipendio ad ai proventi della dote aveva accumulato un capitale che negoziava sotto tutte le forme, ora in frumento, ora in vini, etc. Morto il Pardo rimase la vedova Carmela coi figli e un bel gruzzolo di denaro. La Carmela Lombardo desiderava marito, Antonino Micari desiderava denaro e facilmente si intesero e si sposarono. Però il Micari non possedeva che qualche migliaio di lire. Carmela maneggiava da 15 a 20 mila lire. Essa non si dotò. Amava e trattava il marito, ma teneva gelosamente il predominio dell'azienda domestica e del piccolo commercio che esercitava. La Carmela ha un fratello chiamato Antonio, maritato e con figli. Un brutto ceffo, un mal cuore, un disordinato e squilibrato come oggi si dice. Sempre malcontento, disperato, pieno di debiti ha sciupato molta parte della piccola fortuna ereditata dai suoi zii. Chiedeva ed otteneva spesso soccorsi e denari dalla sorella ed al di di oggi dal cognato Micari. Era insaziabile. Con questo attrito d'interessi nascevano continuati disgusti, diverbi e risse. La sera del 5 gennaio ebbero uno di queste spiacevoli contrasti e facilmente si venne alle mani e ci furono schiaffi, pugni e ceffoni. Antonio Lombardo imputato dell'omicidio Micari. Dopo lunga latitanza si presenta spontaneamente il 22 gennaio 1906 alla Giustizia in Girgenti. La sera del 9 gennaio, nella stessa bottega di vino, una delle principali che il Micari teneva, nel quadrivio Vittorio Emanuele e via Umberto o salita Badia, Antonio Lombardo solo e ben imbacuccato entra ad ¼ di notte mentre non c'era nessuno, eccetto lo stesso Micari, il quale preparava il caffé per portarlo alla padrona, cioè sua moglie. Antonio, cognato del Micari si avanza e giunto al banco esplode il primo colpo di rivoltella sforando il cervello dalla parte frontale e freddando istantaneamente il cognato. Indi, appena rovesciato a terra in una pozza di sangue, esplode il secondo colpo e gli trapassa il cuore. In un momento il povero Micari fu morto e rimorto. La serva tramortì. Sentiti i colpi di arma da fuoco, in un punto così centrale, entra la folla ed alcune guardie, inorridendo per quello spettacolo. L'assassino quatto quatto, appena consumato il barbaro misfatto, incappucciato uscì fuori confondendosi col popolo e svignandosela. Appena la serva si riebbe disse tutta la verità e raccontò il sangue freddo e la celerità del cognato nell'ammazzare barbaramente il povero Micari. Questo fatto produsse una grande impressione al pubblico e per lungo tempo, per come avvenne e per la qualità della persona, per la nota bontà del Micari. Antonio Lombardo è un vero tizzo d'inferno, un vero delinquente brutale. Non ha pensato al gran danno fatto alla sorella Carmela ed ai di lui figli, non ha pensato alla rovina che ha addossato alla sua persona e famiglia. La famosa giustizia d'Italia e specialmente di Favara non ha avuto fino ad oggi l'abilità di impadronirsi di questo miserabile e volgare assassino. Quel che ora si dice è che Antonio Lombardo si va procurando l'alibi, si va fornendo di testimoni falsi in suo favore e nega di essere stato l'assassino del cognato, che la serva trasognò o fu spinta da vendetta perché le era nemica. Tutti credono che il Lombardo se la caverà per il rotto della cuffia. Si dice, altresì, che la vedova Carmela Lombardo sia rimasta vedova una seconda volta con l'aggiunta di povera pazza. Essa nel rimaritarsi non si dotò, non si fece firmare in suo favore una dichiarazione del marito qualmente, secondo verità, i capitali erano suoi, anzi meglio dei poveri orfani di Peppino Pardo, primo marito. Ora i fratelli del Micari sostengono che i capitali erano del padrone di casa, del loro protetto Antonino Micari. In proposito hanno apposto i suggelli che già il Pretore ha messo e nelle cantine e nei magazzini.

* Antonino Micari era di Messina,  nato nel 1871 e morto il  9 1 1905, figlio di Giuseppe e Giovanna Bombace.

 

 

23 - Giuseppe Patania pittore dell'alta borghesia favarese dell'ottocento

 

Giuseppe Patania nacque il 18 gennaio 1780 da Giacinto (caffettiere e sarto) da Acireale e Giuseppa D’Anna (levatrice) ed abitò sin da piccolo a Palermo. All’età di 7 anni iniziò a frequentare la bottega di uno scultore e a 10 anni è stato introdotto nello studio di Giuseppe Velasquez. Dopo cinque anni lasciò il Velasquez e continuò gli studi da autodidatta, frequentando l’accademia del nudo, dove maturò il proprio stile. Nel 1803 esordì come ritrattista e due anni dopo, chiamato dal console di Spagna, si recò a Mayone e Minorca, dove eseguì diversi dipinti. Nel 1805, all’età di 25 anni è stato colpito da una malattia che lo ha costretto a rimanere segregato a casa durante i mesi freddi. Nel 1807 ha firmato l’autoritratto e gli anni che seguirono furono un continuo proliferare di opere. Nel 1832 ha sposato la vedova Narda Bucalo. La sua abilità è stata apprezzata anche dall’alta borghesia favarese del suo tempo, quella che, oltre agli interessi economici curava anche quelli culturali. Nel 1838 ha dipinto un ritratto per il giudice di Favara. Nel 1840 ha prodotto un quadro a sfondo sacro per il barone Giuseppe Mendola e due ritratti per il marchese vecchio Giuseppe Cafisi e per il defunto padre Stefano, su suggerimenti e ricordi (Stefano Cafisi era l’amministratore dei beni del marchese di Favara e dopo la sua morte avvenuta nel 1833, quando il bilancio comunale annuo ammontava mediamente a 3.000 onze, da una sommaria inventariazione dei beni da lui lasciati, gli è stato stimato un patrimonio di circa 128.000 onze). Negli anni 1841, 1847, 1848 e 1849 ha firmato altri dipinti per la famiglia Cafisi, riproducenti ritratti, scene sacre, di famiglia, storiche, mitologiche e tratte da romanzi.

