Una breve storia
di
Giacomo La Russa
La
storia di un quadro, di un uomo e di un paese. Il quadro l’ha dipinto il
pittore
Maurizio Carloni
(Cingoli 22-11-1941 – Pavullo 2001). Un gruppo
di case cesellate sulla cima di un monte circondato da valli e da una
striscia di mare lontano. Trasferitosi bambino a Bologna, il pittore ha
dovuto portare con sé l’idea del villaggio come dimensione oltre che
come luogo, come anima prima ancora che territorio. Giovanissimo è poi
venuto in Sicilia per insegnare e, come intuisco dalle poche note
biografiche rintracciate su internet, per conoscere un mondo che lo
ispiri, che ne appaghi l’inquietudine, il bisogno di sapere e di dire. E
il desiderio, io penso, di raccontare un angolo di terra. Il suo
cambiamento. La sua perdita e il suo dolore. Perché c’è già tutto questo
nella tela che, in occasione di una mostra organizzata presso i Padri
Vocazionisti, compra mia madre. Un pugno di visi smarriti, impauriti che
si stringono attorno a Pauliddru Portolano, il banditore cieco che si
erge al centro, il vestito spiegazzato, la pesante tracolla di cuoio, il
tamburo variopinto, i leggeri mazzuoli tra le dita, il capo che implora
verso il cielo, la guancia scavata e la bocca appena schiusa come una
ferita da cui sembra partire un grido. Sono loro, sullo sfondo di una
violenta parete rossa che il pittore ha voluto surreale, i personaggi di
strada che, come il coro di una tragedia greca, dicono di un paese che
si trasforma e si perde, che diventa moderno e dimentica se stesso. Che
abbraccia il cemento e cancella la pietra. Che abbatte i confini e
smarrisce la sua forma antica. Sono loro che, senza nemmeno saperlo, ci
dicono di una civiltà che è povera ma non ha smesso di produrre e di
un’altra in cui si starà meglio ma solo per consumare. Così, anche i due
contadini, relegati in un angolo della tela, su muli che sembrano
zigzagare sopra i gradini sconnessi di una vecchia scalinata, sono
rimpiccioliti, appesantiti, marginali, anonimi, sconfitti. “Eravamo
colleghi al magistrale”, mi dice mia madre per telefono quando le chiedo
qualcosa sull’autore. “Stava dalle parti di San Calogero”, continua lei
che, nonostante tutto, non si rassegna e vuole che io sappia, “aveva
preso una casa in affitto. E ne ho conosciuto anche la moglie e la
figlia. Era ancora una bambina quando è andato via”. In basso, appena
sotto il pugno chiuso di Ntò Ntò che stringe una cicca sbilenca e guarda
verso il mondo di fuori col muso apparentemente duro e un po’
animalesco, tracciata in bianco, accanto al nome del pittore, c’è la
data: ’65. Ed è questo, dunque, il quadro che sono andato a recuperare
nella vecchia casa colonica dove sono cresciuto, ai margini del paese,
in una di quelle rare incursioni durante le quali, di tanto in tanto,
respiro un’altra aria e mi riapproprio di qualcosa. Muovendomi cauto e
silenzioso tra pareti umide, mura scrostate, scale di legno impolverate,
libri abbandonati e pavimenti antichi che provano a raccontare ancora
qualcosa. Ma questa volta ho deciso di staccarlo dal muro dove si trova
da oltre cinquant’anni, in salone, appena dietro la porta, e di portarlo
via, di caricarlo sulla macchina e di tenermelo qui, in casa, coi
personaggi che, bambino, vedevo vagare per strada e con lo scorcio di
quel paese di cui ho avuto la fortuna di
cogliere le ultime tracce prima
che venisse inghiottito da una modernità senz’anima.
nov. 2018 Max Carloni (figlio di Maurizio)
Ho
visitato Favara un paio di volte, la prima volta nel 1985, allora avevo
undici anni, ma ricordo benissimo quella bellissima vacanza in Sicilia,
un viaggio che per mio padre fu un vero tuffo nei ricordi. Erano passati
circa 20 anni, da quando aveva lasciato la Sicilia per tornare in
Emilia, ma in quell’occasione ritrovò tanti amici. La mia seconda volta
a Favara è stata qualche anno fa e quell’occasione fu un po’ più triste
perché ero solo con mia Mamma - Papà ci aveva lasciati nel 2001 a causa
di un male incurabile - ma furono anche giorni emozionanti e pieni di
affetto. Venne intitolata a Papà la biblioteca dell’istituto M. L. King
e fummo a dir poco travolti dalla vostra straordinaria ospitalità.
Parlai ai ragazzi dell’istituto, raccontai loro chi era stato mio padre
e quanto, nonostante le distanze ed il tempo, fosse rimasto legato a
Favara. Fu davvero un momento straordinario.
(Nella
foto un dipinto di Maurizio Carloni del 1967)
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