(dipinto di Giuseppe Patania - Francesco Saverio Cafisi con la moglie Maria Stella Giudice, la figlia Giuseppa col genero barone Giuseppe Morreale di Aragona, altre due figlie e la nipotina in corrozzina)

 

 

24 - Vicenzu u mutu: da lurido scimunito a pupo di zucchero

 

Tra la seconda metà del 1800 e la prima metà del 1900 a Favara esisteva una rinomata dolceria e caffetteria, poi anche ristorante e albergo, di don Francesco (Cecè) Albergamo prospiciente piazza Cavour e via Belmonte, confinante con la chiesa del Purgatorio (v. foto con campitura rossa). Ogni anno, nel periodo di Natale, Cecè Albergamo realizzava una bella esposizione di dolci, illuminata ad acetilene, tale da tenere occupati bambini e fanciulli che guardavano allampanati, senza sapere distaccarsene. C’era il ben di Dio, dolci d’ogni fattura, forma e colore: di riposto, biscotti, savoiardi, mostaccioli di Palermo ed altri, ma ciò che colpiva maggiormente l’attenzione erano i “frutti di Martorana” e la “Cena”. La “Cena” era una collezione di “pupi” gettati a stampo, di zucchero leggermente acidulato, vuoto di dentro, nelle varie forme: ballerine, animali, soldati, bimbi vestiti e nudi, etc. Ogni anno don Cecè Albergamo si studiava per realizzare ed esporre oggetti capaci di attirare l’attenzione. Una volta mise un bel gallo ed altri animali quasi a grandezza naturale, di belle forme e di vari colori. Per il Natale del 1901 ha avuto la brillante idea di mettere un gran “pupo” imitante un personaggio notissimo al popolo favarese: “Vicenzu u mutu”, un povero scimunito brutto, lacero, pidocchioso, ludibrio dei monelli e bersaglio della crudeltà dei malvagi. Per essere troppo noto e facilmente identificabile a “Vicenzu u mutu”, questo “pupo” richiama l’attenzione e suscitava il barbaro applauso dei monelli e della gentaglia che si accalcava per vederlo. Tanti bambini, desiderando questi “pupi” e tanti altri dolci stuzzicanti la gola, si rodevano dentro per non poterli comprare e guardavano desiderosi da fuori la vetrina. Per certi versi era come se don Cecè sottoponesse quei bambini ad un martirio, come se li condannasse al dolore, al rammarico, quasi alla disperazione. Chissà quei poverini come andavano a letto, come sognavano e come rimpiangevano il loro stato d’impossibilità di soddisfare i loro piccoli, innocenti desideri.

 

Boccone del povero da una foto del 1897

 

25 - Elena Gaudio: un angioletto volato in cielo

 

Fino ai primi del 1900 il problema dei neonati abbandonati era per Favara, come per le altre comunità del regno, una piaga sociale. Molti di questi bambini appena nati dovevano subire come prima cosa, l'imposizione di un cognome spesso allusivo e spregevole; il futuro, poi, era una montagna da scalare. Una delle tante creaturine sfortunate fu Elena Gaudio, nata il 28 giugno del 1891e ritrovata nella ruota dei proietti. Il cognome imposto, contrariamente alla barbara consuetudine del tempo, fu di buon auspicio, ma per niente benevola è stata la sorte. Come racconta il barone Antonio Mendola nei suoi diari: Elena Gaudio, la piccola infelice, abbandonata trovatella che fu ricoverata all'orfanotrofio delle bocconiste a fine ottobre 1900 si è spenta oggi (18 giugno 1901) alle 9,30 di meningite. La comunità è in lutto e la superiora piange più che una madre e le suore e le compagne la seguono e versano lacrime e fiori sulla piccina eternamente addormentata sul lettuccio della camera ardente, dentro la stanzetta destinata alla portinaia. È un giorno di amarezza. Molti corrono a vedere la piccola morta. Essa stava grassa e florida quando strisciava tra gli immondi giacigli dei luridi cortili e casupole ed ora ben pasciuta, vestita e curata, si è spenta magrissima e deformata. Anche a me è spiaciuta questa morte. Ho visto da dietro i balconi socchiusi della biblioteca il feretro della piccola orfanella. La superiora rifiutò il carro dei poveri, il carro della carità, e pagò il carro mortuario di seconda classe per rendere l'ultimo tributo d'affetto all'innocente creatura. Le suore piangevano, piangevano le orfanelle divise in due file, davanti al carro e dietro i frati minori. Pochi curiosi. Eppure dicevo tra me: questo oscuro e trascurato feretro meriterebbe maggior rispetto. Il mondo è sempre lo stesso. Fa pompe ai ricchi e spesso ai tristi, ai tiranni, alle messaline e tiene quasi in dispregio la povera e pudica verginella, ignota e senza parenti e amici. Le madri della carità, le buone suore bocconiste con le loro preghiere e col loro dolore, solo esse facevano giustizia e onore al piccolo cadavere della loro figlia adottiva in Gesù Cristo. Sia pace e misericordia a loro. Eppure questa piccina oggi diventerà più grande dei grandi di lassù, in quella gloria che non si spegne mai ed il gaudio che ebbe nel nome in questa vita, impostole con le acque lustrali del battesimo, sarà da ora in avanti vero gaudio celestiale ed eterno. La pompa che le fu negata sulla terra la troverà oggi centuplicata fra gli angeli e fra le verginelle sue pari. Tutto è compenso.

(il Boccone del povero di Favara visto dal Castello)

 

Da sx: Matteo Mingo con la moglie Crocifissa Bongiovanni e i figli Lucia e Nicolò.

 

26 - Un coraggioso appuntato di P. S.

(Notizie e foto della Sig.ra Isabella Mingo di Napoli, pronipote dell'appuntato Matteo e nipote di Nicolò)

 

Tra gli ufficiali ed agenti di Pubblica Sicurezza della Prefettura che si distinsero in Favara nei mesi di aprile, maggio e giugno 1867, durante l’epidemia di colera, è da ricordare l’appuntato Matteo Mingo (Siracusa 21 settembre 1833/Catania 27 ottobre 1907), in quel tempo residente in Favara. ….. Questo solerte funzionario non appena il fatal morbo si fece sentire in paese si gettò corpo ed anima in mezzo ai colerosi e fu ben presto colpito anch’esso. Lottò con la morte che vinse, e ricominciò l’opera tralasciata con maggiore fervore. All'arrivo di Garibaldi a Noto, Matteo Mingo issò nottetempo il primo tricolore a Noto, sulla statua di Ercole, il 15 maggio 1860. Poi per lavoro si allontanò da quella città, risiedendo a Favara, a Termini Imerese e infine a Catania (e forse anche altrove). Da Matteo Mingo e Crocifissa Bongiovanni nacquero Carlo Corrado, Carlo, Enrico, Lucia e Nicolò. Carlo Corrado Mingo, come riportato sul certificato di licenza liceale rilasciato dal R. Liceo Gargallo di Siracusa e sul certificato del XII° Corpo d’Armata di idoneità al grado di sottotenente risulta nato a Favara il 10 luglio 1870; fu farmacista e ufficiale nell'esercito. Di carattere schivo,  emigrò in Paraguay col fratello minore Carlo, partecipando con altri 245 giovani siciliani alla realizzazione della “Colonia Trinacria” e fu attivo nella Società di Mutuo Soccorso. Morì ad Asuncion (Paraguay) nel 1951. Carlo, secondo figlio di Matteo, nacque a Termini Imerese il 1 gennaio 1873; combatté nella guerra greco-turca con Ricciotti Garibaldi e Amilcare Cipriani, fra i volontari internazionalisti e giovani studenti universitari. Sbarcarono clandestinamente in Grecia per partecipare alla guerra greco-turca, combattendo a Patrasso, a fianco dei greci, e di seguito a Domokos, in Tessaglia, dove purtroppo furono costretti alla ritirata dai Turchi. La battaglia di Domokos fu una vicenda sfortunata ma gloriosa, in quanto contribuì a rendere visibile in Europa la fitta rete politica e organizzativa rappresentata dalle associazioni repubblicane, socialiste ed anarchiche che dettero manifestazione di solidarietà alla libertà del popolo greco. Durante i combattimenti di Domokos Carlo fu ferito al ginocchio. Come già detto, Carlo partì col fratello Carlo Corrado per il Paraguay nel 1898. In quel luogo lontano fu un noto matematico, insegnò all'università di Asuncion e fu viceconsole d'Italia per diversi anni. Ebbe una vasta discendenza e morì nel 1931.

Un terzo figlio, Enrico, nato a Termini Imerese nel 1875, fu ufficiale medico.

( a sx una foto del 1903-1905 di Matteo Mingo, la moglie Crocifissa Bongiovanni e i due figli più giovani Lucia, n. a Siracusa nel 1888 e Nicolò n. a Piazza Armerina nel 1885, farmacista e prof. di chimica; (a dx in alto) Carlo Corrado Mingo e (in basso) Carlo Mingo)

 

Carlo Corrado Mingo di Matteo

Carlo Mingo di Matteo

 

27 - Stefanu Cuppularu

 

Di Salvo Stefano, alias Cuppularu (v. foto), nacque a Favara il 16 maggio 1918 da Stefano (figlio di Filippo del quartiere S. Michele di Girgenti) e Angela Galiano (di Diego e Brigida Castronovo). Dopo avere perso il lavoro di custode del gabinetto pubblico, fu coinvolto in un attentato a Palermo ed arrestato; ma non passò molto tempo e fu rimesso in libertà. Abitava alle spalle della chiesa del Purgatorio in mezzo alla sporcizia e nel fetore. Trascorse una vita di stenti e miserie, avendo solamente i cani come amici fedeli, con i quali dormiva, mangiava e dialogava. Usciva la mattina di buon ora per strada, con al seguito i suoi cani, a cercare nei quartieri, tra i rifiuti, qualcosa di utile da raccogliere per andarlo a vendere e, con i soldi, racimolare un fugace pasto. Stefano Di Salvo, capellone spontaneo, può ritenersi uno dei primi uomini Hippy in Italia. Animava il Carnevale esibendosi, qualche volta, solitario in danze e ritmi, accompagnato dal suono di un giradischi. Sapeva dipingere e tanti studenti spesso ricorrevano a lui per i disegni. Di indole buona, non infastidiva mai nessuno e, di contro, spesso dei bulli lo schernivano.

I suoi ultimi giorni furono rattristati dalla cecità e si spense nella solitudine il 10 gennaio 1993.

 Raimondo Presti da Genova, Maurizio Piscopo da Palermo e Pino Bullara da Favara lo ricordano con le seguenti poesie.

 

Raimondo Presti

Stefano Di Salvo alias Cuppularu

U zingaru pueta

Stefanu Cuppularu abbaiava a luna

 e pisciava contro i muri senza luci

arrubbava storia e cultura ni i cristiani

 e màccicava a sò vita di zingaru pueta.

Ai cani ci parlava di Montale,

 Schopenhauer, Pirandellu e Dostoevskij,

s’addrummisciva cu a luci da cannila

cunzumannusi comu a vita ca faciva.

Firriava pi i vaneddri cu i sò cani

liggennu tuttu chiddru ca putiva

si ci parlavi un t’arrispunniva

aviva pinzeri anti pi sintiri.

Stefanu Cuppularu parlava cu a luna

E ci cuntava i sò sonni cchiù ammucciati

ci dicivanu lordu pirchì un si lavava

ma aviva l’arma cchiù pulita da lisciva.

U vitti firmari u ventu cu i sò mani

u sintivu parlari cu Diu n’ginucchiuni

l’ascuntavu sintennuci diri cumedii di palòri

e chiangennu ricitari a memoria puisii.

Parlava cu i cani e sputava a luna

pisciannu contruventu a sò svintura

s’addrummiscì n’zemmula a i sò sonni

c’arristaru strazzati mezzu a i strati.

Lo zingaro poeta

Stefano Coppolaro abbaiava alla luna

e urinava contro i muri senza luce

rubava storia e cultura dalle persone

masticando la sua vita di zingaro poeta.

Ai cani lui parlava di Montale,

di Schopenhauer, Pirandello e Dostoevskij,

si addormentava con la luce di una candela

che si consumava come la vita che faceva.

Girava i quartieri con i suoi cani

leggendo tutto quello che gli capitava

se gli parlavi non ti rispondeva

perché aveva pensieri alti per sentirti.

Stefano Coppolaro parlava con la luna

raccontandogli i suoi sogni più nascosti

gli dicevano sporco perché non si lavava

ma aveva l’anima più pulita della lisciva.

L’ho visto fermare il vento con le mani

l’ho sentito parlare in ginocchio con Dio

gli ho sentito dire aquiloni di parole

è piangendo recitare poesie a memoria.

Parlava con i cani e sputava alla luna

pisciando controvento e alla sua sventura

si è addormentato insieme ai suoi sogni

che sono rimasti strappati per terra.

 

Giuseppe Maurizio Piscopo

Stefano Di Salvo alias Cuppularu

 

La ballata di Stefaninu Cuppularu

Ca a la Favara sugnu amatu e caru

iu sugnu Stefaninu cuppularu

e vivu e campu mezzu un munnizzaru

primu cuscinu di lu Gibilaru.

 Sintennu ca lu chiummu avia crisciutu

finu a Germania si nn'havia scappatu

a Cicchiddru mezzu mortu fu truvatu

di li so cani stessi fu sarvatu.

Cu li cagnoli pronti e ammaestrati

a Stefanu u viditi mezzu i strati

arriva sempri cu lu passu moddru

è Stefaninu cu lu saccu n'coddru.

 

La ballata di Stefanino Coppolaro

Qui a Favara sono amato e caro

io sono Stefanino coppolaro

e vivo e campo in mezzo all'immondezzaio

primo cugino di Gibilaro

Sentito che il piombo era salito

fino in Germania era scappato

a Cicchillo mezzo morto è stato trovato

dei suoi stessi cani è stato salvato

Con i cagnolini pronti e ammaestrati

a Stefano lo vedete in mezzo alle strade

arriva sempre col passo leggero

è Stefano col sacco sulla spalla

 

Pino Bullara

Stefano Di Salvo alias Cuppularu

Stefanu Cuppularu

Com'eranu puliti misi na carruzzeddra!

A nica, ca cuppuliddra, era troppu beddra!

I cchiù grossi e 'ranni mi currivanu davanti,

ma i' vuliva beniri propriu a tutti quanti.

 Chiddri nicareddri mi firriavanu 'ntunnu 'ntunnu,

nuddru era cchiù cuntentu di mia, ni 'stu munnu.

Un tozzu 'i pani, 'u truvava 'n tutti i vaneddri,

m'abbastava pi sfamari a mia e i me cagnuleddri.

Chista era la me vita. Nun appi ma' pritinzioni.

A tutti purtavu rispettu e avia tanta  'ducazioni.

A mia però, mi piaciva stari cu i me cani:

eranu cchiù amurusi iddri, ca no 'i cristiani.

 

Stefano Coppolaro

Com'erano puliti messi nella carrozzina!

La piccola, con la coppolina, era troppo bella!

I più grossi e grandi mi correvano davanti,

ma io volevo bene proprio a tutti quanti.

Quelli piccoli mi giravano intorno,

nessuno era più contento di me, in questo mondo.

Un tozzo di pane, lo trovavo in tutte le strade,

mi bastava per sfamare me e i miei cagnolini.

Questa era la mia vita. Non ebbi mai pretese.

A tutti portavo rispetto e avevo tanta  educazione.

A me però, piaceva stare con i miei cani:

erano più affettuosi loro, che le persone.

 

 

 

 

28 - Il ragazzo fenomeno suicida

 

Visse a Favara un ragazzo definito dall’illustre barone Antonio Mendola “un fenomeno misterioso, un arcano incredibile, un enigma inesplicabile”; si tratta di Michele Sanfilippo, figlio dell’avv. Vincenzo e Rosina Vasta. A sedici anni, solitario, senza la conoscenza delle lingue, senza denaro, ma con profondo spirito di avventura, in pieno inverno attraversava l’Europa e si inoltrava fino a Mosca, percorrendo svariate centinaia di chilometri anche a piedi, sulla neve e sui ghiacci. Nell’inverno del 1900 ha percorso parte dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa. Nel gennaio del 1903 si è imbarcato per Candia, per visitare il Pireo di Atene e poi Costantinopoli. Dopo avere disceso i balcani, lacero, barbuto e disfatto dai disagi, s’imbattè in un castello, a Crajova, in Romania, nel pendio dei monti, la cui cresta era confine di regni. Qui abitava un ex generale rumeno, la cui nipote Nicoleska Dorobarez, vedova, con un figlioletto, s’innamorò di Michelino. Intanto egli ripartì per Favara. Dopo un lungo carteggio, Michelino da Favara è ripartito per raggiungere il castello per rivedere la sua amata. Era bene accolto, ben trattato dalla famiglia dell’ex generale, pareva che le nozze fossero state fissate con Nicoleska. In una lettera, però, Michelino diceva di essere annoiato assai della vita aristocratica, facendo intendere che viveva in casa dell’ex generale coi costumi e con le forme di lusso confacenti alla famiglia e si mostrava stufo del nuovo sistema di vita cui non era per nulla avvezzo. Nel mese di marzo 1903, come un fulmine nel ciel sereno, arrivò la notizia in Favara che Michelino si era suicidato nell’hotel Continental, a Bucarest, in Romania, con un colpo di pistola al cuore. Il padre diceva che tutto avrebbe potuto aspettarsi da suo figlio, fuorché il suicidio. Il suicidio davvero non si spiega. Lasciò tre lettere, una diretta all’ex generale ringraziandolo della cortesie ed amorevolezze, una seconda al console italiano e la terza al padre. I giornali, almeno quelli scritti in francese, riportarono il caso come effetto di una passione per una bella vedova di Crajova. Tutto era avvolto nel mistero. Nella lettera scritta al padre asseriva questa grande, sebbene misteriosa verità, cioè che anche in mezzo a ciò che sembra felicità, il cuore dell’uomo non è mai contento. La madre di Michelino, sfogava il suo cuore addolorato in discorsi deliranti, adducendo la causa del suicidio a suo marito, per via di una lettera scritta al figlio, lettera che lo portò alla disperazione e al passo fatale. Chissà come sono andate realmente le cose!

 

Vincenzo ZuccaroVincenzo Zuccaro

 

29 - Vincenzo Zuccaro: un piccolo genio

(da Piero Meli e Sandro Varzi)

 

Di questo prodigioso ragazzino di nome Vincenzo Zuccaro, palermitano, figlio di Benedetto Zuccaro maestro della banda musicale Favarese per più di 15 anni scrisse un breve appunto il barone Antonio Mendola nei suoi diari. Vincenzo Zuccaro nacque a Cefalù il 25 aprile del 1822 da Benedetto e da Lucia de Luca, originari di Caccamo, ma ambedue provenienti da Palermo. Appena nato, fu immediatamente portato in cattedrale dalla signora Paola Maggiore, levatrice, e subito battezzato, perché in grave pericolo di vita. Il padre, professore di flauto e direttore d’orchestra, per guadagnarsi da vivere, vagava da Comune a Comune, portandosi con se il fanciullo (che grazie a Dio sopravvisse) e gli strumenti musicali e iniziando a dargli le basi musicali, giacché doveva egli sicuramente intraprendere per il futuro la medesima professione del padre che, non poteva permettersi di avviarlo agli studi delle belle lettere. Vincenzo, laddove il padre si fermava per qualche giorno a suonare o a dare lezioni di musica, era sempre pensoso e taciturno e se ne stava spesso rannicchiato in un angolo della stanza dove il padre esercitava la sua professione. Ora accadde che suo padre, chiamato da un gruppo di giovani a dirigere una banda musicale, dovette stare sei mesi lontano da casa. Al suo ritorno trovò il piccolo Vincenzo di molto dimagrito e ne chiese il motivo alla moglie la quale rispose che il fanciullo da qualche mese stava sempre sveglio, non riusciva a chiuder occhio la notte e calcolava continuamente tra se e se borbottando numeri: cento, dodici cento, venti trecento....ed inoltre aveva già imparato a contare sino al centinaio giocando con le noccioline. Il padre sorrise e chiese scherzando al fanciullo che cosa avesse da contare e che cosa ne potesse sapere lui di conti. Vincenzo rispose prontamente che faceva il conto di quanti tarì aveva guadagnato il padre l’anno prima, di quanti ne aveva mandati a casa in quei mesi, quanti ne spendeva la madre tutti i giorni e a quanto sommavano per mese e per anno. Contava poi quante stelle ci fossero in cielo, quanti portoni, balconi e quante finestre ci fossero a Cefalù. Il padre lo credeva impazzito ma non si perse d’animo e facendosi coraggio, così per prova, gli chiese: “47 più 38 quanto fanno?” e prontamente il fanciullo rispose “85”; “e chi ti ha insegnato a sommare?” replicò il padre; “Nessuno” rispose Vincenzo;e il padre “dimmi 5 per 9?”; “45” rispose Vincenzo. “Ma chi ti ha insegnato la tavola pitagorica?” chiese il padre, ma il fanciullo non sapeva che cosa fosse detta tavola e la madre affermava che non fosse venuto nessuno a casa. Intanto il padre continuò a porgere a Vincenzo altre domande più difficili, avendo da lui sempre risposte pronte, sicure e velocissime. Sbigottito, dopo aver fatto tutti i riscontri con carta e penna, concluse che le risposte erano tutte esatte. Nel frattempo si confidò con alcuni amici i quali vollero rendersi conto delle meraviglie di Vincenzo e rimasti anche loro sbalorditi, consigliarono don Benedetto di far conoscere il fanciullo ad alcuni nobili e dotti cefalutani o ancor meglio di portarlo nella città di Termini Imerese, che a dir loro era città più dotta. Passarono alcuni mesi e tra la gente locale e del circondario incominciavano a circolare notizie sui prodigi del piccolo Vincenzo, “ Nato e cresciuto nella miseria, nell’ignoranza, deve la sua scienza alla natura che volle formarne un prodigio, fanciullo di statura conforme all’età, fisionomia graziosa, occhi e fronte indicanti riflessione profonda, voce di suono maturo, il quale senza sapere ne leggere e ne scrivere, con la sola forza del suo intelletto, eseguisce a memoria i calcoli numerici di qualunque specie con maggiore facilità e speditezza di quanto si possa attendere dal più esercitato calcolatore e con tale esattezza che sorprende, ciò che Zuccaro fa da se stesso, non lo fanno gli uomini di nessuna età e di nessuna dottrina, come se madre natura avesse rotto le sue leggi”. Nel 1829, il padre ripensando a ciò che ebbe detto dagli amici, un giorno presa una carrozza da Cefalù, portò il piccolo Vincenzo a Termini Imerese. Appena arrivati in quella cittadina, la gente, come se sapesse del suo arrivo, si riversò nelle strade accompagnandolo con giubilo al Palazzo di Città. Qui accolti dalle autorità cittadine, Vincenzo fu invitato a dare una pubblica prova del suo talento, lo invitarono a farsi fare un ritratto e lo decorarono con la medaglia del loro Liceo. In quell’occasione si trovava a Termini, per affari personali, il marchese Giuseppe De Spuches, anima generosa e grande mecenate, che rimase colpito da quel fanciullo, tanto che in seguito, nel corso di quello stesso anno, lo condusse a Palermo prendendolo sotto la sua protezione e aiutandolo negli studi. Egli che assunse l’impegno di presentarlo al capo del governo, non volendo rischiare un tale passo prima di essere sicuro del merito del fanciullo, lo condusse, dal distintissimo matematico prof. Nicolò Cacciatore al quale, Vincenzo all’età di circa sette anni diede un pubblico saggio di calcolo mentale. Questo avvenimento fece parlare di sé i giornali scientifici e letterari più accreditati d’Italia e d’Europa, “Vincenzo Zuccaro fanciullo prodigio di Cefalù, volle dare in questa capitale un nuovo saggio del suo prodigioso talento di calcolare a memoria. Egli tenne perciò nei giorni trascorsi pubblica accademia in una delle grandi sale del Palazzo Calabritto. Scelta e numerosa udienza di personaggi distinti, di scienziati e di cultori d’ogni specie di letteratura v’era concorsa per ammirare uno spettacolo ben poche volte o non mai da altri veduto finora. Il programma delle materie, intorno alle quali poteva essere interrogato il fanciullo, girava di mano in mano agli spettatori e non vi fu un solo che leggendolo non avesse rivolto gli sguardi sul piccolo Zuccaro, come per assicurarsi se la cosa fosse possibile. Ma il dubbio durò ben poco. Alla prima domanda che al ragazzetto si fece: Estraetemi la radice cubica del numero 43.816, ed alla sua pronta risposta: 35 con il resto di 941, al dubbio seguì la sorpresa ed alla sorpresa la meraviglia allorché si andò man mano notando con quale rapidità e sicurezza egli risolvesse tutti i difficili problemi a lui posti. Dopo tali fatti che potremmo noi aggiungere in lode di questo favorito dalla natura? Diremo solo che ai professori nella scienza del calcolo esercitatissimi il tempo mancava per risolvere con la penna quei problemi ch’egli scioglieva senza altro soccorso che della sua memoria”. L’eco dell’accademia pubblica palermitana fu vastissima. Ne parlarono i più autorevoli giornali scientifici e letterari d’oltre faro. Perfino il “The London literary gazette” pubblicò una corrispondenza da Napoli dal titolo “Calculating Boy”. Oltre alla città di Termini Imerese il cui Decurionato riunitosi di proposito il 6 dicembre del 1829 aveva deliberato di proteggere, per quanto poteva, il fanciullo prodigio, anche la municipalità di Palermo volle contribuire al mantenimento e alla cura dello Zuccaro e concesse al De Spuches, che sin dall’inizio ebbe cura del fanciullo, una pensione affinché potesse farlo bene istruire. Vincenzo da quel momento ebbe chiarissimi protettori che tanto influirono per assicurargli una convenevole educazione e agevolare e proteggere le sue naturali virtù. Tra questi il Duca di Gualtieri, presidente del Consiglio dei Ministri. E proprio all’interessamento personale di questi si deve che nel corso del 1831 dal Governo di re Ferdinando, che ormai con impazienza desiderava conoscere direttamente e personalmente gli avanzamenti fatti negli studi, e i particolari progressi nella scienza del calcolo, fu impiegata la somma di 1500 ducati annui per la sua ulteriore istruzione. “ Che un ingegno così promettente non debba essere seguito e coltivato, è cosa irragionevole, bisogna dare lode al Governo delle Due Sicilie che addossandosi la cura del fanciullo Zucchero, gli dà una nobile educazione, di cui la povertà domestica lo avrebbe per necessità lasciato privo ”. Vincenzo Zuccaro, fanciullo prodigio superò brillantemente i problemi a lui sottoposti dai più grandi luminari di quel tempo, come il siciliano prof. Diego Muzio ed esimi matematici come i professori Bata, Fuoco e Casano conosciuti a livello europeo, i quali ebbero a dire di trovarsi di fronte ad un emulo di Archimede e Newton. La meraviglia suscitata dal nostro Zuccaro, non rimase circoscritta solamente in Sicilia e la presenza di numerosi e curiosi stranieri a Palermo portarono la fama del nostro, anche fuori i confini d’Italia. Dalla Francia tramite il barone Sermont, Intendente Generale dell’armata francese in Grecia, si volle da quel Governo decorare il fanciullo prodigio con Medaglia e Croce al merito, alta onorificenza in quel Paese. Nel 1834 veniva accordata al meraviglioso fanciullo calcolatore Vincenzo Zuccaro, l’annua pensione di mille scudi, onde non mancargli un decoroso mantenimento e un industrioso e diligente maestro che potesse riuscire al veloce e completo sviluppo di quell’ingegno, che tanto prometteva. Questo fanciullo, matematico per istinto, che non sapeva né leggere né scrivere, ora per le cure dell’Abate Minardi, destinatogli come istitutore, comprese e spiegò gli autori italiani e latini, prosatori e poeti, dandone pubblica prova. Le notizie sul suo conto si fermano all’anno 1837 quando negli Annali universali di statistica, pubblicati in Milano, in quell’anno, così si legge “ In ordine di tempo la Sicilia ci ha dato Vincenzo Zuccaro, il quale fecesi ammirare a Napoli e a Palermo, ed ora altro siciliano di cognome Pugliesi gira l’italia riscuotendo applausi per il suo improvvisar di calcoli in età fanciullesca”. Da questo momento cala un buio totale sul destino del piccolo Vincenzo Zuccaro, non avendo altre notizie sulla sua vita, sul suo operato, nessun anche ben minimo indizio sugli anni a venire, si presume che il fanciullo prodigio di Cefalù, sia morto prima di aver compiuto la giovane età di 15 anni. Ma non è così. Una lettera autografa dello Zuccaro acquistata da chi scrive in un antiquario di Lucca ci rimette sulle sue tracce. La lettera, datata 20 maggio 1852, da Torino, è indirizzata al ministro delle finanze del governo piemontese che allora era Camillo Benso conte di Cavour. Scrive tra l’altro Vincenzo Zucchero (così si firma, italianizzando il cognome): «Non avendo potuto avere l’onore di parlare con Lei, Sig. Ministro, mi fo ardito d’invitarla a volermi onorare di Sua presenza all’Accademia di calcoli numerici a memoria, che io darò la Sera di Sabato 29 corr. te alle ore 8½ nella Sala del Gabinetto Chimico sita nel Collegio di S. Francesco da Paola. Animato dall’avere il Presidente del Consiglio, Cav. D’Azeglio, accettato filantropicamente simile mio invito, spero che anch’Ella, Sig. Ministro, vorrà onorarmi di sua presenza». Che si tratti del prodigioso fanciullo non c’è alcun dubbio come dimostra un avviso apparso sulla “Gazzetta del Popolo” l’8 marzo del 1852: «Il professore di calcolo mentale estemporaneo, cav. Vincenzo Zucchero, siciliano, che ha dato sin dal 1829 delle accademie di calcoli numerici in tutte le principali città d’Italia, ed altrove, dà ora qui delle lezioni di Aritmetica ed Algebra elementare a prezzi discreti. Egli abita in contrada d’Argennes n. 6, piano 1º, e si trova in casa dalle 9 alle 11 antim. tutti i giorni». Come e perché fosse finito nella capitale piemontese a guadagnarsi da vivere esibendosi in pubbliche accademie e impartendo lezioni private è un’altra storia, un’altra avventura di questo singolare personaggio cefaludese. A svelarlo un documento dell’archivio di Stato di Torino, l’estratto dal ruolo matricolare degli ufficiali del corpo volontari italiani intestato a Vincenzo Zuccaro fu Benedetto e fu Lucia De Luca nato il 22 aprile 1822 a Cefalù. Un documento che ci riconsegna un “altro” Zuccaro acceso patriota e garibaldino, un combattente per l’indipendenza della Sicilia e per l’Unità nazionale. Dopo le speranze disattese nello studio delle scienze esatte, forse scaricato dal governo borbonico, si era arruolato nel maggio del ‘48 come volontario nei dragoni di Lombardia; il 21 ottobre però è in Sicilia dove il Parlamento Generale lo nomina primo tenente del genio. Ma dopo la caduta di Catania, nell’aprile del ‘49, prende la via dell’esilio, a Londra. Qui, senza mezzi economici e senza conoscere una sola parola di inglese, s’ingegnerà a sbarcare il lunario, sfidando al gioco del domino, dov’era abilissimo, gli avventori nei piccoli bar gestiti da italiani, vincendo infallibilmente la sua magra consumazione quotidiana. Nel ‘52 è, come abbiamo detto, a Torino. Il 19 giugno del ‘59 in qualità di commissario piemontese insieme al capitano Giovanni Pagliacci e al tenente Antonio Del Buono verrà mandato da Cesare Mazzoni presso il governo provvisorio di Perugia, per predisporre la difesa della città dall’assalto delle truppe pontificie. Alla fine degli scontri del 21 giugno verrà dato per disperso. L’anno successivo invece accorre nuovamente in Sicilia tra le file garibaldine col grado di capitano di fanteria dell’armata dell’Italia meridionale. Modesto e riservato, chiuderà la sua carriera nell’esercito nel distretto militare di Bari, ignoto agli storici e ai cultori di cose di Sicilia. Nel volume “Gli emigrati politici siciliani dal 1840 al 1860”, Alessio di Santostefano della Cerda ricorda d’averlo visto più volte uscire in fin di mese dall’ufficio del Direttore dei Conti stringendo “amorosamente” nella mano la busta che conteneva il suo magro stipendio di militare: «appariva convinto che verso lui, umile gregario, la patria ripagava il suo debito di riconoscenza».

 

L’occasione del restauro del dipinto “Ritratto di Fanciullo”, di ignoto pittore siciliano del XIX secolo, posseduto dal barone Enrico Pirajno di Mandralisca, di proprietà oggi della omonima Fondazione Culturale, realizzato grazie al finanziamento del Circolo Italo-Tedesco Gaggenau e compiuto dalla restauratrice cefaludese Dott.ssa Antonella Tumminello, mi ha spinto ad iniziare una serie di ricerche riguardo il giovane personaggio ritratto in questa tela, sino ad oggi rimasto sconosciuto. Conoscendo bene tutto il patrimonio pittorico e librario appartenuto al Mandralisca, la mia memoria mi venne in aiuto facendomi ricordare di una litografia su carta che raffigurava un fanciullo che meritò di essere effigiato, in ricordo ai posteri, per dei meriti particolari che non ricordavo bene.Spulciando i vari inventari ecco trovare una litografia corrispondente al mio ricordo “Litografia raffigurante il fanciullo prodigio Vincenzo Zuccaro, nato nella Comune di Cefalù, addì 22 aprile 1822”. Trovata la litografia nei depositi, volli fare subito un confronto e il sorprendente risultato fu quello che i due personaggi risultarono pressoché identici nella fisionomia, differenti nella cronologia dell’abbigliamento, che tuttavia aveva in comune la presenza di un colletto riccamente ricamato. Il primo passo sembrava compiuto, il personaggio ritratto non è altro che il fanciullo cefaludese Vincenzo Zuccaro. Ma chi era costui? Che meriti ebbe per meritarsi una litografia, un ritratto ad olio su tela? Come mai il barone Enrico ci tenne ad avere dei ritratti, in ricordo di un personaggio a lui contemporaneo e che di sicuro ebbe occasione di conoscere personalmente? Conosciuto ora il suo nome e cognome iniziai delle ricerche sistematiche anche nell’archivio della Famiglia Mandralisca e nel fondo librario storico, nella speranza di trovare qualche cosa a me utile. Poco ci volle e mi imbattei in una pubblicazione dal titolo “Sopra il famoso fanciullo Vincenzo Zuccaro, epistola di Ferdinando Malvica”, Palermo 1829. Ecco scoperto l’arcano, finalmente fui in grado di capire chi fosse il fanciullo, il perché di quei ritratti e l’interesse che ebbe il Mandralisca nei suoi confronti. A voi il resto, affinché possiate avere il piacere di scoprire chi fu Vincenzo Zuccaro, fantastico fanciullo prodigio di Cefalù, del Regno delle due Sicilie, d’Italia, d’Europa.

Sandro Varzi

 

 

30 - Giovan Battista Ambrosini e il pesce d’aprile

 

Nel 1906 a Favara quasi non si pensava più al pesce d’aprile, le miserie e le afflizioni da un pezzo avevano tarpato le ali al genio burlesco della popolazione. All’inizio del mese di aprile, quando nessuno se l’aspettava arrivava un bel pesce: una lettera diretta a Giovan Battista Ambrosini (originario di Nola, padre del più noto costituzionalista Gaspare), ex maresciallo dei CC. ed in quel periodo esattore delle imposte dirette a Favara. La lettera arrivava da Napoli, a firma dell’on. Nicolò Gallo ed annunziava allo spasimante di medaglie che Sua Maestà lo aveva decorato con le insegne di cavaliere e soggiungeva di dover ringraziare il prefetto di Girgenti, il sindaco, l’assessore Lentini e il delegato di P. S. di Favara. Ecco il pesce entrato nel porto di Ambrosini tanto ambizioso di vanità, quanto ingenuo e avaro. Se non ci fosse stato impresso a stampa sulla busta “Camera dei Deputati” il pesce non avrebbe abboccato, ma siccome l’ambizione spesso vince l’avarizia, Ambrosini fu ben lieto di sborsare i soldi per la tassa della lettera, beatificandosi e portando la felice notizia a parenti e amici. Il corrispondente Spadaro assaporò un pezzettino di questo pesce spedendo la notizia per la pubblicazione al Giornale di Sicilia. La signora Carmela Lentini (moglie di Ambrosini) direttrice delle scuole elementari femminili riceveva congratulazioni e ringraziava. Quando Ambrosini andò a ringraziare il sindaco, l’assessore Lentini e il delegato di P. S. e tutti si mostrarono assolutamente ignari ed estranei al fatto, cominciò ad insospettirsi. Spedì lettere e telegrammi a Napoli e a Roma, ma tutto fu silenzio. Il pesce era stato già digerito dai birboni che lo avevano fatto cadere nella loro rete. Ambrosini in fin dei conti era una buona persona e forse non meritava una simile burla, ma è un duro fato che ai vanitosi spesso toccano questi bocconi amari, queste disillusioni ridicole e quel che è più umilianti.

 

Mongolfiera caduta nell'Adriatico

 

31 - Pasquale Andreoli: una vita da romanzo

 

Pasquale Andreoli nacque il 22 novembre 1771 a Falconara Marittima, nel Castello di Rocca Priora, dai fattori del marchese Trionfi. Fin da giovanissimo si appassionò alla fisica applicandosi nello studio del calcolo degli immensi spazi del cielo, divenendo uno dei pionieri dell'aeronavigazione. Dopo gli studi nel seminario di Ancona, divenne sacerdote nel 1794. Forse il suo sì alla vita consacrata era stato pronunciato troppo in fretta: una ragazza di Bologna gli fece perdere la testa. S'innamoro, quindi cambiò vita nel 1799, anno in cui si svestì definitivamente dai paramenti sacri. Si trasferì sotto le due torri ove si avvicinò alla fisica, allo studio dell'aria e della matematica. Fu qui che divenne amico di un aerostiere, di uno di quei folli del cielo che, solleticati dalle idee dei Montgolfier, s'applicava per vincere la forza di gravità, per dare all'uomo le ali. Erano passati vent'anni da quel 21 novembre 1783, giorno in cui, all'ora di pranzo, sul Bois de Boulogne comparve maestoso un grosso pallone azzurro e oro. Il giovane fisico Pilatre de Rozier e il marchese di Arlandes si sollevarono da terra fino a raggiungere i mille metri d'altezza, suscitando ammirazione per mezz'ora, là sotto quell'involucro di tela e carta gonfio d'aria calda. Il bolognese Francesco Zambeccari dettagliò all’Andreoli i segreti del cielo. Doveva essere un affascinante avventuriero questo Zambeccari: chissà quante cose avrà avuto da raccontare uno che, da cadetto delle guardie reali a Madrid impegnato nella caccia dei pirati del Mediterraneo, fu impegnato a difendere i territori spagnoli negli anni della rivoluzione americana a L'Avana. In seguito si stabilì a Parigi dove vide coi suoi occhi il prodigio dei Montgolfier e l'aeronautica divenne il suo chiodo fisso anche quando fece parte della marina militare russa fino al 1787. I turchi lo catturarono e tornò a Bologna. Non avendone avuto abbastanza, contrasse un matrimonio che gli mise la famiglia contro. La notte dell'8 ottobre 1803, Zambeccari, Andreoli e il fisico romano Gaetano Grassetti, dalla Montagnola di Bologna, si sollevarono con un pallone a doppia camera che raggiunge una quota così elevata che gli aeronauti perdettero conoscenza fino a quando non si ritrovano nelle acque dell'Adriatico. Gettando rapidamente fuori bordo tutto quanto fu possibile, compresi strumenti, viveri e indumenti, i tre riuscirono a riguadagnare quota per poi ricadere presso le coste istriane dove, stremati e quasi assiderati, vennero tratti in salvo da una barca di pescatori. Il pallone, liberato dal peso degli occupanti, riprese nuovamente quota per poi atterrare definitivamente presso la località di Ripac, in Bosnia. Ritornarono, non senza acciacchi, a Bologna. Ci riprovarono l'anno successivo, tuttavia un altro ammaraggio di fortuna suggerì ad Andreoli di pensare con la propria testa. Prendendo le distanze da Zambeccari (che trovò la morte proprio per uno dei suoi voli azzardati), iniziò a costruire aerostati. Il 18 ottobre 1807, Pasquale Andreoli, decollando questa volta dalla nuova Arena di Milano, raggiunse la quota di 7.600 metri con un pallone a doppia camera.  Memorabile fu l'impresa del 22 agosto del 1808 a Padova quando insieme allo scienziato Carlo Brioschi, compiva con il suo pallone aerostatico il primo volo in Italia a scopo esclusivamente scientifico, raggiungendo la quota di quasi 8.300 metri che rimase il record di altitudine per palloni ad aria calda fino ad una trentina di anni fa, ma in cui caddero in uno stato di torpore per l’alta quota. Ed eccolo a Forlì dove nel 1809, con Ottavio Albicini, progettò e realizzò un nuovo modello di aerostato chiamato "La Speranza" e diede alle stampe un manuale che ne spiegava la storia e le caratteristiche: un manuale dove l'intrepido volatore scrisse per tramandare ai suoi sostenitori della perfezione di questa Macchina. Si cimentò in diversi voli, prima nella stessa Forlì, poi a Brescia e in altre città lombarde fino a che l'avanzare dell'età terminò la sua carriera di pioniere dell'aria. La sua vita irrequieta lo spinse verso il Mezzogiorno d'Italia. Morì di colera in Sicilia, a Terranova, attuale Gela, nel 1837. Diverse congiunture mi portano a pensare che il Pasquale Andreoli appassionato alla fisica, alla matematica e ai palloni aerostatici e il Pasquale Andreoli approdato a Favara intorno al 1820, dopo un periodo di permanenza nel napoletano, a cui il Ministro Segretario di Stato per gli affari di Sicilia, accordò l’esclusiva per l'introduzione in Sicilia di macchine a vapore per filare e tessere seta e cotone della forza da 8 a 12 cavalli, siano la stessa persona. Pasquale Andreoli sposò la bolognese Anna Neri da cui nacque Mario Federico intorno al 1808. Trasferitisi a Favara Mario Federico sposò la favarese Domenica Rindina vedova Valdinoto (oriundo del regno di Napoli, poi passato a Ravanusa). Da questo matrimonio nacquero Pasquale nel 1861 e Carmela nel 1865. La famiglia dimorò nella via Fasulo (preesistente via nei pressi dell’incrocio fra il c.so V. Emanuele e la via Umberto). Federico morì nel 1880 e fu sepolto nella chiesa di S. Calogero a Favara. Pasquale iunior nel 1897 sposò l’insegnante Maniglia Assunta. Ebbero un primo figlio nel 1901 che chiamarono Mario, come il nonno, che, purtroppo morì dopo un mese e mezzo. Nel 1902 Assunta si sgravò di due gemelli: un maschietto nato morto e una femminuccia che volle chiamare Maria Assunta, come la madre, disgraziatamente morta a causa del parto.

 

 

32 - Peppi Burduni

(di Giuseppe Maurizio Piscopo)

 

Venghino signori venghino che andiamo a cominciare lo spettacolo in questa pubblica piazza ... . Siamo a Favara il paese storico della Sicilia ricco di personaggi e artisti vari, sparsi in ogni angolo sperduto del mondo. Dice il proverbio: Favarisi unu ogni paisi e si un ci nn’è megliu è! Ma lasciamo i proverbi ed entriamo nella vita vera… Signore e signori, gentilissimo pubblico non pagante, ecco a voi l’uomo più forte del mondo, l’uomo capace di sollevare un bue sulle sue spalle, provare per credere. Una cosa mai vista prima…

Questo accadeva a Favara negli anni del dopoguerra e con questa enfasi veniva raccontata ai bambini della mia generazione la storia di Giuseppe Biancavilla più noto come Peppi Burduni che a me ricorda le indimenticabili scene di Zampanò interpretate da Antony Quinn nel film La Strada di Federico Fellini.

Giuseppe Biancavilla nacque a Favara l’11 novembre del 1910 da Ferdinando e Rosalia Bonadonna, entrambi sarti. Dopo essersi trasferito a Ventimiglia nel 1955, a seguito della morte del padre, rientrò definitivamente a Favara abitando in via Giudice. Di Peppe si ricordano tante cose: aveva la forza di Sansone, di Primo Carnera; costruiva gli aquiloni e faceva felici tutti i bambini; costruiva i palloni aerostatici e li faceva volare da Piazza Garibaldi al Carmine. Ogni cosa che faceva lasciava incantati grandi e piccini, sia per la forza fisica da cui proviene il suo soprannome, sia per la passione che metteva in tutte le cose. Indimenticabili i racconti degli anziani. Era insuperabile nelle gare al tiro alla fune. da una parte c’erano otto persone e dall’altra solo lui e riusciva a vincere lasciando tutti a bocca aperta, facendo battere forte il cuore a chi lo seguiva. Non disdegnava la lotta ed era solito fare a pugni con coloro che mettevano in discussione la sua forza, memorabili gli scontri con Cicciu Ummardu (il famigerato Francesco Lombardo). Peppi Burduni organizzava la corsa coi sacchi e i giochi per i ragazzi, il tiro alla fune e u iocu da n’tinna. Si racconta che un giorno fece una scommessa e dichiarò testualmente: Sono capace di sollevare un bue sulle mie spalle . Molti non credettero a questa affermazione, ma rimasero sorpresi e meravigliati quando Peppi riuscì in questa folle impresa. La storia fece il giro della Sicilia e lui rimase un mito per tutti! Gira una foto scattata a San Leone da Angelo Bottone, (che qui pubblichiamo), mentre regge cinque persone sopra il suo corpo. A tanta forza fisica si legava un forte contrasto: al personaggio corrispondeva un’anima semplice e ingenua dei fatti del mondo e della vita stessa. Morì il 24 maggio del 1959. Quel giorno fu un tristissimo giorno. La pioggia arrivò all’improvviso, inaspettata.

Avevo appena compiuto sei anni e stavo recandomi a scuola a Cruci, a piedi, da solo con il grembiulino nero e il cestino. Per la prima volta vidi un carro funebre, quello dei poveri, non sapevo il significato della morte. Continuai a cantare e a mangiare per strada e addentare un panino. Da piccolo avevo sempre fame. Sentii la gente che sussurrava, oggi è morto l’uomo più forte del mondo, se fosse nato in un altro paese sarebbe stato chiamato in un grande circo, se fosse nato in America l’avrebbero scritturato a Hollywood come attore. Ma chi è morto chiese una vecchietta? La risposta non si fece attendere, – è morto Giuseppe Biancavilla, disse un tale. Ma che dice!, intervenne subito un altro, murì Peppi Burduni e u paisi ristà all’agnuni

A questo grande e dimenticato personaggio favarese voglio dedicare la canzone:

 

Pi la festa di San Giuseppi

Pi la festa di San Giuseppi li picciotti nescinu tutti, schetti nichi e maritati, e ci su licchiù ammucchiati.

Nesci la figlia di donna Pippina, lassa la sporta e si metti a vistina, e lu viddranu finisci i zappari,ca lu vistitu si voli n‘cignari.

E c’è la zita ca sta ni Cavatu,ca tutta a famiglia appressu ha purtatu,e si lu zitu si voli abbrazzari,puru u signali ci tocca aspittari.

E ni la chiazza la banna ca sona,senti ciauru di turruna,n’celu volanu li palluna forti sparanu li mascuna.

E li signuri du circulu civili, vidiniu l’opra e si piglianu abili iddri si sentinu raffinati ca a n’andru munnu parinu nati.

E c’è Peppi ca vinni palluna 50 o corpu sennò un vi nni duna e li palluna li chiù unchiati cu quattru corpi l’aviti scattati.

E ni la chiazza la banna ca sona senti ciauru di turruna n’celu volanu li palluna forti sparanu li mascuna.

C’è cu si vonta c’è cu talia pi cu è zitu è fissaria pi cu si voli maritari megliu mumentu n’un po’ truvari!

 

(nelle foto Giuseppe Biancavilla e mentre solleva contemporaneamente cinque uomini)